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Art. 314 - Peculato (1)

1. Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro anni a dieci anni e sei mesi (2).

2. Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.

(1) Articolo così sostituito dall’art. 1, L. 86/1990.

(2) Comma così modificato dall’art. 1, comma 75, lett. c), L. 190/2012 e, successivamente, dall’art. 1, comma 1, lett. d), L. 69/2015.

Rassegna di giurisprudenza

Elemento oggettivo

In tema di peculato, la nozione di possesso, riferita al danaro, deve intendersi come comprensiva non solo della detenzione materiale, ma anche della disponibilità giuridica, con la conseguenza che l'appropriazione può avvenire anche attraverso il compimento di un atto - di competenza del pubblico agente o connesso a prassi e consuetudini invalse nell'ufficio - di carattere dispositivo, che consenta di conseguire l'oggetto della appropriazione (Sez. 6, 37076/2021).

Per la consumazione del delitto di peculato è necessario che i beni siano caduti nella disponibilità giuridica dell’agente in senso penalistico, il quale, nella condotta di appropriazione, deve avere ricoperto la veste di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, approfittando della posizione funzionale al fine di procedere alla interversione del possesso dei beni o del denaro di cui già era in grado di disporre in forza dell’esplicazione dei compiti e dei doveri di rilevanza pubblicistica (Sez. 6, 9136/2019).

Non è rilevante ai fini dell’integrazione del peculato che il denaro sia di proprietà dello stesso ente pubblico presso cui opera il pubblico ufficiale, ma solo che si tratti di denaro di spettanza di altri e di cui l’agente sia venuto in possesso in ragione della funzione pubblica svolta (Sez, 6, 8050/2019).

La natura plurioffensiva del reato di peculato implica che l’eventuale mancanza di danno patrimoniale conseguente all’appropriazione non esclude la sussistenza del reato, atteso che rimane pur sempre leso dalla condotta dell’agente l’altro interesse protetto dalla norma, diverso da quello patrimoniale, cioè quello del buon andamento della pubblica amministrazione (Sez. 6, 29262/2018).

La mera compresenza di una finalità pubblicistica non elide di per sé la configurabilità del peculato, qualora il perseguimento del pubblico interesse non costituisca l’obiettivo principale dell’agente (fattispecie in cui un dipendente di un ente pubblico si è servito nella medesima occasione della vettura di servizio sia per fini d’istituto che per ragioni private) (Sez. 2, 23019/2015).

Nel delitto di peculato può assumere rilievo anche la concreta ingerenza di fatto nel maneggio del denaro (Sez. 6, 33254/2016).

Il reato di peculato non è ravvisabile a seguito del mero mancato rispetto delle procedure previste per l’effettuazione delle spese nell’interesse dell’amministrato, ma solo in presenza di una condotta appropriativa o, comunque, che si risolva nell’uso dei fondi o dei beni per finalità estranee all’amministrato (fattispecie inerente alla condotta appropriativa di un amministratore di sostegno) (Sez. 6, 29617/2016).

Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che ha ricevuto denaro per conto della pubblica amministrazione realizza l’appropriazione sanzionata dal delitto di peculato nel momento stesso in cui egli ne ometta o ritardi il versamento, cominciando in tal modo a comportarsi "uti dominus" nei confronti del bene del quale ha il possesso per ragioni d’ufficio. Integra pertanto il delitto di peculato, che è un reato a consumazione istantanea, la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che omette o ritarda di versare ciò che ha ricevuto per conto della P.A., in quanto tale comportamento costituisce un inadempimento non ad un proprio debito pecuniario, ma all’obbligo di consegnare il denaro al suo legittimo proprietario, con la conseguenza che, sottraendo la "res" alla disponibilità dell’ente pubblico per un lasso temporale ragionevolmente apprezzabile, egli realizza una inversione del titolo del possesso "uti dominus" (Sez. 6, 10890/2019).

In ambito penale deve essere provata la concreta appropriazione, cui deve ricollegarsi nella sua materialità l’offensività della condotta, almeno in termini di alterazione del buon andamento della P.A.: l’accertamento dell’effettiva appropriazione, cioè dell’illecita interversione, sul piano probatorio può essere tuttavia surrogato da situazioni altamente significative, come quelle derivanti dalla assoluta mancanza di allegazioni o dall’inosservanza di un esistente e specifico obbligo di documentazione, in presenza del quale la mancanza di giustificazioni finisce di per sé per evocare l’interversione (Sez. 6, 35683/2017).

