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Art. 611 - Violenza o minaccia per costringere a commettere un reato

1. Chiunque usa violenza o minaccia per costringere o determinare altri a commettere un fatto costituente reato è punito con la reclusione fino a cinque anni.

2. La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’articolo 339.

Rassegna di giurisprudenza

Il delitto di cui all’art. 611 richiede tanto il dolo generico, consistente nella volontà cosciente e libera di usare violenza o minaccia a una persona, quanto il dolo specifico, che è dato dal fine di costringere la persona violentata o minacciata a commettere un fatto preveduto come reato, a nulla rilevando, poi, trattandosi di reato di pericolo e non di danno, che quel fatto venga o non venga commesso (Sez. 5, 32657/2018).

Per la sussistenza del delitto previsto dall’art. 611 è sufficiente che la violenza o la minaccia sia idonea, nel momento in cui viene esercitata, a determinare altri a commettere un fatto costituente reato, non essendo necessario che il reato-fine sia consumato o tentato (Sez. 5, 34318/2015).

Perché ricorra la circostanza aggravante della minaccia commessa da più persone riunite, di cui all’art. 339, richiamato dall’art. 611 cpv. per la sussistenza dell’ipotesi aggravata della violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, occorre che la partecipazione di più persone sia percepita dalla vittima al momento della consumazione del reato (Sez. 5, 13611/1990).

Il reato di violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, commesso in danno di persona in condizione analoga alla schiavitù per indurla a perpetrare furti, concorre con i reati di riduzione in schiavitù e di alienazione e acquisto di schiavi di cui agli art. 600 e 602, dovendosi escludere che si versi in una ipotesi di reato complesso o progressivo (Sez. 5, 30570/2011).

Non integra il delitto di minaccia la condotta di colui che mostri un’arma, non già al fine di restringere la libertà psichica del minacciato, bensì al fine di prevenirne un’azione illecita, rappresentandogli tempestivamente la legittima reazione che il suo comportamento determinerebbe (Sez. 5, 8131/2007).

Il delitto previsto dall’art. 611 (violenza o minaccia per costringere a commettere un reato) è un reato di pericolo che si consuma nel momento stesso dell’uso della violenza e della minaccia, indipendentemente dal reato fine; comunque, secondo gli ordinari principi in tema di concorso di persone nel reato, l’autore della violenza o della minaccia risponde del reato eventualmente commesso dal soggetto coartato, a prescindere dalla punibilità di quest’ultimo (Sez. 2, 42789/2003).

L’elemento oggettivo comune della fattispecie di estorsione e di quella di violenza e minaccia per costringere a commettere un reato è l’uso della violenza o minaccia come strumento di coartazione dell’altrui volere. Tuttavia, nel delitto di estorsione, l’autore mira a che la vittima compia una condotta «innominata» – ossia generica come quella della fattispecie di violenza privata – che procuri all’autore stesso o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno; invece, nel reato di cui all’art. 611, l’autore mira a che la vittima compia una condotta qualificata da un elemento specializzante, ossia una condotta integrante gli elementi costitutivi di un reato.

Ne consegue che il delitto di cui all’art. 611 è integrato senza la sussistenza del «profitto» per l’autore e del correlativo «danno» per la vittima, elementi che possono, semmai, riferirsi alla struttura del fatto tipico dello specifico reato-fine, che rappresentando l’obiettivo dell’autore della violenza e della minaccia, la vittima di essa può «strumentalmente» realizzare (Sez. 2, 42789/2003).

L’ipotesi criminosa prevista dall’art. 611 non ammette la figura del tentativo, giacché, con l’uso della violenza o della minaccia, si verifica già la consumazione, indipendentemente dalla realizzazione del reato-fine (Sez. 1, 4555/1998).