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Art. 5

Caratteristiche degli edifici penitenziari

1. Gli istituti penitenziari devono essere realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati.

2. Gli edifici penitenziari devono essere dotati di locali per le esigenze di vita individuale e di locali per lo svolgimento di attività lavorative, formative e, ove possibile, culturali, sportive e religiose. (1)

(1) Comma così sostituito dall’ art. 1, comma 1, lett. a), D.Lgs. 124/2018.

Rassegna di giurisprudenza

Condizioni complessive del trattamento detentivo e sua incidenza ai fini dell’eventuale ricorrenza di un trattamento disumano e degradante nell’accezione dell’art. 3 CEDU

Nel caso in cui lo spazio minimo sia inferiore alla quota-limite di 3 mq, il trattamento degradante è compensabile con: a) la brevità della permanenza in tale condizione; b) l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella; c) l’adeguata offerta di attività esterne alla cella; d) le buone condizioni complessive dell’istituto; e) l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento in rapporto a condizioni igieniche e servizi forniti (Corte EDU, Grande Camera, Mursic c. Croazia, 20.10.2016).

In tema di rimedio risarcitorio ex art. 35-ter, ai fini dell’accertamento della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, se lo spazio delle celle è inferiore ai tre metri quadrati esiste una forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU superabile - in applicazione dei principi affermati dalla sentenza della Grande Camera della Corte EDU, 20 ottobre 2016, Mursic v. Croazia - solo attraverso la valutazione dell’esistenza di adeguati fattori compensativi che si individuano nella durata della restrizione carceraria, nei margini della libertà di circolazione concessa fuori dalla cella, nell’offerta di attività esterne alla cella e nel decoro complessivo delle condizioni di detenzione. Viceversa, qualora lo spazio individuale minimo assicurato al detenuto, una volta scomputati gli arredi fissi, sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati, vanno presi in considerazione gli ulteriori aspetti che determinano la complessiva offerta del trattamento detentivo, come la mancanza di aria o di luce, i difetti della condizione igienica, la carenza di assistenza sanitaria o l’assenza di offerte ricreative o culturali. Nell’ipotesi, quindi, di spazio minimo individuale tra i tre e i quattro metri quadrati, ciò che rileva, ai fini del trattamento inumano o degradante, è un’offerta trattamentale complessiva gravemente carente (Sez. 1, 910/2020).

