Corte Costituzionale: incostituzionale il Lodo Alfano sulla sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato
Redattore Franco Gallo
Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato), promossi dal Tribunale di Milano con ordinanze del 26 settembre e del 4 ottobre 2008 e dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma con ordinanza del 26 settembre 2008 rispettivamente iscritte al n. 397 e al n. 398 del registro ordinanze 2008, nonché al n. 9 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2008 e n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e gli atti di costituzione dell’onorevole Silvio Berlusconi, nonché del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e di un sostituto della stessa Procura;
udito nell’udienza pubblica del 6 ottobre 2009 il Giudice relatore Franco Gallo;
uditi gli avvocati Alessandro Pace, per il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e un sostituto della stessa Procura, Niccolò Ghedini, Piero Longo e Gaetano Pecorella, per l’onorevole Silvio Berlusconi, e l’avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza del 26 settembre 2008 (r.o. n. 397 del 2008), pronunciata nel corso di un processo penale in cui è imputato, fra gli altri, l’on. Silvio Berlusconi, attuale Presidente del Consiglio dei ministri, il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 136 e 138 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dei commi 1 e 7 dell’art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato).
1.1. – Il primo dei commi censurati prevede che: «Salvi i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei Ministri sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione si applica anche ai processi penali per fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione». Il successivo comma 7 prevede che: «Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della presente legge». Gli altri commi dispongono che: a) «L’imputato o il suo difensore munito di procura speciale può rinunciare in ogni momento alla sospensione» (comma 2); b) «La sospensione non impedisce al giudice, ove ne ricorrano i presupposti, di provvedere, ai sensi degli articoli 392 e 467 del codice di procedura penale, per l’assunzione delle prove non rinviabili» (comma 3); c) si applicano le disposizioni dell’articolo 159 del codice penale e la sospensione, che opera per l’intera durata della carica o della funzione, non è reiterabile, salvo il caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura, né si applica in caso di successiva investitura in altra delle cariche o delle funzioni (commi 4 e 5); d) «Nel caso di sospensione, non si applica la disposizione dell’articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale» e, quando la parte civile trasferisce l’azione in sede civile, «i termini per comparire, di cui all’articolo 163-bis del codice di procedura civile, sono ridotti alla metà, e il giudice fissa l’ordine di trattazione delle cause dando precedenza al processo relativo all’azione trasferita» (comma 6).
Osserva innanzitutto il rimettente che le questioni sono rilevanti perché le disposizioni censurate, imponendo la sospensione del processo penale in corso a carico del Presidente del Consiglio dei ministri, trovano applicazione nel giudizio a quo.
1.1.1. – In punto di non manifesta infondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 138 Cost., il giudice a quo rileva che dette disposizioni trovano un precedente nell’art. 1 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), dichiarato incostituzionale con la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004. Secondo quanto osservato dal rimettente, la Corte, in tale pronuncia, ha affermato che il legislatore può prevedere ipotesi di sospensione del processo penale «finalizzate anche alla soddisfazione di esigenze extraprocessuali» e che la sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche mira a proteggere l’apprezzabile interesse, eterogeneo rispetto al processo, al sereno svolgimento della rilevante funzione da esse svolta; interesse che può essere protetto «in armonia con i princípi fondamentali dello Stato di diritto».
Da tale pronuncia della Corte emerge – sempre ad avviso del giudice a quo – «che disposizioni normative riguardanti le prerogative, l’attività e quant’altro di organi costituzionali richiedono il procedimento di revisione costituzionale. E ciò in quanto la circostanza che l’attività di detti organi sia disciplinata tramite la previsione di un’ipotesi di sospensione del processo penale, non esclude che in realtà essa riguardi non già il regolare funzionamento del processo, bensí le prerogative di organi costituzionali e comunque materie già riservate dal legislatore costituente alla Costituzione». A tale conclusione il rimettente giunge sul rilievo che le disposizioni denunciate incidono su «plurimi ulteriori interessi di rango costituzionale quali la ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), comunque vulnerata seppur non integralmente compromessa, per cui il loro bilanciamento deve necessariamente avvenire con norma costituzionale».
Il giudice a quo sottolinea che già dai lavori dell’Assemblea costituente si desume che la non perseguibilità per reati extrafunzionali nei confronti del Presidente della Repubblica avrebbe dovuto essere prevista con legge costituzionale. Osserva, altresí, che il fatto che, nella specie, si trattasse «di limitazione dell’azione penale piú pregnante di quell’attuale non rileva sulla necessità di disciplinare la materia mediante norma costituzionale»; e ciò in quanto «non può essere messo in dubbio che si tratta in ogni caso di materia riservata, ex art. 138 Cost., al legislatore costituente, cosí come dimostrato dalla circostanza che tutti i rapporti tra gli organi con rilevanza costituzionale ed il processo penale sono definiti con norma costituzionale».
