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Art. 47-quinquies

Detenzione domiciliare speciale (1)

1. Quando non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 47-ter, le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo, secondo le modalità di cui al comma 1-bis. (2)

1-bis. Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis, l’espiazione di almeno un terzo della pena o di almeno quindici anni, prevista dal comma 1 del presente articolo, può avvenire presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri ovvero, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli. In caso di impossibilità di espiare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, la stessa può essere espiata nelle case famiglia protette, ove istituite. (3)

2. Per la condannata nei cui confronti è disposta la detenzione domiciliare speciale, nessun onere grava sull’amministrazione penitenziaria per il mantenimento, la cura e l’assistenza medica della condannata che si trovi in detenzione domiciliare speciale.

3. Il tribunale di sorveglianza, nel disporre la detenzione domiciliare speciale, fissa le modalità di attuazione, secondo quanto stabilito dall’articolo 284, comma 2, del codice di procedura penale, precisa il periodo di tempo che la persona può trascorrere all’esterno del proprio domicilio, detta le prescrizioni relative agli interventi del

servizio sociale. Tali prescrizioni e disposizioni possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza competente per il luogo in cui si svolge la misura. Si applica l’articolo 284, comma 4, del codice di procedura penale.

4. All’atto della scarcerazione è redatto verbale in cui sono dettate le prescrizioni che il soggetto deve seguire nei rapporti con il servizio sociale.

5. Il servizio sociale controlla la condotta del soggetto e lo aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, anche mettendosi in relazione con la sua famiglia e con gli altri suoi ambienti di vita; riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza sul comportamento del soggetto.

6. La detenzione domiciliare speciale è revocata se il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione della misura.

7. La detenzione domiciliare speciale può essere concessa, alle stesse condizioni previste per la madre, anche al padre detenuto, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre.

8. Al compimento del decimo anno di età del figlio, su domanda del soggetto già ammesso alla detenzione domiciliare speciale, il tribunale di sorveglianza può:

a) disporre la proroga del beneficio, se ricorrono i requisiti per l’applicazione della semilibertà di cui all’articolo 50, commi 2, 3 e 5;

b) disporre l’ammissione all’assistenza all’esterno dei figli minori di cui all’articolo 21-bis, tenuto conto del comportamento dell’interessato nel corso della misura, desunto dalle relazioni redatte dal servizio sociale, ai sensi del comma 5, nonché della durata della misura e dell’entità della pena residua.

(1) La Corte costituzionale, con sentenza 187/2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, commi 1, 2 e 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui detti commi, nel loro combinato disposto, prevedono che non possa essere concessa, per la durata di tre anni, la detenzione domiciliare speciale, prevista dall’art. 47-quinquies della stessa legge n. 354 del 1975, al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una delle misure indicate nel comma 2 dello stesso art. 58-quater; ha dichiarato inoltre, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, commi 1, 2 e 3, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui detti commi, nel loro combinato disposto, prevedono che non possa essere concessa, per la durata di tre anni, la detenzione domiciliare, prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), della stessa legge n. 354 del 1975, al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una delle misure indicate al comma 2 dello stesso art. 58-quater, sempre che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.

(2) La Corte costituzionale, con sentenza 18/2020, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo comma nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare speciale anche alle condannate madri di figli affetti da handicap grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), ritualmente accertato in base alla medesima legge.

(3) La Corte costituzionale, con sentenza 76/2017, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma, limitatamente alle parole «Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis».

