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Art. 319-ter - Corruzione in atti giudiziari (1)

1. Se i fatti indicati negli articoli 318 e 319 sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la pena della reclusione da sei a dodici anni (2).

2. Se dal fatto deriva l’ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a cinque anni, la pena è della reclusione da sei a quattordici anni; se deriva l’ingiusta condanna alla reclusione superiore a cinque anni o all’ergastolo, la pena è della reclusione da otto a venti anni (3).

(1) Articolo aggiunto dall’art. 9, L. 86/1990.

(2) Comma così modificato dall’art. 1, comma 75, lett. h), n. 1), L. 190/2012 e, successivamente, dall’art. 1, comma 1, lett. g), n. 1), L. 69/2015.

(3) Comma così modificato dall’art. 1, comma 75, lett. h), n. 2), L. 190/2012 e, successivamente, dall’art. 1, comma 1, lett. g), n. 2), L. 69/2015.

Rassegna di giurisprudenza

Per la configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziari ciò che rileva è che il pubblico ufficiale nel compiere un atto del proprio ufficio possa incidere sull’esito del processo nella necessità che l’atto o il comportamento sia contrassegnato da una finalità non imparziale che per ragioni di amicizia, per prospettive di vantaggi economici o di benefici pubblici o privati sia diretta a favorire o danneggiare una parte del processo nella irrilevanza che l’atto in concreto sia o non sia contrario ai doveri di ufficio.

La valorizzazione della finalità e quindi dell’elemento soggettivo del fatto operata dalla norma sulla corruzione in atti giudiziari, per espresso e letterale richiamo nella prima contenuto alla corruzione impropria e propria (art. 319-ter), assume carattere preponderante così da elidere ogni distinzione tra atto contrario ed atto di ufficio ed attribuire rilievo al fatto che l’autore del reato venga meno ai doveri di terzietà ed imparzialità che presiedono alla corretta dialettica processuale (SU, 15208/2010).

Per la configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziari non è necessario che l’atto richiesto al pubblico ufficiale in cambio di un vantaggio indebito sia illegittimo, giacché ciò che rileva è che esso sia contrario ai doveri di ufficio e che risulti confluente in un atto giudiziario destinato ad incidere negativamente sulla sfera giuridica di un terzo (Sez. 6, 24349/2012).

Le disposizioni ordinamentali dirette a preservare terzietà ed imparzialità della funzione giudiziaria, tra le quali rilevano le norme sull’astensione dei giudici (art. 51 CPC e art. 36 CPP), divengono integrative del reato di corruzione di cui all’art. 319-ter in quanto alla loro violazione consegue la strumentalizzazione della funzione pubblica sub specie dello sviamento della giurisdizione che resta alterata dal perseguimento di interessi particolari, confliggenti con quello istituzionale (Sez. 6, 35267/2018).

In materia di corruzione in atti giudiziari integra il reato di cui all’art. 319-ter la contaminazione del libero ed indipendente esercizio della funzione giurisdizionale e quindi il metodo con cui si giunge alla decisione che potrebbe risultare compromessa pur nella sua formale correttezza, da un inquinamento a monte (Sez. 6, 24349/2012).

La nozione di "parte" accolta dalla giurisprudenza di legittimità nell’applicazione dell’art. 319 è differente e più ampia rispetto a quella utilizzata nel processo, sia penale che civile. Quanto al primo, in particolare, secondo un orientamento costante, deve ritenersi che la qualità di "parte", rilevante ai sensi dell’art. 319-ter, comma 1, va attribuita non solo all’imputato ma anche all’indagato e a chi dovrebbe rivestire tale qualità.

Sebbene prima dell’esercizio dell’azione penale non si sia ancora instaurato un processo e, quindi, non vi siano propriamente parti processuali, tale conclusione mira a garantire che l’attività giudiziaria (complessivamente intesa e non limitata al processo stricto sensu) sia svolta imparzialmente e a evitare l’irragionevole conseguenza di punire ex art. 319-ter chi, per ipotesi, concludesse un accordo corruttivo con il pubblico ufficiale per sottrarsi alla condanna, e non anche chi concludesse il medesimo accordo per impedire l’instaurazione nei suoi confronti di un procedimento penale.

