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Compagno di Sbronze di Charles Bukowski

Feltrinelli
Bukowski
Bukowski

Bukowski è un vecchio porco, un ubriacone, un maledetto pazzo, scurrile e osceno.

Ma come si fa a pubblicare i racconti di uno così?

Sarebbero più o meno queste le prime frasi che un lettore/recensore superficiale e disattento potrebbe scrivere dopo la lettura delle pagine del libro di cui parliamo, Compagno di sbronze.

Beh, diciamo che si sbaglierebbe di grosso, perché il vecchio Hank, con questi venti racconti, invece, ci regala uno spaccato lucido e disperato della società americana a cavallo tra gli anni sessanta e gli anni settanta.

Il libro venne pubblicato interamente nel 1972, dopo che i singoli racconti erano già stati pubblicati su diverse riviste.

Sono racconti spesso autobiografici quelli nei quali ci immerge Bukowski, tutti a tinte forti, giocati tra questioni di sesso, alcol, scommesse, violenze varie e miserie umane diverse.

Il titolo originale americano della raccolta rende appieno il suo scopo (Erections, Ejaculations, Exhibitions and General Tales of Ordinary Madness) e mantiene ancor di più le promesse.

La raccolta originale, molto più corposa, fu pubblicata in Italia in due volumi: questo e Storie di ordinaria follia.

La sua è una vera e propria discesa agli inferi, uno spaccato crudele e reale della terribile dicotomia della società americana, divisa tra uomini di successo e derelitti, ricchi e poveri, felici e infelici, vincitori e sconfitti. Almeno questo è quanto appare a una prima lettura. Dentro, invece, c’è molto di più, una sensazione che confonde e mischia la gioia al dolore, il successo alla catastrofe, la vita con  la morte, passando per la sofferenza e la paura.

Le storie sono molte, diverse tra loro, con titolo divertenti e improbabili (ad esempio La macchina strizzafegato, Dieci seghe, La mia mamma culona, I grandi poeti muoiono in pitali di merda fumante, Birra e poeti e chiacchiere, solo per citarne alcuni). Tra questi, il racconto di una rissa in un bar degenerata dopo l'irruzione della polizia, un uomo che torna a casa, completamente ubriaco, con due alcolizzate e ne combina di tutti i colori, un maniaco che osserva una bambina da casa sua e decide di uscire e violentarla; due delinquenti che si presentano a casa di un vecchio attore del cinema muto e lo torturano, degli operai che giocano in maniera pesante con una puttana maggiorata.

Ma il mio preferito è il racconto che si intitola Ma voi consigliereste la carriera di scrittore?

Fin da ragazzino, la prima volta che ho letto questo libro, ho sottolineato una frase che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita.

“È lo scrivere che sceglie te e non tu lo scrivere”.

Chissà se è vero, io ci ho sempre creduto, perché scrivere per Bukowski è un bisogno, un’urgenza narrativa, descritta magistralmente dall’autore con i suoi modi grezzi e diretti.

Io ve lo dico subito: amo Bukowski, amo questo suo modo di scrivere irriverente e volgare, portato all’accesso, barocco per diventare minimale, nauseante per farti digerire in modo leggero, violento per parlarti di carne e di cuore. La sua forza non sta tanto, non solo, nel realismo, spesso ironico, a tratti umoristico, a momenti surreale, bensì nell’uso sapiente del linguaggio, volgare ma necessario, un turpiloquio mai fine a sé stesso ma utilizzato sapientemente per descrivere situazioni estreme, momenti allucinanti, condizioni assurde e degradate dell’essere umano, fotografato da diversi punti di vista. Chi parla è, a turno, un alcolista, un assassino, uno stupratore, un rapinatore, un malvivente. Sempre derelitti, sempre e comunque, gli emarginati di una società distratta ed emarginante, che spesso viene descritta, senza giudicare, come peggiore di quel mondo appestato.

“Passai accanto a 200 persone e non riuscii a vedere un solo essere umano”.

Protagonisti assoluti del libro sono le donne, il sesso e l’alcol.

Non c’è racconto di questa raccolta in cui almeno uno di questi elementi non sia presente (e sono tanti, invece, quelli in cui compaiono tutti).

In questo libro, più che in altri, Bukowski spinge l’acceleratore a tavoletta, travolgendo coscienze, pudori e tutto quello che vi prolifera dentro e attorno, firmando una caricatura divertente e caustica della società e del sogno americano, narrata con quella genuina sfacciataggine che è diventata la cifra stilistica di Bukowski, capace di dipingere squallori e desolazioni per poi, d’improvviso, ravvivare il tutto con i colori pastello della poesia, una macchia di colore pallido che rende il racconto forte, potente, sconvolgente.

In una parola, indimenticabile.

L’autore scava nella degradazione umana, scrivendo bene, spesso benissimo, senza lasciare spazio alla fantasia. In fondo, però, nel buio io ci vedo sempre un po’ di luce, data dalla (voluta) eccessiva matrice del suo narrare, che colpisce e affonda, lasciando i suoi personaggi, vittime e sbandati, spesso senza vita, a volte senza coscienza.

“Era stato un grande spettacolo. Quegli incidenti, i paracadutisti e la fica. Tornammo a casa in bici e non riuscimmo a smettere di parlare dello spettacolo. Avevamo la sensazione che la vita sarebbe stata una gran cosa”.

E la vita, per Bukowski, è stata davvero una gran cosa.

Ma lo spettacolo vero è rileggere questo libro a quarant’anni passati, ritrovare il vecchio Chinaski, chiuderlo, posarlo sul comodino e sorridere.

Ancora.

Sempre.