Rassegna di giurisprudenza

Competenza per territorio

La competenza per territorio del magistrato o del tribunale di sorveglianza, una volta radicatasi con riferimento alla situazione esistente “all’atto della richiesta” (secondo la testuale indicazione dell’art. 677 c.p.p.) di una misura alternativa alla detenzione, rimane insensibile agli eventuali mutamenti che tale situazione può subire in virtù di successivi provvedimenti: e, ciò, anche nelle ipotesi in cui subentri, dopo la presentazione della richiesta iniziale, la rimessione in libertà del soggetto. Tale principio non muta, naturalmente, anche nell’ipotesi in cui, essendo libero il condannato, sia stata disposta la sospensione dell’esecuzione, con evenienza, ex art. 656 c.p.p., della competenza del TDS del luogo in cui ha sede l’ufficio del PM che ha promosso la sospensione (Sez. 1, 53177/2014). L’esito di questo rilievo non muta, per gli effetti che la notazione determina in questa sede, per il fatto che, dopo la presentazione da parte del condannato dell’istanza di accesso a una misura alternativa alla detenzione, sopraggiungano altre istanze volte a incidere sulla medesima misura o comunque siano alla stessa connesse o collegate, giacché anche in tal caso la competenza resta ferma, in virtù del richiamato principio della perpetuatio iurisdictionis, che esige di annettere rilevanza al momento della prima richiesta di misura alternativa (Sez. 1, 4098/2020).

La competenza di tipo funzionale del magistrato di sorveglianza si appunta in capo all’organo che ha giurisdizione sull’istituto in cui il detenuto “si trova”. Si deve, tuttavia, chiarire che, ai sensi dell’art. 677, detto luogo e il relativo riferimento normativo si legano alla località in cui il detenuto è assegnato in via definitiva, salvo che costui non sia ancora destinatario di provvedimento siffatto, caso in cui di converso, indubbiamente avrebbe facoltà di adire e rivolgersi al magistrato di sorveglianza del luogo stesso. Per i casi, tuttavia, in cui il detenuto sia in transito e risulti solo temporaneamente ristretto, la competenza in generale resta attribuita al magistrato del locus custodiae definitivo e non sussistono le condizioni per provvedimenti legati a criterio di competenza itinerante nel senso che per il semplice accesso - anche di poche ore - all’istituto di pena si realizza una modifica della competenza dal magistrato di sorveglianza del luogo di assegnazione e detenzione definitiva a quella del magistrato di sorveglianza del luogo di transito (Sez. 7, 35405/2018).

Ricordato che, in caso di concorso di residenza anagrafica e di domicilio di fatto in Italia, la competenza territoriale va, comunque, radicata in base al criterio della residenza anagrafica, operando il criterio del domicilio solo in via residuale, va chiarito che, ai fini di cui all’art. 677, comma 2, la nozione di domicilio deve essere definita, ai sensi dell’art. 43 Cod. civ., come il luogo dove il soggetto ha il centro dei propri interessi, e tale non può, all’evidenza, essere considerato il luogo dove, solo ai fini del procedimento relativo alla istanza presentata, l’interessato ha eletto domicilio presso il quale ricevere comunicazioni e notificazioni del procedimento stesso. Siffatta nozione di domicilio si lascia preferire sia per ragioni di coerenza sistematica sia perché capace di assicurare la necessaria oggettività del criterio attributivo della competenza per territorio (funzionale al rispetto del principio costituzionale del giudice naturale), mentre il rilievo, a detti fini, dell’atto di elezione renderebbe la determinazione del giudice competente dipendente da una libera ed insindacabile scelta del soggetto che propone l’istanza (Sez. 1, 31346/2018).

In tema di procedimento di sorveglianza, qualora dopo la presentazione da parte del condannato dell’istanza di accesso ad una misura alternativa alla detenzione, sopraggiungano altre istanze volte ad incidere sulla medesima misura o comunque siano ad essa connesse o collegate, rimane ferma, in virtù del principio della “perpetuatio iurisdictionis”, la competenza per territorio del tribunale di sorveglianza radicatasi con riferimento alla situazione esistente al momento della prima richiesta di misura alternativa (Sez. 1, 51083/2013).

Il ricorrente, al momento di presentazione dell’istanza ex art. 35-ter Ord. pen., era detenuto; ed era detenuto anche al momento della decisione del magistrato di Sorveglianza così come era detenuto al momento di proposizione del reclamo al tribunale di Sorveglianza. Nelle more del procedimento di impugnazione è stato scarcerato per termine della pena. Questa circostanza ha indotto il tribunale di sorveglianza a ritenere inammissibile il reclamo poiché la richiesta iniziale di riduzione della pena era stata trasformata in richiesta di liquidazione del ristoro economico previsto dalla norma citata: ha ritenuto il giudice che fosse stato irritualmente trasformato il petitum e che la competenza a provvedere fosse ormai del tribunale civile. Tuttavia, questa Corte ha più volte espresso il principio secondo il quale presupposto necessario per radicare la competenza della magistratura di sorveglianza è lo stato di restrizione del richiedente al momento della proposizione del reclamo ex art. 35-ter Ord. pen., a nulla rilevando l’eventuale scarcerazione nelle more della decisione, trattandosi di competenza di natura funzionale (Sez. 1, 41211/2018).