Le coordinate ermeneutiche che sorreggono tali premesse conducono a adottare nell’applicazione dell’art. 319-ter una nozione sui generis di parte processuale anche nell’ambito dei procedimenti di natura civilistica: poiché l’articolo 319-ter involge l’attività giudiziaria (da preservare nel complesso) e non solo il suo estremo terminale rappresentato dal provvedimento conclusivo del giudizio, devono ritenersi parti ai sensi del predetto articolo tutti i soggetti nei cui confronti gli atti procedimentali sono destinati a produrre effetti, e che da essi, dunque, possono trarre diretto vantaggio o possono essere danneggiati.

Infatti, è stato ravvisato il reato in oggetto in casi in cui le condotte corruttive erano state attuate nel corso di procedure concorsuali, a vantaggio di professionisti, che ottenevano la nomina a curatori fallimentari, e ha qualificato come parti anche i soggetti acquirenti i beni della massa.

Queste conclusioni non possono che estendersi anche alle procedure di esecuzione forzata delle quali le procedure concorsuali condividono la stessa natura (pur differenziandosene per essere forme di tutela collettiva e non individuale delle pretese creditorie): anche i soggetti acquirenti e gli istituti di vendite giudiziarie possono considerarsi parti processuali ex art. 319-ter, perché partecipano alla procedura esecutiva e per loro producono effetti i provvedimenti del giudice (Sez. 6, 34549/2018).

Ai fini della sussistenza del reato in esame non è necessario che l’atto richiesto al pubblico ufficiale in cambio di un vantaggio indebito debba essere in sè illegittimo, giacché ciò che rileva è che esso sia contrario ai doveri dell’ufficio e che risulti confluente in un atto giudiziario idoneo destinato ad incidere sul suo concreto funzionamento e sull’esito del procedimento giudiziario.

Per quanto le modalità di realizzazione del delitto di corruzione in atti giudiziari siano sostanzialmente le stesse della corruzione, le peculiarità del reato di cui all’art. 319-ter, funzionale all’adozione di un atto talvolta implicante la soluzione di questioni giuridiche complesse, talaltra di valutazioni discrezionali, rendono meno agevole la stessa valutazione di conformità o contrarietà dell’atto ai doveri d’ufficio. Deve ritenersi non decisiva la mera verifica della regolarità formale del provvedimento, potenzialmente compatibile con un atto frutto di corruzione, perché ciò che assume rilievo qualificante è la contaminazione del libero ed indipendente esercizio della funzione giurisdizionale.

In altre parole la corruzione di cui all’art. 319-ter si caratterizza rispetto alle altre figure di mercimonio di pubbliche funzioni in quanto diretta ad influire sulle sorti di un processo e, in ragione del richiamo contenuto nel primo comma della norma ai precedenti articoli 318 e 319, si perfeziona non solo quando il pubblico ufficiale riceva un’utilità per compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio, ma anche nel caso in cui lo stesso pubblico ufficiale accetti una retribuzione per compiere un atto d’ufficio. In quest’ultima eventualità la commercializzazione della funzione (a parte la possibile violazione dell’imparzialità c.d. "esterna", riconducibile all’art. 318, quale per esempio quella relativa ai tempi della pratica) conferisce pur sempre al corruttore quanto meno un vantaggio psicologico nella vicenda giudiziaria, sotto il profilo della sicurezza della condotta del corrotto, e, in tal modo, altera anch’essa la normale dialettica processuale.

Ne deriva, sul piano probatorio, che, per dimostrare la violazione dell’art. 319-ter, è sufficiente accertare un collegamento causale tra l’erogazione dell’utilità diretta ad alterare la dialettica processuale e l’atto del pubblico ufficiale, senza che sia poi necessario verificare ulteriormente se l’atto compiuto fosse o meno legittimo, consono o meno al canone dell’opportunità (Sez. 6, 19496/2018).

