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Art. 6

Locali di soggiorno e di pernottamento (1)

1. I locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; areati, riscaldati per il tempo in cui le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale. I locali devono essere tenuti in buono stato di conservazione e di pulizia.

2. Le aree residenziali devono essere dotate di spazi comuni al fine di consentire ai detenuti e agli internati una gestione cooperativa della vita quotidiana nella sfera domestica.

3. I locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti.

4. Particolare cura è impiegata nella scelta di quei soggetti che sono collocati in camere a più posti.

5. Fatta salva contraria prescrizione sanitaria e salvo che particolari situazioni dell’istituto non lo consentano, è preferibilmente consentito al condannato alla pena dell’ergastolo il pernottamento in camere a un posto, ove non richieda di essere assegnato a camere a più posti.

6. Alle stesse condizioni del comma 5, agli imputati è garantito il pernottamento in camera a un posto, salvo che particolari situazioni dell’istituto non lo consentano.

7. Ciascun detenuto e internato dispone di adeguato corredo per il proprio letto.

(1) Articolo così sostituito dall’art. 1, comma 1, lett. b), D.Lgs. 124/2018.

Rassegna di giurisprudenza

Condizioni complessive del trattamento detentivo e sua incidenza ai fini dell’eventuale ricorrenza di un trattamento disumano e degradante nell’accezione dell’art. 3 CEDU

Nel caso in cui lo spazio minimo sia inferiore alla quota-limite di 3 mq, il trattamento degradante è compensabile con: a) la brevità della permanenza in tale condizione; b) l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella; c) l’adeguata offerta di attività esterne alla cella; d) le buone condizioni complessive dell’istituto; e) l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento in rapporto a condizioni igieniche e servizi forniti (Corte EDU, Grande Camera, Mursic c. Croazia, 20.10.2016).

Nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall'art. 3 della CEDU, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello. I fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono nella valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35-ter (SU, 6551/2021).

In tema di rimedio risarcitorio ex art. 35-ter, ai fini dell’accertamento della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, se lo spazio delle celle è inferiore ai tre metri quadrati esiste una forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU superabile - in applicazione dei principi affermati dalla sentenza della Grande Camera della Corte EDU, 20 ottobre 2016, Mursic v. Croazia - solo attraverso la valutazione dell’esistenza di adeguati fattori compensativi che si individuano nella durata della restrizione carceraria, nei margini della libertà di circolazione concessa fuori dalla cella, nell’offerta di attività esterne alla cella e nel decoro complessivo delle condizioni di detenzione. Viceversa, qualora lo spazio individuale minimo assicurato al detenuto, una volta scomputati gli arredi fissi, sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati, vanno presi in considerazione gli ulteriori aspetti che determinano la complessiva offerta del trattamento detentivo, come la mancanza di aria o di luce, i difetti della condizione igienica, la carenza di assistenza sanitaria o l’assenza di offerte ricreative o culturali. Nell’ipotesi, quindi, di spazio minimo individuale tra i tre e i quattro metri quadrati, ciò che rileva, ai fini del trattamento inumano o degradante, è un’offerta trattamentale complessiva gravemente carente (Sez. 1, 910/2020).