La richiesta di misura alternativa alla detenzione, ai sensi dell’art. 656, comma 6, deve essere corredata, a pena di inammissibilità, anche se presentata dal difensore, dalla dichiarazione o dalla elezione di domicilio effettuata dal condannato non detenuto. Né l’inosservanza delle formalità di cui all’art. 677, comma 2-bis, può essere superata dalla mera indicazione di residenza, che, non comportando l’inequivocabile volontà di riconoscere il proprio domicilio con la residenza dichiarata, non risulta rispettosa dei parametri di cui all’art. 677, comma 2-bis (SU, 18775/2010).

La competenza in materia di concessione di misure alternative alla detenzione, in ipotesi di condannato per il quale è stata disposta la sospensione dell’esecuzione, appartiene al tribunale di sorveglianza del luogo in cui ha sede l’ufficio del PM che ha decretato la sospensione, a norma dell’art. 656, commi 5 e 6, norme che debbono ritenersi speciali e prevalenti rispetto al disposto dell’art. 677, comma 2 (Sez. 1, 2182/2018).

Nell’escludere l’applicabilità delle regole derogatorie di competenza, stabilite dall’art. 16-nonies DL 8/1991, convertito dalla L. 82/1991, alla liberazione anticipata - pur formalmente rientrante tra le misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI Ord. pen. - richiesta dal detenuto collaboratore di giustizia, assoggettato a speciali misure di protezione, la giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, 43798/2015) ha da ultimo sottolineato la natura di stretta interpretazione delle regole derogatorie anzidette, correlata al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 comma 2 Cost.). Nelle materie attribuite alla magistratura di sorveglianza, la competenza a conoscere delle istanze presentate da soggetto ristretto in istituto penitenziario appartiene in via ordinaria al tribunale o al magistrato di sorveglianza avente giurisdizione sull’istituto medesimo (art. 677, comma 1). La deroga che a tale disposizione apporta, per i collaboratori di giustizia assoggettati a speciali misure di protezione, il citato art. 16-nonies - il quale riserva, al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui il collaboratore stesso ha eletto domicilio ai sensi dell’art. 12, comma 3-bis, del decreto legge (ossia del luogo sede della Commissione centrale prevista dal precedente art. 10, comma 2, che è Roma), la cognizione in tema «di liberazione condizionale, di assegnazione al lavoro all’esterno, di concessione dei permessi premio e di ammissione a taluna delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, L. 354/1975, e successive modificazioni» - trova la sua ratio giustificativa nell’esigenza funzionale di assicurare uno stretto coordinamento tra l’operato della magistratura di sorveglianza, che decide sulla concessione delle misure alternative, prevista in misura più ampia rispetto alle generalità dei detenuti, e quello degli organi amministrativi centrali preposti all’attuazione delle misure predette nei confronti del collaboratore protetto (Sez. 1, 45282/2013) e capaci altresì di recare un preventivo contributo ai fini di una più pregnante valutazione sull’attualità e sulla serietà del percorso seguito dal collaboratore (Sez. 1, 43798/2015), che costituisce il presupposto per il più ampio accesso ai benefici (la riassunzione si deve a Sez. 1, 8131/2018).