Elemento soggettivo

L’agente del delitto di peculato deve essere consapevole dell'appropriazione: la natura generica del dolo del delitto in parola comporta che, ai fini della configurabilità dell'elemento soggettivo è sufficiente che coscienza e volontà ricadano sulla condotta di appropriazione del denaro di cui il pubblico ufficiale abbia la disponibilità per ragioni del suo ufficio, a nulla rilevando i motivi che lo hanno indotto a quel comportamento, in quanto concernenti il momento antecedente del movente a delinquere (La Corte, nello scrutinio del caso in esame, afferma che occorre distinguere tra un errore sul fatto dell'appropriazione e un errore sulla legge che, in quanto tale, non ha efficacia scriminante. L’imputato era accusato del delitto di peculato perché, quale addetto all'incasso dei contributi-pasto presso la mensa di servizio di un aeroporto militare, si era appropriato della somma di euro 18,40, incassata quale contributo mensa, annotando sul bollettario delle ricevute conservate nella contabilità di reparto il differente e minore importo di euro 4,60 per ciascuno dei versamenti. Nella ricostruzione l'azione dell'imputato sarebbe suddivisa in due fasi: quella di compilazione incompleta della matrice "madre" al momento del pagamento da parte dell'avventore e quella successiva di completamento della redazione della stessa. Ma né nella prima né nella seconda fase sembra sussistere il dolo di appropriazione delle somme: nella prima fase, perché non si ipotizza nemmeno che, in quel momento, egli avesse già deciso di apporre una diversa cifra sulla matrice "madre" e, quindi, di appropriarsi della differenza tra le somme indicate nelle due matrici; nella seconda fase, perché si accetta l'ipotesi che la compilazione errata della matrice "madre", con apposizione di una somma inferiore a quella risultante dalla ricevuta "figlia" consegnata all'avventore, sia avvenuta per errore, quindi in mancanza di consapevolezza dell'appropriazione della somma) (Sez. 1, 25774/2022).

L’errore del pubblico ufficiale circa la propria facoltà di disposizione di un bene pubblico per fini diversi da quelli istituzionali non configura un errore di fatto su legge diversa da quella penale, atto ad escludere il dolo, ma costituisce errore o ignoranza della legge penale il cui contenuto è integrato dalla norma amministrativa che disciplina la destinazione del bene pubblico (Sez. 6, 13038/2016).

Peculato d’uso

Integra il delitto di peculato d’uso la condotta dell’appartenente ad una forza di polizia che utilizzi l’auto di servizio per esigenze personali (ipotesi di utilizzo dell’autovettura di servizio per recarsi da una prostituta) (Sez. 6, 5206/2018).

Non è configurabile il reato di peculato nell’uso episodico ed occasionale di un’autovettura di servizio, quando la condotta abusiva non abbia leso la funzionalità della pubblica amministrazione e non abbia causato un danno patrimoniale apprezzabile (Sez. 5, 37186/2019).

La reiterazione dell’utilizzo del bene comporta la pluralità di reati ex art. 314, comma secondo, eventualmente avvinti dal vincolo della continuazione (Sez. 6, 14040/2015).

Il peculato d’uso non è mai configurabile rispetto alle condotte di appropriazione di denaro, in quanto la natura fungibile di tale res non consente - dopo l’uso - la restituzione della stessa cosa, ma solo del "tantundem" (Sez. 6, 49474/2015).

Costituisce peculato ordinario e non peculato d’uso l’utilizzo continuativo e sistematico di un bene mobile della pubblica amministrazione, effettuato con criteri personalistici ed al di fuori di ogni controllo, tanto che non sia più possibile stabilire se ed in quale misura il bene rimanga ancora destinato a finalità pubblicistiche (Sez. 6, 53974/2016).

Qualifica soggettiva e casistica

Integra il delitto di peculato, e non quello di truffa aggravata, la condotta del funzionario di un ente pubblico incaricato dell'esecuzione di pagamenti (il cosiddetto ordinatore di spesa), che sottoscrive mandati di pagamento non dovuti per somme di denaro di cui ha la diretta disponibilità. In tale ipotesi, infatti, non assumono rilievo le eventuali falsificazioni poste in essere dal funzionario per giustificare sul piano formale la procedura di pagamento, bensì la disponibilità giuridica delle somme oggetto dei mandati di pagamento. (In motivazione, la Suprema Corte ha evidenziato come quel che rileva ai fini del peculato è il possesso del bene, che, in caso di danaro, deve intendersi riferito non solo alla detenzione materiale, ma anche alla disponibilità giuridica, che si identifica con il potere conferito al pubblico agente di emettere i mandati di pagamento e impartire al tesoriere l'ordine di provvedere al pagamento stesso) (Sez. 6, 18335/2022).

L’attività di raccolta del risparmio postale, specificamente e autonomamente contemplata dall'art. 2, comma primo, lett. b), DPR 144/2002 - effettuata per conto della Cassa depositi e prestiti, attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi - riveste natura pubblicistica. Ne consegue che il dipendente di Poste Italiane S.p.a. quando si appropria di somme di denaro afferenti al risparmio postale (libretti postali e buoni fruttiferi postali) riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio e pertanto risponde del reato di peculato e non di quello di appropriazione indebita (Sez. 6, 11641/2021).

Integra il reato di peculato la condotta del gestore o dell’esercente degli apparecchi da gioco leciti di cui all’art. 110, sesto e settimo comma, TULPS, che si impossessi dei proventi del gioco, anche per la parte destinata al pagamento del PREU, non versandoli al concessionario competente (SU, 6087/2021).

Il presidente di un gruppo consiliare regionale riveste la qualifica di pubblico ufficiale poiché partecipa, nel suo ruolo, alle modalità progettuali ed attuative della funzione legislativa regionale, nonché alla procedura di controllo del vincolo di destinazione dei contributi erogati al gruppo (Sez. 6, 49976/2012).