La giurisprudenza della Corte EDU ha enunciato una serie di principi, di seguito riassunti, i quali, come detto, definiscono l’ambito applicativo della fattispecie di cui all’art. 35-ter, costituendo il presupposto in base al quale il giudice nazionale deve stabilire se un determinato regime penitenziario integri, o non, un trattamento “inumano e degradante” (Corte EDU, Grande Chambre, sentenza Mursic c. Croazia, 20/10/2016): a) il giudizio sulla compatibilità delle condizioni detentive con l’art. 3 CEDU “non può essere ridotto ad un calcolo del numero di metri quadrati assegnati al detenuto”, dovendo tenersi conto delle complessive condizioni trattamentali mediante una valutazione unitaria; b) nel contesto di tale valutazione unitaria delle generali condizioni di detenzione, riveste, comunque, carattere preminente il fattore “spazio”, il quale, pertanto, determina, nel caso in cui il detenuto in una camera collettiva abbia a disposizione meno di tre metri quadrati calpestabili, una “forte presunzione” di violazione dell’art. 3 CEDU; c) tale presunzione qualificata è superabile e confutabile in presenza di fattori specifici che possano adeguatamente compensare la mancanza di spazio personale, quali, fra l’altro, un’adeguata attività trattamentale da svolgersi fuori dalla camera e le generali condizioni igieniche delle strutture penitenziarie; d) uno spazio in camera superiore ai tre metri quadrati, di per sé solo - specie se comunque inferiore a 4 metri quadrati - non depone, in ogni caso, per l’adeguatezza delle condizioni di detenzione, sussistendo pur sempre la violazione dell’art. 3 CEDU se a uno spazio limitato in camera si aggiungano condizioni detentive deteriori (quali, tra l’altro, la carenza di opportunità trattamentali, l’assenza di corretta aerazione dei locali, la mancanza di intimità nel bagno, precarie situazioni sanitarie o igieniche). Alla stregua dei parametri sopra enunciati, il giudice nazionale è, dunque, chiamato a verificare: a) se sussiste la presunzione qualificata derivante da un insufficiente spazio a disposizione del detenuto (calcolato al netto dei sanitari e degli arredi fissi); b) se tale presunzione sia o no controbilanciata (e, quindi, superata) da altri fattori concernenti le complessive condizioni detentive del ricorrente. Qualora, poi, lo spazio a disposizione del singolo detenuto sia superiore al limite dei tre metri quadrati e inferiore a quello dei 4 metri quadrati, sarà necessario indagare, sulla base delle specifiche allegazioni del detenuto, sulla presenza di condizioni generali di detenzione che, comunque, depongano per una violazione del divieto di trattamenti “inumani e degradanti”. La Corte alsaziana, tuttavia, con la decisione resa nel caso Mursic C. Croazia non ha affrontato, in modo espresso, il tema delle concrete modalità di computo dello spazio minimo individuale, limitandosi a osservare che “la superficie totale della cellula non deve comprendere quella dei sanitari (...). Al contrario, il calcolo della superficie disponibile nella camera di detenzione deve includere lo spazio occupato dai mobili. L’importante è determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella camera, secondo quanto già affermato nelle precedenti pronunce Ananyev e altri c. Russia del 10/01/2012 e Belyayev c. Russia del 17/10/2013. In particolare, la prima di queste sentenze, al punto 148, aveva stabilito - che la superficie complessiva della camera deve essere tale da consentire ai detenuti di muoversi liberamente tra gli elementi di arredamento (si veda, nella giurisprudenza successiva, anche Grande Camera, 16/12/2016, Klaufia ed altri c. Italia). Coerentemente con questa impostazione, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che nel novero degli elementi che non devono essere inclusi nel computo dello spazio minimo vitale vi siano, oltre ai servizi igienici, gli armadi e gli altri arredi tendenzialmente fissi in maniera stabile alle pareti o al suolo, atteso che il mobilio inamovibile non consente, per definizione, la possibilità, per i detenuti, di muoversi normalmente nella camera. E tra gli oggetti esclusi dal computo sono stati inclusi anche i letti che presentino la struttura “a castello”, da ritenersi certamente ostativi al libero movimento e alla piena fruizione dello spazio della camera di detenzione da parte del detenuto, avendo essi un peso tale da non poter essere spostati e avendo una conformazione tale da non consentire, di norma, il mantenimento della struttura eretta, restringendo a loro volta, come gli armadi, l’area ove muoversi (Sez. 1, 41211/2017). Viceversa, si è ritenuto che debbano essere inclusi nel computo tutti gli articoli amovibili, come gli sgabelli o i tavoli, e tutti quegli oggetti che di fatto non impediscano l’utilizzo dello spazio per il movimento, come nel caso degli stessi letti “non a castello” (Sez. 1, 40523/2017). E si è condivisibilmente ribadito che una volta eventualmente riscontrata, alla stregua dei criteri sopra menzionati, l’inadeguatezza dello spazio minimo, essa possa ritenersi in concreto compensata dall’esistenza di situazioni specifiche, quali la limitata durata della restrizione carceraria, la possibilità di ampi spazi di circolazione fuori dalla camera, l’offerta di attività da svolgere in ampi spazi fuori dalle celle, il decoro complessivo delle condizioni di detenzione, anche in rapporto alle condizioni igieniche e ai servizi forniti (Sez. 1, 3291/2020).