La giurisprudenza della Corte EDU ha enunciato una serie di principi, di seguito riassunti, i quali, come detto, definiscono l’ambito applicativo della fattispecie di cui all’art. 35-ter, costituendo il presupposto in base al quale il giudice nazionale deve stabilire se un determinato regime penitenziario integri, o non, un trattamento “inumano e degradante” (Corte EDU, Grande Chambre, sentenza Mursic c. Croazia, 20/10/2016): a) il giudizio sulla compatibilità delle condizioni detentive con l’art. 3 CEDU “non può essere ridotto ad un calcolo del numero di metri quadrati assegnati al detenuto”, dovendo tenersi conto delle complessive condizioni trattamentali mediante una valutazione unitaria; b) nel contesto di tale valutazione unitaria delle generali condizioni di detenzione, riveste, comunque, carattere preminente il fattore “spazio”, il quale, pertanto, determina, nel caso in cui il detenuto in una camera collettiva abbia a disposizione meno di tre metri quadrati calpestabili, una “forte presunzione” di violazione dell’art. 3 CEDU; c) tale presunzione qualificata è superabile e confutabile in presenza di fattori specifici che possano adeguatamente compensare la mancanza di spazio personale, quali, fra l’altro, un’adeguata attività trattamentale da svolgersi fuori dalla camera e le generali condizioni igieniche delle strutture penitenziarie; d) uno spazio in camera superiore ai tre metri quadrati, di per sé solo - specie se comunque inferiore a 4 metri quadrati - non depone, in ogni caso, per l’adeguatezza delle condizioni di detenzione, sussistendo pur sempre la violazione dell’art. 3 CEDU se a uno spazio limitato in camera si aggiungano condizioni detentive deteriori (quali, tra l’altro, la carenza di opportunità trattamentali, l’assenza di corretta aerazione dei locali, la mancanza di intimità nel bagno, precarie situazioni sanitarie o igieniche). Alla stregua dei parametri sopra enunciati, il giudice nazionale è, dunque, chiamato a verificare: a) se sussiste la presunzione qualificata derivante da un insufficiente spazio a disposizione del detenuto (calcolato al netto dei sanitari e degli arredi fissi); b) se tale presunzione sia o no controbilanciata (e, quindi, superata) da altri fattori concernenti le complessive condizioni detentive del ricorrente. Qualora, poi, lo spazio a disposizione del singolo detenuto sia superiore al limite dei tre metri quadrati e inferiore a quello dei 4 metri quadrati, sarà necessario indagare, sulla base delle specifiche allegazioni del detenuto, sulla presenza di condizioni generali di detenzione che, comunque, depongano per una violazione del divieto di trattamenti “inumani e degradanti”. La Corte alsaziana, tuttavia, con la decisione resa nel caso Mursic C. Croazia non ha affrontato, in modo espresso, il tema delle concrete modalità di computo dello spazio minimo individuale, limitandosi a osservare che “la superficie totale della cellula non deve comprendere quella dei sanitari (...). Al contrario, il calcolo della superficie disponibile nella camera di detenzione deve includere lo spazio occupato dai mobili. L’importante è determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella camera, secondo quanto già affermato nelle precedenti pronunce Ananyev e altri c. Russia del 10/01/2012 e Belyayev c. Russia del 17/10/2013. In particolare, la prima di queste sentenze, al punto 148, aveva stabilito - che la superficie complessiva della camera deve essere tale da consentire ai detenuti di muoversi liberamente tra gli elementi di arredamento (si veda, nella giurisprudenza successiva, anche Grande Camera, 16/12/2016, Klaufia ed altri c. Italia). Coerentemente con questa impostazione, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che nel novero degli elementi che non devono essere inclusi nel computo dello spazio minimo vitale vi siano, oltre ai servizi igienici, gli armadi e gli altri arredi tendenzialmente fissi in maniera stabile alle pareti o al suolo, atteso che il mobilio inamovibile non consente, per definizione, la possibilità, per i detenuti, di muoversi normalmente nella camera. E tra gli oggetti esclusi dal computo sono stati inclusi anche i letti che presentino la struttura “a castello”, da ritenersi certamente ostativi al libero movimento e alla piena fruizione dello spazio della camera di detenzione da parte del detenuto, avendo essi un peso tale da non poter essere spostati e avendo una conformazione tale da non consentire, di norma, il mantenimento della struttura eretta, restringendo a loro volta, come gli armadi, l’area ove muoversi (Sez. 1, 41211/2017). Viceversa, si è ritenuto che debbano essere inclusi nel computo tutti gli articoli amovibili, come gli sgabelli o i tavoli, e tutti quegli oggetti che di fatto non impediscano l’utilizzo dello spazio per il movimento, come nel caso degli stessi letti “non a castello” (Sez. 1, 40523/2017). E si è condivisibilmente ribadito che una volta eventualmente riscontrata, alla stregua dei criteri sopra menzionati, l’inadeguatezza dello spazio minimo, essa possa ritenersi in concreto compensata dall’esistenza di situazioni specifiche, quali la limitata durata della restrizione carceraria, la possibilità di ampi spazi di circolazione fuori dalla camera, l’offerta di attività da svolgere in ampi spazi fuori dalle celle, il decoro complessivo delle condizioni di detenzione, anche in rapporto alle condizioni igieniche e ai servizi forniti (Sez. 1, 3291/2020).

Esiste una forte presunzione di trattamento disumano a fronte della disponibilità di uno spazio minimo inferiore ai 3 mq., valutabile alla luce dei cosiddetti criteri compensativi (tra cui, la brevità della permanenza, l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella, l’adeguata offerta di attività esterne, le buone condizioni complessive dell’istituto e l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento). Quanto alle modalità di computo dello spazio minimo, il detenuto deve avere la possibilità di muoversi all’interno della cella, con la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici, ma anche quello occupato da mobili arredi e da strutture tendenzialmente fisse nonché da quegli arredi, che seppur teoricamente amovibili, siano in realtà di peso consistente e di ingombro evidente, quale può essere, ad esempio, un letto a castello (Sez. 1, 51496/2019).