È configurabile il delitto di peculato nei confronti del presidente di un gruppo consiliare regionale che abbia autorizzato il rimborso ai singoli consiglieri delle c.d. "spese minute", nonostante la mancanza di qualsiasi giustificativo comprovante la causale e il beneficiario della spesa, essendo egli obbligato, dalla vigente normativa regionale in tema di obbligo di rendicontazione, al controllo della destinazione dei fondi a lui resi disponibili in ragione del ruolo istituzionale ricoperto. Presupposto fondamentale di tale assetto ermeneutico è la corretta individuazione della natura dell’attività svolta dal presidente di un gruppo consiliare regionale, che proprio in ragione del ruolo da lui rivestito si ritiene assumere una posizione di particolare incidenza funzionale ed organizzativa nella vita del Consiglio regionale: egli, infatti, concorre  attraverso la partecipazione alla Conferenza dei presidenti dei gruppi  alla organizzazione e calendarizzazione dei lavori dell’assemblea, alla organizzazione delle altre attività consiliari propedeutiche a quelle direttamente legiferanti e alla indicazione dei membri del proprio gruppo di riferimento che compongono le commissioni previste dallo Statuto in seno al Consiglio regionale. Una serie di facoltà e di poteri il cui esercizio (Sez. 6, 49976/2012) esalta la rilevanza della figura del presidente del gruppo, rendendolo diretto partecipe di una peculiare modalità progettuale ed attuativa della funzione legislativa regionale, che lo qualifica senza dubbio come pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 357, comma 1. Siffatta qualifica soggettiva, a prescindere dalla natura giuridica che voglia riconoscersi ai gruppi consiliari (ancor oggi controversa e di non agevole definizione sia in dottrina che in giurisprudenza), si coniuga alla disciplina di diritto pubblico dell’azione svolta dal gruppo in seno al Consiglio regionale e alla stessa rilevanza pubblica che in questo specifico contesto operativo assumono le attività svolte dai presidenti dei vari gruppi consiliari, anche in relazione al su indicato, rilevante, profilo della partecipazione all’esercizio della funzione legislativa regionale. Per effetto di tale pubblica funzione di presidente del gruppo consiliare regionale ha il possesso delle somme di denaro oggetto delle erogazioni regionali, sul cui corretto impiego è chiamato a vigilare. Ininfluenti devono ritenersi due ulteriori, e distinti, profili ricostruttivi della fattispecie in esame: a) la qualità del soggetto giuridico cui appartiene il denaro in possesso del pubblico ufficiale che se ne appropria, essendo sufficiente la sola "altruità" del bene (denaro nel caso di specie) sul quale il pubblico ufficiale ha il potere  per ragioni del suo ufficio  di compiere atti dispositivi ed essendo irrilevante che il suo proprietario sia un soggetto pubblico o un soggetto privato, con l’ulteriore ovvia conseguenza logica, nel caso di specie, della irrilevanza della soluzione che si intenda fornire al quesito circa la natura pubblicistica o privatistica dei gruppi consiliari regionali; b) l’analisi "dei coefficienti di discrezionalità riconoscibili al soggetto politico agente nella individuazione delle causali delle singole operazioni di spendita del predetto denaro, allorquando la condotta di personale appropriazione di questo stesso soggetto risulti conclamata ed inequivoca. Né validi argomenti in senso contrario potrebbero trarsi, diversamente da quanto sostenuto nel ricorso, dalla prospettata interpretazione di un precedente giurisprudenziale di questa Corte (Sez. 6, 33069/2003), secondo cui l’attività di un gruppo consiliare estranea alla diretta partecipazione ai lavori dell’assemblea dell’ente pubblico territoriale sarebbe sempre scandita da nessi di collegamento funzionale con la vita e le esigenze del gruppo inteso come proiezione del partito politico dei cui progetti e interessi è portatore. Con tale pronuncia, per vero, si è affermato il principio secondo cui non risponde del delitto di peculato il presidente del gruppo consiliare provinciale che si appropri di contributi ottenuti dalla provincia per l’esplicazione dei compiti del proprio gruppo, impiegandoli per sostenere spese di propaganda politica o di rappresentanza (nella specie, per l’acquisto di materiale propagandistico e di oggetto-regalo di modesto valore per gli elettori, per pranzi e rinfreschi in occasione di incontri pre-elettorali), trattandosi di attività, benché non istituzionali, comunque legate da nesso funzionale con la vita e le esigenze del gruppo Siffatta decisione non si pone l’obiettivo di dare una risposta al quesito sulla vera e/o persistente, in tutte le situazioni, natura giuridica (pubblica o privata) del gruppo consiliare presente in una assemblea provinciale, ma si pone, invece, il problema di definire limiti e portata del vincolo di destinazione impresso ai contributi erogati dall’ente Provincia al gruppo consiliare. Ciò al fine di tracciare, secondo criteri compatibili con il principio di determinatezza delle condotte penalmente rilevanti, la pertinenzialità dell’avvenuto impiego (spendita) da parte del gruppo (e per esso del suo presidente) dei contributi provinciali agli scopi e obiettivi che di essi contributi costituiscono