I provvedimenti in materia di rinvio dell’esecuzione della pena non sono testualmente compresi nell’ambito dell’art. 16-nonies DL 8/1991, convertito dalla L. 82/1991, e non partecipano della ratio ad esso sottesa; né sul piano funzionale, posto che, dopo la liberazione e per il tempo del differimento, nessuno specifico raccordo, di natura istituzionale ed organizzativo, è necessario mantenere tra organi della giurisdizione ed organi esecutivi; né sul piano logico-sistematico, perché i provvedimenti ex artt. 146 e 147 Cod. pen. postulano il riscontro di condizioni legittimanti (la presentazione della domanda di grazia, lo stato di gravidanza, di maternità, di salute) già in possesso dell’AG o ricavabili essenzialmente dalle relazioni degli operatori a diretto contatto con il detenuto in istituto, o dei sanitari di quest’ultimo; condizioni che comunque - così come affermato per la liberazione anticipata - non implicano previe valutazioni sul regime di collaborazione con la giustizia, e sulla sua valenza ed importanza, così da non giustificare lo spostamento di competenza ad un organo giudiziario diverso da quello altrimenti “naturale”. Né a diversa conclusione può indurre la circostanza che, nei casi di accoglimento dell’istanza di rinvio, il giudice competente possa disporre in sua vece la detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter. La misura in tal caso disposta, pur annoverabile tra le misure alternative in senso lato, ha una finalità eminentemente assistenziale, potendo essa essere applicata, anche d’ufficio, al fine di contemperare le necessità del condannato, in relazione alla tutela della salute (o delle altre esigenze contemplate dagli artt. 146 e 147 c.p.) i e quelle della collettività, in relazione ai profili di sicurezza pubblica (Sez. 1, 12565//2015). Essa non richiede alcun apprezzamento, né in ordine all’importanza della collaborazione, né in ordine al ravvedimento (ed al riflesso presupposto dell’assenza di mantenuti collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva), che sono i requisiti cui, nel sistema delineato dall’art. 16-nonies citato, è ancorata la concessione delle misure, marcatamente premiali, viceversa prese in considerazione ai fini della deroga di competenza; requisiti, al tempo stesso, in rapporto ai quali riveste importanza decisiva l’apporto di conoscenza degli organi centrali di protezione, e in questo quadro, trova senso l’istituito stretto collegamento tra la sede di tali organi e la competenza giudiziaria. Deve essere pertanto conclusivamente affermato il seguente principio di diritto: “In tema di rinvio, necessario o facoltativo dell’esecuzione della pena, la competenza a provvedere sull’istanza del soggetto detenuto, collaboratore di giustizia, appartiene al magistrato o al tribunale di sorveglianza che ha giurisdizione sull’istituto di prevenzione o di pena in cui si trova l’interessato all’atto della richiesta, quand’anche l’interessato richieda, o il giudice ritenga comunque di applicare, la detenzione domiciliare in luogo del differimento, non operando la regola di cui all’art. 16-nonies, comma 8, DL 8/1991, convertito dalla L. 82/1991, che prevede la competenza territoriale esclusiva del giudice di sorveglianza di Roma” (Sez. 1, 8131/2018).

Competenza per le istanze presentate da collaboratori di giustizia

Dispone l’art. 16-noníes, comma 8, DL 8/1991: «Quando i provvedimenti di liberazione condizionale, di assegnazione al lavoro all’esterno, di concessione dei permessi premio e di ammissione a taluna delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, sono adottati nei confronti di persona sottoposta a speciali misure di protezione, la competenza appartiene al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui la persona medesima ha eletto il domicilio a norma dell’articolo 12, comma 3-bis, del presente decreto». In questa cornice, deve rilevarsi che l’indicato art. 16-nonies, nel richiamare espressamente l’applicazione delle «misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni [...]», ai fini dell’individuazione della competenza della magistratura di sorveglianza, non consente alcuna distinzione fondata sulla natura trattamentale del beneficio penitenziario invocato, introducendo una deroga alle regole generali stabilite dall’art. 677, comma 1, c.p.p. dalla quale deriva la competenza funzionale della magistratura di sorveglianza di Roma. 3 Sulla base di queste considerazioni, la competenza generale della magistratura di sorveglianza di Roma per i collaboratori di giustizia deve considerarsi come la conseguenza di un’attribuzione di natura funzionale, che costituisce un’eccezione alle regole generali stabilite dall’art. 677, comma 1, c.p.p. e non è derogabile (Sez. 1, 4930/2020).