Lo “spazio minimo individuale in cella collettiva” va inteso come la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto e idonea al movimento e allo svolgimento delle attività quotidiane attraverso cui si esplicano le funzioni essenziali che caratterizzano i gesti di vita ordinaria. Ciò ha indotto a ritenere che si debba detrarre dalla complessiva superficie lo spazio destinato ai servizi igienici, ma anche quello occupato da mobili, arredi e da strutture tendenzialmente fisse nonché da quegli arredi, che seppur teoricamente rimuovibili, siano in realtà di peso consistente e di ingombro evidente, quale può essere, ad esempio, un letto a castello. Contrariamente si è ritenuto che non debba essere detratto lo spazio occupato dal letto singolo, poiché assolve una funzione poliedrica e permette lo svolgimento di attività anche diurne diverse dal riposo. Si è anche osservato che, come criterio di calcolo dello spazio minimo abitabile, da riconoscere a ciascun detenuto, sia da adottare quello della superficie funzionale a consentire la libertà di movimento individuale nella camera di soggiorno e pernottamento, senza escludere dal computo gli arredi non fissi al suolo e necessari alle primarie esigenze di alimentazione e riposo del detenuto. Tra essi v’è indubbiamente il tavolo, le sedie e l’indicato letto singolo. Il punto centrale del ragionamento è di stabilire se i detenuti abbiano la possibilità di muoversi normalmente nella cella, secondo quanto già affermato in precedenti pronunce (Ananyev e altri c. Russia del 10/1/2012 e Belyayev c. Russia del 17/10/2013). Ciò posto si deve rilevare che affinché lo spazio sia “vivibile” per assolvere altre funzioni, di vita quotidiana, non occorre che esso debba essere valutato solo in funzione del moto e deve essere oggetto di una verifica complessiva. Esso spazio non è ipso facto ristretto o negativamente connotato da quegli arredi rimovibili, come gli sgabelli o il tavolo. Ciò perché la superficie occupata dal tavolo (di dimensioni non eccessive) concorre alla definizione della vivibilità dell’ambiente. L’arredo risulta, infatti, utilizzabile per una serie di attività (dalla lettura, alle esigenze connesse alla scrittura, allo studio e all’alimentazione, tutte funzioni primarie e coessenziali al vivere quotidiano). Anche lo spazio occupato dagli armadietti non infissi al suolo - che non creano ingombri al movimento per la posizione di allocazione e che sono necessari per appoggiare oggetti e per riporvi effetti personali e necessari alla vita detentiva - non è negativamente conformato dalla presenza degli arredi. Essi concorrono alla “vivibilità” dell’ambiente e non alterano la sostanziale superficie “disponibile” anche per il movimento all’interno della stanza di restrizione, proprio in ragione della specifica sistemazione che non interessa il piano di calpestio della stanza di permanenza (Sez. 1, 38933/2019).

A fronte di una detenzione sostanzialmente e interamente aperta, in cui il soggetto ristretto non è tenuto a sottostare ad una permanenza continua in cella durante le ore del giorno ed ha ampia e libera facoltà di uscire dalla stanza e di muoversi partecipando ad attività sociali e comuni, non ha significato decisivo l’esame sulla superficie disponibile in cella. Ciò perché la stanza di restrizione non è impiegata come ambiente in cui espletare le attività quotidiane, ma esclusivamente come luogo di riposo e per dormire, svolgendo il detenuto ogni attività all’esterno di essa (Sez. 1, 41652/2019).