causa. Analoghe considerazioni devono svolgersi, poi, sotto diverso ma connesso profilo, in relazione ad un altro precedente (Sez. 6, 35683/2017), che ha escluso il delitto di peculato nel caso in cui non sia fornita giustificazione in ordine al contributo erogato per l’esercizio delle funzioni di un gruppo consiliare regionale, non potendo derivare l’illiceità della spesa da tale mancanza, ma dovendosi comunque fornire piena prova dell’appropriazione e dell’offensività della condotta, quanto meno in termini di alterazione del buon andamento della pubblica amministrazione. A tale esito decisorio il giudice di legittimità è pervenuto muovendo dall’assunto che, nel caso ivi sottoposto alla sua cognizione, uno specifico obbligo di rendiconto in capo ai presidenti dei gruppi, tale da costituire parametro idoneo all’espletamento di un controllo cui correlare l’esplicitazione documentale delle relative giustificazioni di spesa, non era contemplato dalla normativa vigente nella Regione Sicilia ed è stato introdotto in via generale solo dal DL 174/2012, convertito con modificazioni dalla L. 213/2012, cui la Regione Sicilia ha dato attuazione nel 2014, con il logico corollario che in ambito penale la mancanza di coeva giustificazione non integra strutturalmente il reato de quo, discendendo quest’ultimo pur sempre da una concreta condotta di appropriazione, che va provata dalla parte pubblica, laddove una diversa impostazione ricostruttiva condurrebbe a ravvisare il reato anche in presenza di una destinazione lecita della spesa, pur debitamente allegata. Anche nel caso appena citato, tuttavia, si è ribadita la configurabilità del delitto di peculato "allorché possa dirsi che il soggetto beneficiario della contribuzione l’abbia destinata ad un utilizzo diverso e non compatibile con quello ragionevolmente riconducibile all’ambito delle attività che il Gruppo svolge o può svolgere in funzione dell’apporto che deve arrecare all’Organo assembleare". In un caso del genere, infatti, si registra sia il presupposto rappresentato dalla disponibilità da parte del pubblico ufficiale, per ragioni inerenti alla sua veste e alla sua funzione, di una somma di denaro, sia l’elemento costitutivo del delitto, rappresentato dall’appropriazione di quella somma, attraverso l’esercizio di un potere di disposizione non corrispondente a quello conferito, implicante l’utilizzo del bene come cosa propria, da cui può discendere sia un profilo di danno patrimoniale, sia una lesione dell’interesse al buon andamento della P.A. Nella medesima prospettiva ermeneutica è significativo rilevare come, in altro passaggio motivazionale della pronunzia da ultimo citata, si sia ulteriormente rimarcato, nel solco dell’indirizzo già delineato alla luce del su indicato tracciato interpretativo, che "la complessità e il multiforme carattere delle funzioni del Gruppo non vale ad escludere la dimensione pubblicistica dell’erogazione dei contributi e la veste di pubblico ufficiale del Presidente del Gruppo". Perfettamente in linea con tali approdi interpretativi deve altresì ritenersi il quadro di principii delineato dalle Sezioni unite civili (SU civili, 23257/2014) in tema di giurisdizione di responsabilità contabile sulla gestione delle dotazioni pubbliche dei gruppi partitici dei consigli regionali. A tale riguardo, la Corte ha affermato il principio secondo cui la gestione dei fondi pubblici erogati ai gruppi partitici dei consigli regionali è soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti, che può giudicare, quindi, sulla responsabilità erariale del componente del gruppo autore di "spese di rappresentanza" prive di giustificativi; né rileva, ai fini della sussistenza della giurisdizione contabile, la natura  privatistica o pubblicistica  dei gruppi consiliari, attesa l’origine pubblica delle risorse e la definizione legale del loro scopo, o il principio dell’insindacabilità di opinioni e voti ex art. 122, comma 4, Cost., che non può estendersi alla gestione dei contributi, attesa la natura derogatoria delle norme di immunità. L’affermazione della giurisdizione contabile trova adeguata giustificazione, come posto in risalto dalla su richiamata decisione delle Sezioni unite civili, "nell’avvenuta prospettazione di un pregiudizio connesso a condotta idonea a frustrare la coerenza dell’utilizzazione dei contributi pubblici erogati con gli specifici vincoli ad essi impressi dalla legge". Nella elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni unite civili, infatti, la giurisdizione della Corte dei conti viene a radicarsi in funzione non della qualità dell’agente (che ben può essere un privato), ma della natura delle risorse utilizzate e della predeterminazione dello scopo attraverso di esse perseguito: circostanze, queste, che, "attribuendo centralità alla configurabilità di un danno a carico della cosa pubblica e non al quadro di riferimento, pubblico o privato, nel quale si colloca la condotta produttiva del danno medesimo, elidono la rilevanza del carattere privato dell’attributario. Ne discende, pertanto, che "l’eventuale carattere puramente privatistico dei gruppi consiliari e dei relativi componenti non presenterebbe comunque carattere dirimente ai fini dell’esclusione del sindacato della giurisdizione contabile della Corte