Esiste una forte presunzione di trattamento disumano a fronte della disponibilità di uno spazio minimo inferiore ai 3 mq., valutabile alla luce dei cosiddetti criteri compensativi (tra cui, la brevità della permanenza, l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella, l’adeguata offerta di attività esterne, le buone condizioni complessive dell’istituto e l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento). Quanto alle modalità di computo dello spazio minimo, il detenuto deve avere la possibilità di muoversi all’interno della cella, con la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici, ma anche quello occupato da mobili arredi e da strutture tendenzialmente fisse nonché da quegli arredi, che seppur teoricamente amovibili, siano in realtà di peso consistente e di ingombro evidente, quale può essere, ad esempio, un letto a castello (Sez. 1, 51496/2019).

Lo “spazio minimo individuale in cella collettiva” va inteso come la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto e idonea al movimento e allo svolgimento delle attività quotidiane attraverso cui si esplicano le funzioni essenziali che caratterizzano i gesti di vita ordinaria. Ciò ha indotto a ritenere che si debba detrarre dalla complessiva superficie lo spazio destinato ai servizi igienici, ma anche quello occupato da mobili, arredi e da strutture tendenzialmente fisse nonché da quegli arredi, che seppur teoricamente rimuovibili, siano in realtà di peso consistente e di ingombro evidente, quale può essere, ad esempio, un letto a castello. Contrariamente si è ritenuto che non debba essere detratto lo spazio occupato dal letto singolo, poiché assolve una funzione poliedrica e permette lo svolgimento di attività anche diurne diverse dal riposo. Si è anche osservato che, come criterio di calcolo dello spazio minimo abitabile, da riconoscere a ciascun detenuto, sia da adottare quello della superficie funzionale a consentire la libertà di movimento individuale nella camera di soggiorno e pernottamento, senza escludere dal computo gli arredi non fissi al suolo e necessari alle primarie esigenze di alimentazione e riposo del detenuto. Tra essi v’è indubbiamente il tavolo, le sedie e l’indicato letto singolo. Il punto centrale del ragionamento è di stabilire se i detenuti abbiano la possibilità di muoversi normalmente nella cella, secondo quanto già affermato in precedenti pronunce (Ananyev e altri c. Russia del 10/1/2012 e Belyayev c. Russia del 17/10/2013). Ciò posto si deve rilevare che affinché lo spazio sia “vivibile” per assolvere altre funzioni, di vita quotidiana, non occorre che esso debba essere valutato solo in funzione del moto e deve essere oggetto di una verifica complessiva. Esso spazio non è ipso facto ristretto o negativamente connotato da quegli arredi rimovibili, come gli sgabelli o il tavolo. Ciò perché la superficie occupata dal tavolo (di dimensioni non eccessive) concorre alla definizione della vivibilità dell’ambiente. L’arredo risulta, infatti, utilizzabile per una serie di attività (dalla lettura, alle esigenze connesse alla scrittura, allo studio e all’alimentazione, tutte funzioni primarie e coessenziali al vivere quotidiano). Anche lo spazio occupato dagli armadietti non infissi al suolo - che non creano ingombri al movimento per la posizione di allocazione e che sono necessari per appoggiare oggetti e per riporvi effetti personali e necessari alla vita detentiva - non è negativamente conformato dalla presenza degli arredi. Essi concorrono alla “vivibilità” dell’ambiente e non alterano la sostanziale superficie “disponibile” anche per il movimento all’interno della stanza di restrizione, proprio in ragione della specifica sistemazione che non interessa il piano di calpestio della stanza di permanenza (Sez. 1, 38933/2019).

A fronte di una detenzione sostanzialmente e interamente aperta, in cui il soggetto ristretto non è tenuto a sottostare ad una permanenza continua in cella durante le ore del giorno ed ha ampia e libera facoltà di uscire dalla stanza e di muoversi partecipando ad attività sociali e comuni, non ha significato decisivo l’esame sulla superficie disponibile in cella. Ciò perché la stanza di restrizione non è impiegata come ambiente in cui espletare le attività quotidiane, ma esclusivamente come luogo di riposo e per dormire, svolgendo il detenuto ogni attività all’esterno di essa (Sez. 1, 41652/2019).