La giurisprudenza di legittimità è concorde e affatto consolidata nel senso che l’ordinamento non riconosce la pretesa del detenuto all’applicazione dell’isolamento notturno in termini di situazione giuridica attiva suscettibile di tutela giurisdizionale. Il PG ha chiesto il rigetto del ricorso mediante adesivo richiamo alla sentenza di Sez. 1, 22072/2011, e, cioè, sul presupposto della intervenuta abolizione (per effetto della entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario) dell’isolamento notturno del quale il ricorrente invoca la applicazione. Siffatta premessa non pare irrefutabile. La tesi abolizionista pretende di trarre fondamento disposizione dell’art. 6, comma 2,  il quale stabilisce: «I locali [degli istituti di pena] destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti»; osserva, quindi, che la legge «non distingue[..] la pena da eseguire»; e argomenta che, in base alla disposizione finale dell’art. 89, comma 1, contenente la abrogazione di «ogni altra norma incompatibile con» l’ordinamento penitenziario, gli articoli 22, 23 e 25 c.p. devono reputarsi «implicitamente modificati» nel senso della abrogazione della previsione dell’isolamento notturno in essi contenuta. L’assunto non è condivisibile. L’argomento - al pari di ogni altro fondato su disposizioni concernenti la edilizia penitenziaria - appare, per vero, alquanto debole in quanto prova troppo. Dopotutto, a differenza dell’abrogato art. 23 RD 787/1931, recante il Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, che contemplava espressamente tra gli stabilimenti di pena ordinari anche «gli ergastoli », il vigente art. 61, comma 1, non annovera più gli ergastoli tra gli istituti per la esecuzione delle pene, senza che per ciò, evidentemente, la intervenuta soppressione degli stabilimenti penitenziari in parola consenta di accreditare la conclusione della abolizione della pena perpetua (art. 110, comma 5, Reg.). Sul piano del dato positivo deve, piuttosto, rilevarsi che proprio il citato art. 89, comma 1, contiene nella prima parte l’abrogazione espressa di varie disposizioni del codice penale (e del codice di rito all’epoca vigente): «Sono abrogati gli articoli [...] del codice penale etc.». Mentre nessuna menzione opera in relazione agli artt. 22, 23 e 25 c.p. per stabilire la abolizione dell’isolamento notturno. Ma, anche a voler trascurare l’argomento a silentio, la supposta incompatibilità tra gli artt. 22, 23 e 25 c.p., nella parte in cui prescrivono l’isolamento, e l’art. 6 appare francamente discutibile. La disposizione in parola, contenuta nel Capo II (Condizioni generali) del Titolo I (Principi direttivi), riguarda tutti gli edifici penitenziari e non i soli istituti per la esecuzione delle pene principali detentive (Titolo II, Capo I, art. 61). Orbene la generale previsione anche di «camere dotate di un» solo posto risulta affatto compatibile con la applicazione dell’isolamento notturno come stabilito dagli artt. 22, 23 e 25 c.p. Sicché dal combinato disposto degli artt. 6 e 89 non pare possano inferirsi la abrogazione delle succitate disposizioni codicistiche in parte qua e l’abolizione dell’isolamento notturno. Tanto precisato, va ribadito il principio di diritto - conferendo continuità al relativo indirizzo - secondo il quale l’isolamento notturno si configura come modalità di esecuzione della pena in termini di maggiore afflittività sicché non è configurabile un interesse giuridicamente apprezzabile del detenuto a instare per l’inasprimento del proprio trattamento penitenziario e a dolersi, mediante ricorso per cassazione, del provvedimento del magistrato di sorveglianza che ne abbia respinto il reclamo per l’omessa attuazione. E affatto calzante si rivela, in proposito, la considerazione che la «logica sanzionatoria» alla base della previsione dell’isolamento notturno «non può, con effetti di conclamata distonia sistemica, trasformarsi in una logica contraria» nella prospettiva, cioè, della richiesta di tutela del detenuto (Sez. 1, 20142/2011). Né, infine, ha giuridico pregio il concorrente richiamo del ricorrente alla «legislazione europea» per suffragare la pretesa di allocazione in cella singola. La giurisprudenza di legittimità non ignora che la Raccomandazione del Comitato dei Ministri della Comunità Europea, del 12 febbraio 1987, al punto 8 della seconda parte delle Regole minime per il trattamento dei detenuti, recita: «I detenuti devono in linea di principio essere alloggiati durante la notte in camere individuali, salvo nel caso in cui sia considerata vantaggiosa una sistemazione in comune con altri detenuti. Quando una camera è in comune, deve essere occupata da detenuti riconosciuti adatti ad essere alloggiati in queste condizioni». La disposizione - al pari delle analoghe «Regole minime per il trattamento dei detenuti» della Risoluzione ONU del 30 agosto 1955 - non ha, tuttavia - come la giurisprudenza di legittimità ha ben chiarito - carattere cogente e, dunque, ben può sopportare eccezioni anche a causa di difficoltà strutturali od organizzative. In conclusione la rilevata carenza di qualsivoglia situazione giuridica attiva, tutelabile in sede giurisdizionale, in capo al detenuto per la allocazione in cella singola (Sez. 1, 21309/2017).