dei conti sulla gestione dei contributi pubblici erogati ai gruppi consiliari per il loro funzionamento" (SU civili, 23257/2014). A tale riguardo, peraltro, è la stessa Corte costituzionale, nel riprendere affermazioni risalenti alle proprie decisioni 187/1990 e 1130/1988, ad accentuare la connotazione pubblicistica delle funzioni svolte dai gruppi costituiti in seno ai consigli regionali definendoli (sentenza 39/2014), come "organi del consiglio e proiezioni dei partiti politici in assemblea regionale, ovvero come uffici comunque necessari e strumentali alla formazione degli organi interni del consiglio", in sintonia con la circostanza, che pure ne evidenzia la funzionale inerenza all’istituzione regionale piuttosto che al partito, della esistenza di gruppi "misti" (afferenti a plurime ed eterogenee istanze politiche) nonché di gruppi unipersonali. Analoga accentuazione della dimensione pubblicistica delle funzioni svolte dai gruppi consiliari, del resto, è visibile nella evoluzione della giurisprudenza del Consiglio di Stato, che dopo un’iniziale pronunzia (932/1992) ove erano state tenute distinte le strutture burocratico-amministrative del Consiglio regionale e della Regione dall’organizzazione interna del gruppo, dovendosi considerare lo stesso quale formazione associativa a carattere politico e temporaneo e proiezione in Consiglio dei partiti, con la sentenza 8145/2010 ha attribuito minor rilievo alla connessione gruppi-partiti. Secondo tale giudice amministrativo infatti: "(...) in via generale il gruppo consiliare non è un’appendice del partito politico di cui è esponenziale ma ha una specifica configurazione istituzionale come articolazione del consiglio regionale, i cui componenti esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato dai partiti e dagli elettori (...)". Sulla medesima linea interpretativa dianzi illustrata in tema di giurisdizione sulla gestione delle dotazioni pubbliche dei gruppi consiliari si colloca, inoltre, una successiva decisione delle Sezioni unite civili (SU civili, 10094/2015). Nell’affermare il principio secondo cui le somme erogate ai partiti politici a titolo di rimborso delle spese elettorali, nella disciplina anteriore alla L. 96/2012, non recano un vincolo di destinazione pubblicistica, sicché la condotta appropriativa del tesoriere del partito non dà luogo a responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione del giudice contabile, ma a responsabilità civile soggetta alla giurisdizione del giudice ordinario, tale pronuncia della Corte ha avuto cura di precisare «la diversità della materia sottoposta alla sua cognizione, siccome concernente, giustappunto, le questioni relative alla gestione delle somme erogate ai partiti politici a titolo di rimborso delle spese elettorali". Nella motivazione della decisione or ora citata, infatti, il Supremo collegio ha espressamente affermato che la soluzione in tal guisa adottata non intendeva certo discostarsi da quella «adottata da queste Sezioni Unite (con l’ordinanza 31 ottobre 2014, n. 23257, cui hanno fatto seguito le ordinanze 21 aprile 2015, n. 8077, 28 aprile 2015, n. 8570, e 29 aprile 2015, n. 8622) con riguardo alla gestione dei fondi pubblici erogati ai gruppi partitici dei consigli regionali, la quale è stata ritenuta soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti, che può quindi giudicare sulla responsabilità erariale del componente del gruppo autore di "spese di rappresentanza" prive di giustificativi. A detta conclusione, infatti, la Corte è pervenuta, nella citata ordinanza 23257/2014, sulla base dei seguenti presupposti: (a) considerando che i gruppi consiliari hanno "natura pubblicistica" "in rapporto all’attività che li attrae nell’orbita della funzione istituzionale del soggetto giuridico, assemblea... regionale, nel cui ambito sono destinati ad operare"; (b) sottolineando che i contributi pubblici sono erogati ai gruppi consiliari "con gli specifici vincoli ad essi impressi dalla legge": vincoli "dettagliatamente predefiniti... con esplicito esclusivo asservimento a finalità istituzionali del consiglio regionale e non a quelle delle associazioni partitiche o, tanto meno, alle esigenze personali di ciascun componente"; (c) tenendo conto della qualifica di pubblico ufficiale, ai sensi dell’art. 357 comma 1, che la giurisprudenza penale della Corte attribuisce al presidente del gruppo partitico del consiglio regionale: questi infatti, nel suo ruolo, partecipa alle modalità progettuali ed attuative della funzione legislativa regionale, nonché alla procedura di controllo del vincolo di destinazione dei contributi erogati al gruppo». In conclusione, gli atti dispositivi, di tipo bancario e negoziale, dall’imputato compiuti in assenza di giustificazioni diverse da quelle riconducibili al perseguimento di un interesse meramente privato o di arricchimento personale, rientrano dunque nel perimetro applicativo della figura criminosa tipizzata dall’art. 314, correlandosi alla oggettiva connotazione di "altruità" del denaro, sottratto al gruppo consiliare che ne era proprietario avvalendosi della disponibilità giuridica a lui direttamente facente capo in ragione della assunzione della pubblica funzione di presidente del gruppo consiliare regionale (Sez. 6, 1561/2019).

