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Art. 9

Alimentazione

1. Ai detenuti e agli internati è assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima. Ai detenuti che ne fanno richiesta è garantita, ove possibile, un’alimentazione rispettosa del loro credo religioso. (1)

2. Il vitto è somministrato, di regola, in locali all’uopo destinati.

3. I detenuti e gli internati devono avere sempre a disposizione acqua potabile.

4. La quantità e la qualità del vitto giornaliero sono determinate da apposite tabelle approvate con decreto ministeriale.

5. Il servizio di vettovagliamento è di regola gestito direttamente dall’amministrazione penitenziaria.

6. Una rappresentanza dei detenuti o degli internati, designata mensilmente per sorteggio, controlla l’applicazione delle tabelle e la preparazione del vitto.

7. Ai detenuti e agli internati è consentito l’acquisto, a proprie spese, di generi alimentari e di conforto, entro i limiti fissati dal regolamento.

8. La vendita dei generi alimentari o di conforto deve essere affidata di regola a spacci gestiti direttamente dall’amministrazione carceraria o da imprese che esercitano la vendita a prezzi controllati dall’autorità comunale. I prezzi non possono essere superiori a quelli comunemente praticati nel luogo in cui è sito l’istituto. 9. La rappresentanza indicata nel precedente comma, integrata da un delegato del direttore, scelto tra il personale civile dell’istituto, controlla qualità e prezzi dei generi venduti nell’istituto.

(1) Comma così sostituito dall’art. 11, comma 1, lett. b), D.Lgs. 123/2018.

Rassegna di giurisprudenza

L’art. 9, comma 1, stabilisce che ai detenuti sia assicurata «un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata», tra l’altro, «allo stato di salute». La sana alimentazione è garantita in quanto componente del diritto protetto, anche rispetto alla popolazione detenuta, dall’art. 32 Cost., a garanzia del quale si esercita senza dubbio il controllo del giudice di sorveglianza, a norma dell’art. 69, comma 6, lett. b), quale sostituito dall’art. 3, comma 1, lett. il DL 146/2013, convertito dalla L. 10/2014. L’art. 9, nel successivo comma 4, prescrive che «la quantità e la qualità del vitto giornaliero sono determinate da apposite tabelle approvate con decreto ministeriale». In connessione con la fonte primaria l’art. 11, comma 4, Reg. - nell’istituire tali tabelle, che svolgono una funzione integrativa del precetto legale - prevede (per quanto qui d’interesse) che esse siano distinte in base ai criteri di cui al primo comma dell’art. 9 della legge, e quindi anche in relazione al criterio dello stato di salute del detenuto, in cui certamente rientrano le patologie di natura alimentare; che siano redatte in conformità del parere dell’Istituto superiore della nutrizione; che siano periodicamente aggiornate. Ciò posto, non è certamente lecito al giudice sostituirsi agli organi tecnici ed amministrativi a ciò espressamente deputati e stabilire lui stesso ciò che rientri o non rientri nella nozione di alimentazione sana ed equilibrata. È viceversa compito del giudice quello di accertarsi del contenuto delle tabelle vittuarie; di verificare se, e in che misura, esse includessero effettivamente il pesce nella dieta settimanale, tenuto conto delle indicazioni specifiche eventualmente stabilite per i casi d’intolleranza o allergia alimentare; di far rispettare - in caso affermativo - le relative prescrizioni. La particolare dieta del ricorrente, nell’escludere taluni alimenti, ricomprende tipi di pesce assolutamente comuni, notoriamente reperibili sul mercato anche a prezzi economici. A fronte di ciò, e di una tabella vittuaria che dovesse includere una o più porzioni settimanali di pesce nella dieta, l’Amministrazione dovrebbe dare adeguato conto delle contingenti ragioni, di ordine organizzativo, finanziario, o di altra natura, che le impediscano di adeguarvisi, imponendo il bando totale dell’alimento dai pasti del detenuto (Sez. 1, 51209/2018).

Sono assoggettati al rimedio giurisdizionale, dal detenuto attivato, i soli provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria che incidono sui diritti soggettivi del detenuto, causando un pregiudizio grave e attuale, laddove, nel caso in esame, la norma regolamentare astrattamente applicabile - art. 12, comma 6, Reg., secondo cui «i prezzi dei generi in vendita» nell’esercizio commerciale interno all’istituto «devono adeguarsi a quelli esterni» dei generi corrispondenti, risultanti dalle informazioni fornite dall’Autorità comunale del luogo - ha natura direttiva e programmatica, non fondando situazioni di diritto soggettivo perfetto individualmente azionabili; né avendo il ricorrente allegato e dimostrato, come esattamente ritenuto dal giudice di merito, alcuna effettiva e riflessa compromissione del suo diritto (esso sì garantito dall’art. 9) ad una alimentazione sana, sufficiente ed equilibrata (Sez. 7, 10486/2019).

A fronte di un reclamo del detenuto, che in “riferimento al trattamento penitenziario individuale” individuava determinati comportamenti dell’Amministrazione penitenziaria come una “violazione al proprio diritto di libertà di culto religioso, rispetto al quale la dieta vegetariana deve ritenersi un corollario di pratica rituale”, l’essersi il magistrato di sorveglianza limitato a comunicare al ricorrente, all’esito di procedura informale, una relazione dell’amministrazione penitenziaria in merito alla non inclusione di maestri buddisti Zen nel novero dei ministri di culto abilitati all’ingresso nelle strutture penitenziarie ed un provvedimento in materia di vitto, assunto su reclamo di altro detenuto, si configuri effettivamente come “un mancato rispondere con motivazione specifica” al reclamo del detenuto, nel senso che “la comunicazione in questione” non può costituire, in effetti, “valida risposta sia sul piano procedimentale sia sul piano del contenuto” (Sez. 1, 41474/2013).

Sono violati gli artt. 9 e 14 CEDU allorché uno Stato non accolga la richiesta di un detenuto di fede buddista, la cui convinzione religiosa implichi la necessità di una dieta vegetariana, di potersi alimentare con pasti privi di carne (Corte EDU, 18429/06, Jakobski c. Polonia).

Il culto seguito da un detenuto, cui consegua la scelta di una dieta vegetariana, comporta che lo Stato debba assicurargli la possibilità di professare il culto medesimo anche nelle scelte alimentari, risultando altrimenti violato l’art. 9 CEDU (Corte EDU, Vartic c. Romania, 17 dicembre 2013).