L’atto d’ufficio oggetto del patto corruttivo può essere inteso sia come atto formale, sia come attività che costituisce estrinsecazione dei poteri-doveri inerenti all’ufficio ricoperto o la funzione in concreto esercitata, potendosi risolvere anche in un comportamento materiale rispetto al quale sia individuabile un rapporto di congruità con la posizione istituzionale del soggetto agente e di causalità con la retribuzione indebita. Non è necessario neppure che il corrotto abbia una competenza specifica ed esclusiva in relazione all’atto da compiere, essendo sufficiente una competenza generica, che gli consenta di interferire o comunque influire sull’emanazione dell’atto che gli derivi dall’appartenenza all’ufficio o dalla funzione di rilievo pubblicistico in concreto.

Del resto, ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 319-ter deve considerarsi atto giudiziario non soltanto l’atto del giudice, bensì l’atto funzionale ad un procedimento giudiziario, sicché rientra nello stesso anche la deposizione testimoniale resa nell’ambito di un processo penale e l’atto del direttore sanitario presso una casa circondariale, anche se non legato dall’Amministrazione Penitenziaria da un rapporto di pubblico impiego.

A maggiore ragione rientra nella fattispecie in esame l’atto del funzionario di cancelleria, collocato nella struttura dell’ufficio giudiziario, che esercita un potere (l’assegnazione del processi tramite manipolazione dei criteri automatici di assegnazione, l’occultamento del fascicolo per evitare la fissazione dell’udienza e favorire il decorso del termine prescrizionale, la trasmissione ritardata degli atti alla Corte di Cassazione) idoneo ad incidere sul suo concreto funzionamento e sull’esito del procedimento giudiziario, come tutti gli elementi probatori acquisiti comprovano nel presente caso.

Altrettanto deve dirsi con riferimento agli atti dei pubblici ufficiali i quali, dietro corrispettivo, effettuino accessi abusivi al REGE e poi rivelino segreti di ufficio. Anche in questo caso è palese l’idoneità dell’atto ad incidere sull’esito del procedimento giudiziario. Del pari palese deve ritenersi l’idoneità di una falsa perizia ad influire sull’esito finale del processo, così come l’idoneità di una falsa relazione di PG necessaria al fine della concessione di misure alternative alla detenzione (Sez. 6, 19496/2018).

Il reato di corruzione in atti giudiziari si consuma con la mera accettazione della promessa di denaro o di altra utilità, indipendentemente dal risultato della illecita prestazione concordata e dalla identità del soggetto a cui vantaggio essa concretamente, dovendosi peraltro ritenere del tutto indifferente la concretizzazione o meno del vantaggio che il corruttore aveva intenzione di conseguire quale frutto dell’accordo corruttivo, atteso che la struttura della fattispecie incriminatrice in esame è connotata dalla finalizzazione dell’accordo e degli atti pattuiti ad ottenere un vantaggio ovvero a danneggiare una parte processuale (Sez. 6, 19496/2018).

L’ipotesi corruttiva di cui all’art. 319-ter ha struttura ed elementi costitutivi radicalmente diversi dai reati di cui agli artt. 374 e 374-bis, tanto che la giurisprudenza di legittimità ritiene che tra le suddette fattispecie non ricorra né un’ipotesi di concorso formale, né tantomeno di concorso apparente di norme coesistenti, attesa la diversità ontologica e strutturale dei reati e la diversità del bene giuridico.

Va a tal riguardo rammentato che costituisce principio pacifico che anche l’attività peritale o di consulenza d’ufficio (sia disposta dal giudice civile che dal pubblico ministero nel processo penale) svolta nell’ambito di un procedimento giudiziario ove sia resa consapevolmente in senso difforme dalla realtà costituisce un atto contrario ai doveri d’ufficio commesso dal pubblico ufficiale, in quanto concorre funzionalmente all’esercizio della funzione giudiziaria (e, se oggetto di un accordo corruttivo, può costituire condotta del reato di corruzione in atti giudiziari previsto dall’art. 319-ter).

È parimenti principio ampiamente consolidato che il delitto di corruzione in atti giudiziari si consuma anche con la sola accettazione della promessa di denaro o di altra utilità da parte del pubblico ufficiale indipendentemente dalla realizzazione del vantaggio perseguito dal corruttore e dalla legittimità dell’atto richiesto al pubblico ufficiale purché lo stesso risulti, comunque, confluente in un atto giudiziario destinato ad incidere negativamente sulla sfera giuridica di un terzo (Sez. 6, 17523/2018).