In tema di peculato per distrazione delle somme percepite quali contributi dai gruppi consiliari regionali, deve escludersi la legittimità dell’impiego di fondi pubblici in relazione a spese non giustificate o rispetto alle quali siano prodotti scontrini o fatture privi di giustificazione o recanti indicazioni talmente generiche da impedire la verifica della loro riconducibilità all’attività istituzionale, quali scontrini di acquisto di beni, titoli di viaggio o ricevute di consumazioni presso bar e ristoranti senza alcuna menzione dell’identità degli ospiti o dell’occasione (Sez. 6, 53331/2017).

La giustificazione causale della singola spesa, intesa come indicazione puntuale e coeva della sua destinazione nell’ambito delle finalità strettamente connesse alle specifiche competenze ed attribuzioni istituzionali dei soggetti che ne possono disporre, costituisce invero una vera e propria condizione necessaria per la liceità della spesa stessa, in assenza della quale si determina interversione del possesso ed appropriazione, perché si realizza un’utilizzazione intrinsecamente illecita (Sez. 6, 49990/2018).

Per "spese di rappresentanza" possono considerarsi soltanto quelle destinate a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell’ente pubblico al fine di accrescere il prestigio della sua immagine e darvi lustro nel contesto sociale in cui si colloca (Sez. 6, 16529/2017). Le spese in esame devono assolvere il preciso scopo di consentire all’ente pubblico di intrattenere rapporti istituzionali e di manifestarsi all’esterno in modo confacente ai propri fini pubblici, dovendo pertanto rivestire il carattere della "inerenza", nel senso che devono essere strettamente connesse con il fine di mantenere o accrescere il ruolo, il decoro e il prestigio dell’ente medesimo, nonché possedere il crisma della "ufficialità", nel senso che esse devono finanziare manifestazioni della pubblica amministrazione idonee ad attrarre l’attenzione di ambienti qualificati o dei cittadini amministrati al fine di ricavare i vantaggi correlati alla conoscenza dell’attività amministrativa (Sez. 6, 49990/2018).

La qualità di pubblico ufficiale non presuppone necessariamente un rapporto di impiego con la pubblica amministrazione, essendo sufficiente che l’agente partecipi ad attività autoritativa o certificativa, regolate da norme di diritto pubblico. Pertanto, devono ritenersi pubblici ufficiali i medici abilitati al rilascio delle certificazioni attestanti l’idoneità al conseguimento, revisione o conferma di validità della patente di guida, in quanto esercenti una funzione pubblica di certificazione (fattispecie in cui è stato ravvisato il peculato nella condotta di un medico dipendente di un’ASP, abilitato dall’ufficio della Motorizzazione civile al rilascio dei certificati per l’idoneità alla guida, che si era appropriato delle somme corrisposte per il rilascio delle certificazioni mediche) (Sez. 6, 8050/2019).

Integra il delitto di peculato la condotta del medico il quale, avendo concordato con la struttura ospedaliera lo svolgimento dell'attività libero - professionale consentita dal d.P.R. 20 maggio 1987 n. 270 (cosiddetta "intra moenia") e ricevendo per consuetudine dai pazienti (anziché indirizzarli presso gli sportelli di cassa dell'ente) le somme dovute per la sua prestazione, ne ometta il successivo versamento all'azienda sanitaria. Infatti, per quanto la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio non possa essere riferita al professionista che svolga attività intramuraria (la quale è retta da un regime privatistico), detta qualità deve essere attribuita a qualunque pubblico dipendente che le prassi e le consuetudini mettano nelle condizioni di riscuotere e detenere denaro di pertinenza dell'amministrazione (Sez. 6, 15945/2021).

In caso di esercizio dell’attività libero-professionale nell’ambito della struttura ospedaliera consentita dal DPR 270/1987 (cosiddetta intramoenia), integra il delitto di peculato la condotta del medico il quale, ricevendo per consuetudine dai pazienti (anziché indirizzarli presso gli sportelli di cassa dell’ente) le somme dovute per la sua prestazione, ne ometta il successivo versamento all’azienda sanitaria. Infatti, per quanto la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio non possa essere riferita al professionista che svolga attività intramuraria (la quale è retta da un regime privatistico), detta qualità deve essere attribuita a qualunque pubblico dipendente che le prassi e le consuetudini mettano nelle condizioni di riscuotere e detenere denaro di pertinenza dell’amministrazione (Sez. 6, 25255/2012).

L’attività di raccolta del risparmio postale, specificamente e autonomamente contemplata dall’art. 2, comma primo, lett. b), DPR 144/2002 - effettuata per conto della Cassa Depositi e prestiti, attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi - riveste natura pubblicistica. Ne consegue che il dipendente di Poste Italiane S.p.A. quando si appropria di somme di denaro afferenti al risparmio postale (libretti postali e buoni fruttiferi postali) riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio e pertanto risponde del reato di peculato e non di quello di appropriazione indebita (Sez. 6, 14227/2017).

Le Federazioni sportive assumono connotazione pubblicistica allorché agiscono come organi del CONI, in relazione all’esercizio delle attività sportive ricadenti nell’ambito di rispettiva competenza (Sez. 6, 38562/2015), con la conseguenza che la condotta appropriativa del responsabile della cassa di una Federazione sportiva integra il delitto di peculato quando ha ad oggetto fondi pubblici erogati per la promozione dell’attività sportiva (Sez. 7, 1326/2019).

Non configura il delitto di peculato, bensì un mero inadempimento contrattuale, il mancato versamento al Comune appaltante, da parte della società incaricata di un servizio di gestione, della quota pattuita in relazione alle somme riscosse dai privati a titolo di corrispettivo del servizio prestato dalla società, in quanto il denaro non corrisposto all'ente pubblico non è qualificabile come "altrui" ab origine rispetto al soggetto obbligato. (In motivazione, la Suprema corte ha evidenziato che l'oggetto materiale della condotta di peculato, costituito dal denaro o altra cosa mobile, è connotato dalla "altruità", sanzionandosi l'appropriazione di detti beni da parte di colui che, pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, ne abbia il possesso o la disponibilità in ragione dell'ufficio o servizio espletato. Conseguentemente, nel caso in esame, relativo ai parcheggi comunali a pagamento, atteso che il denaro versato dagli utenti del servizio di parcheggio nei parcometri installati e di proprietà della società concessionaria era di diretta pertinenza della stessa società e non del Comune, cui spettava solo una percentuale del 30% sulle somme incassate con cadenza trimestrale, l'omesso versamento nelle casse comunali della quota degli introiti pattuita non manifesta l'appropriazione, da parte del soggetto obbligato, di denaro appartenente fin dall'origine alla P.A. appaltante, integrando piuttosto un mero inadempimento del relativo obbligo contrattuale nei confronti del Comune. Infatti, tali somme non sono originariamente dovute alla P.A. dal soggetto obbligato, ma trovano la propria causa nella prestazione resa dal gestore del pubblico servizio di parcheggio a pagamento, della quale costituiscono corrispettivo) (Sez. 6, 37674/2020).