Criteri valutativi

Per l’applicazione della detenzione domiciliare speciale non basta la sussistenza dei presupposti formali, dovendo anche potersi escludere nei confronti del richiedente alcun profilo di pericolosità sociale, intesa quale giudizio prognostico circa l’elevata probabilità di ricaduta nel crimine, desunta dalla natura e dalla prossimità nel tempo del delitto commesso, dai precedenti e dai comportamenti accertati (Sez. 7, 39162/2019).

Il beneficio penitenziario della detenzione domiciliare speciale - istituto posto alla tutela dei rapporti familiari - tende a ripristinare la convivenza con i figli quando non ricorrano i presupposti della concessione della detenzione domiciliare ex art. 47-ter, non sussista un pericolo di reiterazione nel delitto, sia stata espiata comunque una parte di pena pari al terzo del totale. I padri detenuti possono accedere a detto beneficio soltanto quando la madre dei figli è deceduta o impossibilitata ad accudire la prole. Con la riforma apportata dalla L. 165/1998, il legislatore ha recepito il principio affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 215/1990 circa la doverosità di ammettere alla detenzione domiciliare il padre che si trovi nella necessità di prendersi cura della prole. La giurisprudenza di legittimità ha poi affermato che l’impedimento assoluto va individuato in una situazione di fatto tale che la madre, pur con la massima diligenza possibile, non sia in grado di provvedere - secondo un livello minimo - alle esigenze della prole (Sez. 7, 51130/2017).

L’art. 47-quinquies, comma 1, recita al primo comma: “Quando non ricorrono le condizioni di cui all’art. 47 ter, le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo (...)”.A fronte di un ambito operativo così esteso, il legislatore ha subordinato la concessione della misura a due presupposti, l’uno attinente al profilo della pericolosità sociale e l’altro alla relazione genitore-figlio, e, quanto al primo presupposto, ha utilizzato una formula generica che ricalca quella che compare nell’art. 274 c.p.p., lett. c), concedendo all’AG di valutare liberamente l’opportunità della concessione della misura, attraverso il bilanciamento in concreto dell’interesse del minore con le esigenze di difesa sociale. Sicché, ai fini dell’applicazione della misura, secondo la giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, 38731/2013), il giudice, dopo aver accertato la sussistenza dei presupposti formali ed escluso il concreto pericolo di commissione di ulteriori reati, deve verificare la possibilità per la condannata sia di reinserimento sociale sia di effettivo esercizio delle cure parentali nei confronti di prole di età non superiore ai dieci anni, costituendo il primo un requisito necessario per l’ammissione al regime alternativo e la seconda la circostanza che giustifica il maggior ambito applicativo della misura alternativa. Ma preliminare ed indefettibile resta, però, l’accertamento, imposto espressamente dalla norma, della sussistenza o meno nel caso concreto del pericolo di commissione di ulteriori reati (Sez. 1, 26541/2013).

Sanzioni disciplinari

Nel valutare la sussistenza dei presupposti per la concessione di una misura alternativa alla detenzione si devono utilizzare tutti gli elementi da cui desumere l’assenza di partecipazione all’opera di rieducazione del condannato, nel cui contesto i comportamenti intramurari oggetto di sanzioni disciplinari assumono un rilievo altamente sintomatico del percorso rieducativo intrapreso dal detenuto durante l’esecuzione della pena. Non v’è dubbio, infatti, che le trasgressioni comportamentali del detenuto - soprattutto se ripetute nel tempo, assumono una valenza negativa, risultando espressive della scarsa partecipazione all’opera di rieducazione del carcerato, in quanto sintomatiche dell’assenza di effetti positivi sul percorso intrapreso (Sez. 1, 4387/2019).

Computo della pena espiata in presenza di reati ostativi

Costituisce ius receptum che, nel computo del periodo minimo di pena espiata, previsto come condizione per la concessione di misure alternative alla detenzione, il dies a quo decorra, nel caso di cumulo materiale comprensivo anche di pene inflitte per reati ostativi, dal momento in cui si è esaurita l’espiazione delle pene relative a tali reati, e non da quello di inizio della detenzione (Sez. 1, 48714/2019).