L’attività di accertamento e riscossione dell’imposta comunale ha natura di servizio pubblico e l’obbligazione del concessionario di versare all’ente locale le somme a tale titolo incassate ha natura pubblicistica, essendo regolata da norme che deviano dal regime comune delle obbligazioni civili in ragione della tutela dell’interesse della pubblica amministrazione creditrice alla pronta e sicura esazione delle entrate. Ne consegue che il rapporto tra società ed ente si configura come rapporto di servizio, in quanto il soggetto esterno si inserisce nell’iter procedimentale dell’ente pubblico, come compartecipe dell’attività pubblicistica di quest’ultimo, e la società concessionaria riveste la qualifica di agente contabile, non rilevando in contrario né la sua natura di soggetto privato, né il titolo giuridico in forza del quale il servizio viene svolto, ed essendo necessario e sufficiente che, in relazione al maneggio di denaro, sia costituita una relazione tra ente pubblico ed altro soggetto, per la quale la percezione del denaro avvenga, in base a un titolo di diritto pubblico o di diritto privato, in funzione della pertinenza di tale denaro all’ente pubblico e secondo uno schema procedimentale di tipo contabile. Muovendo da tali premesse, si deve ritenere che il gestore della struttura, incaricato della riscossione dell’imposta di soggiorno in esame, rivesta la qualità di incaricato di pubblico servizio, anche in assenza di un preventivo, specifico incarico da parte della pubblica amministrazione, in considerazione della natura prettamente pubblicistica della sua attività - di compartecipe dell’attività amministrativa del Comune quale ente impositore, anche in considerazione degli obblighi gravanti sugli albergatori, tenuti alla presentazione delle dichiarazioni relative all’imposta di soggiorno versata dai clienti e all’integrale riversamento della stessa al Comune - sì come direttamente disciplinata dalle norme di diritto pubblico istitutive della relativa imposta. Il gestore incorre pertanto nel delitto di peculato se non versa alla PA l’imposta di soggiorno che ha incamerato per suo conto e che le è dovuta (Sez. 6, 6130/2019).

A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 180 del DL 34/2020 (cd. decreto rilancio), convertito nella legge n. 77 del 20 luglio 2020, non è configurabile il delitto di peculato nella condotta del gestore della struttura ricettiva che ometta di versare al Comune le somme riscosse a titolo di imposta di soggiorno (Sez. 6, 30227/2020).

In virtù dell’entrata in vigore della disposizione di cui all'art. 5-quinquies, L. 215/2021, devono ritenersi non più sussumibili nel delitto di peculato le condotte di mancato, ritardato o parziale versamento dell'imposta di soggiorno, poste in essere dal gestore di una struttura ricettiva in epoca antecedente all'entrata in vigore del DL 34/2020, ossia alla data del 19 maggio 2020; lo stesso, infatti, sarà ora chiamato a risponderne solo in sede amministrativo-tributaria ai sensi dell'art. 13 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471. Ciò, in quanto la citata novella legislativa ha inteso assegnare efficacia retroattiva alla disposizione più favorevole, che ha attribuito all’operatore turistico la qualifica soggettiva di responsabile d’imposta, così escludendo la precedente veste giuridica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio (Sez. 6, 9213/2022).

Integra il reato di peculato il notaio che si appropria di somme ricevute dai clienti per il pagamento dell’imposta di registro riguardante atti di compravendita immobiliare da lui rogati (Sez. 6, 20132/ 2015).

La fattispecie incriminatrice di cui all’art. 316 - da ritenere marginale e residuale rispetto a quella del peculato sanzionato dall’art. 314 - può essere configurata esclusivamente nel caso in cui l’agente profitti dell’errore in cui il soggetto passivo già spontaneamente versi, come si desume dalla dizione della norma incriminatrice che, nel prevedere la condotta del "giovandosi dell’errore altrui", postula che si tratti di un errore preesistente ed indipendente dalla condotta del soggetto attivo. In particolare, si è affermato in maniera condivisibile che l’errore che rende configurabile la meno grave ipotesi di peculato prevista dall’art 316 deve cadere sull’"an" o sul "quantum debeatur". L’art. 316, infatti, sanziona penalmente la disonestà del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che viene meno al suo dovere di non accettare denaro o cose che gli siano consegnate per errore, o a quello di restituirle subito dopo di essersi avveduto dell’errore: in tali casi, infatti, l’agente si giova dell’errore di colui che consegna denaro, che non è in realtà tenuto a corrispondere alcunché, o è tenuto a corrispondere una somma diversa e minore rispetto a quella consegnata (Sez. 6, 4907/2019).

Integra l’appropriazione necessaria a configurare il delitto di peculato la vendita di un bene a un prezzo irrisorio, e non semplicemente di favore, del tutto sproporzionato al suo valore, compiuta nel contesto di procedure funzionali a gestioni liquidatorie di interesse pubblico. (fattispecie relativa alla cessione di azioni di società pubbliche in liquidazione coatta amministrativa) (Sez. 6, 43133/2017).

In tema di peculato, il possesso qualificato dalla ragione dell’ufficio o del servizio non è solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (Sez. 6, 9660/2015).

Commette il delitto di peculato il portalettere che, avendo la disponibilità per ragioni del suo servizio di pacchi contro assegni, si appropri dei relativi bollettini di spedizione e dei rispettivi importi, spettanti ai legittimi creditori (Sez. 6, 35512/2013).

Integra il delitto di peculato d’uso la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che utilizza per fini personali la connessione internet sul computer dell’ufficio in suo possesso (Sez. 6, 34524/2013).

Non integra né il delitto di peculato, né quello di abuso d’atti d’ufficio la condotta del pubblico funzionario che utilizzi per ragioni personali l’accesso ad internet del computer d’ufficio qualora per il suo esercizio la P.A. abbia contratto un abbonamento a costo fisso (Sez. 6, 41709/2010).

I titolari di tabaccheria delegati alla riscossione delle tasse automobilistiche vanno considerati incaricati di pubblico servizio poiché essi, per le incombenze loro affidate, subentrano nella posizione della P.A. e svolgono mansioni che ineriscono al corretto e puntuale svolgimento della riscossione medesima (Sez. 6, 28974/2013).

Commette il delitto di peculato il mandatario dell’Automobile Club Italiano che si appropria delle somme riscosse per le tasse automobilistiche (Sez. 6, 28424/2013).

In tema di peculato, la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il telefono d’ufficio per fini personali al di fuori dei casi d’urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni, integra il reato di peculato d’uso se produce un danno apprezzabile al patrimonio della P.A. o di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità dell’ufficio, mentre deve ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative (SU, 19054/2013).

In tema di peculato, nessuna efficacia esimente può attribuirsi alla causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto, quando i beni che costituiscono oggetto della condotta delittuosa appartengono alla pubblica amministrazione (SU, 19054/2013).

Il peculato d’uso costituisce una figura autonoma di reato e non una mera circostanza attenuante del peculato previsto dal primo comma dello stesso articolo (Sez. 6, 46244/2012).

Risponde del delitto di peculato l’amministratore di beni confiscati in sede di prevenzione il quale stipuli a proprio favore polizza assicurative a nome delle società destinatarie del provvedimento di confisca, e con frequenza periodica prelevi, versandole sul proprio conto corrente, somme ad asserito titolo di acconto sul suo compenso professionale, senza munirsi della preventiva e necessaria autorizzazione dell’Agenzia del Demanio (Sez. 6, 33472/2011).

Integra il delitto di peculato la guardia giurata di un aeroporto che, avendone la disponibilità per ragioni di servizio, si appropri degli oggetti volontariamente lasciati dai passeggeri ai filtri di sicurezza predisposti per i controlli delle partenze aeroportuali (Sez. 6, 25695/2011).

Integra il delitto di peculato l’esattore di una società privata incaricata dal Comune per il recupero dei crediti relativi al mancato pagamento delle sanzioni per le infrazioni del codice della strada, il quale si appropri delle somme riscosse, atteso che egli nell’espletamento di tale funzione è un pubblico ufficiale (Sez. 6, 41307/2010).

Integra il delitto di peculato la condotta del curatore che si appropri dei beni di una società fallita, dei quali abbia il possesso in ragione del suo incarico, isolandoli dal patrimonio fallimentare e spostandoli dal luogo in cui sono custoditi al fine di poterli utilizzare "uti dominus" all’interno del proprio studio professionale (Sez. 6, 37750/2010).

Non integra il delitto di peculato la condotta del pubblico ufficiale che utilizzi arbitrariamente a proprio beneficio l’attività lavorativa prestata dal suo sottoposto, atteso che l’energia umana, non essendo cosa mobile, non è suscettibile di appropriazione (Sez. 6, 35150/2010).

Integra il delitto di peculato il curatore dell’eredità giacente che si appropri di un bene ereditario, anche qualora sia stato nominato all’esito di una procedura attivata in assenza dei presupposti di legge (Sez. 6, 34335/2010).

Integra il delitto di peculato la condotta dell’ufficiale di PG che, subito dopo aver rinvenuto della sostanza stupefacente e senza provvedere alla redazione di formale verbale di sequestro, proceda alla sua distruzione mediante dispersione (Sez. 6, 12611/2010).

L'elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell'art. 61 n. 9, va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene (fattispecie in cui la Suprema corte ha ritenuto corretta la qualificazione del fatto-reato come peculato, essendosi il ricorrente appropriato di somme di cui doveva ritenersi avesse la disponibilità giuridica o mediata in ragione del suo servizio, in quanto responsabile dei servizi finanziari ed economo del Comune ed avendo in tale veste - talora in attuazione di una prassi non del tutto ortodossa, ma tollerata in via di fatto - predisposto in piena autonomia i mandati di pagamento, intestati a se stesso o alla propria collega, incassando denaro di cui, pertanto, egli aveva la disponibilità giuridica) (Sez. 6, 22238/2021).