A tale conclusione non osta – ad avviso del rimettente – la sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 1983, relativa alla previsione con legge ordinaria dell’insindacabilità dei voti dati e delle opinioni espresse dai componenti del Consiglio superiore della magistratura, perché in essa la Corte afferma che «certo rimane il fatto che la scriminante in esame non è stata configurata dalla Carta costituzionale, bensí da una legge ordinaria ed appena nel gennaio 1981, a molti anni dall’entrata in funzione del Consiglio Superiore della magistratura». Secondo lo stesso rimettente, «la Corte, cosí dicendo, mostra di ritenere normalmente necessaria una legge costituzionale laddove si intervenga su organi costituzionali, tanto è vero che nel superare la questione non afferma affatto il principio della sufficienza della legge ordinaria in similari situazioni, ma perviene alla conclusione di legittimità costituzionale sulla base di un complesso ragionamento che in sostanza giustifica il ricorso alla legge ordinaria con la ritardata sistemazione e collocazione della disciplina del C.S.M.». Solo per completezza – prosegue il giudice a quo – «va evidenziato che, nella specie, si era comunque in presenza di una scriminante che ricalca cause di giustificazione generalissime quali l’esercizio di un diritto e/o l’adempimento di un dovere, per cui, di fatto, non veniva ad essere disciplinato l’àmbito delle prerogative di un organo costituzionale».
La necessità di una legge costituzionale per disciplinare la materia oggetto delle norme denunciate non è messa in dubbio – sempre ad avviso del rimettente – neanche dalla considerazione che la Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 24 del 2004, non ha rilevato il contrasto della legge n. 140 del 2003 con l’art. 138 Cost. e che, cosí facendo, «la Corte avrebbe implicitamente rigettato tale profilo, in quanto, siccome pregiudiziale rispetto ad ogni altra questione, avrebbe dovuto necessariamente dichiararlo, ove lo avesse ritenuto». Il giudice a quo osserva, sul punto, che tale considerazione si fonda sul presupposto dell’esistenza di una pregiudizialità tecnico-giuridica tra la questione sollevata in riferimento all’art. 138 Cost. e quelle sollevate in base ad altri parametri e contesta la fondatezza di detto presupposto, rilevando che una tale pregiudizialità non è deducibile «dalla complessiva motivazione della sentenza, in quanto la Corte, nell’accogliere la questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dichiara espressamente “assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale”, lasciando cosí intendere che, in via gradata, sarebbero state prospettabili altre questioni».
Né a diverse conclusioni – secondo il rimettente – possono condurre le note del Presidente della Repubblica del 2 e del 23 luglio 2008, perché le prerogative che si ritengono attribuite al Capo dello Stato in sede di autorizzazione alla presentazione alle Camere di un disegno di legge e in sede di promulgazione comportano solo un primo esame della legittimità costituzionale, e cioè un controllo meno approfondito di quello demandato al giudice ordinario prima ed alla Corte costituzionale poi.
1.1.2. – Quanto alle questioni proposte in riferimento agli artt. 3 e 136 Cost., il Tribunale sostiene che le norme denunciate violano sia il giudicato costituzionale sia il principio di uguaglianza, perché, «avendo riproposto la medesima disciplina sul punto», incorrono «nuovamente nella illegittimità costituzionale, già ritenuta dalla Corte sotto il profilo della violazione dell’art. 3 Cost.». Per il rimettente, infatti, esse accomunano «in una unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni» ed inoltre distinguono irragionevolmente, e «per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai princípi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti [...] rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti». Non sarebbe sufficiente ad evitare le prospettate illegittimità costituzionali il fatto che le disposizioni censurate, diversamente dall’art. 1 della legge n. 140 del 2003, non includono il Presidente della Corte costituzionale tra le alte cariche per le quali opera la sospensione dei processi. Infatti, tale differenza di disciplina – prosegue il rimettente − non è idonea ad impedire la violazione dell’art. 136 Cost., cosí come interpretato dalla Corte costituzionale «con la sentenza n. 922/1988».
1.2. – Si è costituito in giudizio il suddetto imputato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate non rilevanti e, comunque, manifestamente infondate.
1.2.1. – La difesa dell’imputato deduce, quanto alla questione proposta in riferimento all’art. 138 Cost., che: a) contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004, avente ad oggetto l’art. 1 della legge n. 140 del 2003, non afferma né che la sospensione del processo penale sia una «prerogativa di organi costituzionali» né che tale sospensione richieda il procedimento di revisione costituzionale di cui all’art. 138 Cost.; b) nella stessa sentenza si rileva, anzi, che il legislatore può legittimamente prevedere ipotesi di sospensione del processo penale per esigenze extraprocessuali – ad esempio, come nella specie, per soddisfare l’apprezzabile interesse al sereno svolgimento delle funzioni pubbliche connesse alle alte cariche dello Stato −, dovendosi intendere per “legislatore” quello ordinario e non quello costituzionale; c) la sentenza accoglie la questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., dichiarando espressamente assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale; d) l’assorbimento dichiarato dalla Corte ha ad oggetto i soli profili di merito e non anche il profilo relativo alla mancata approvazione della legge con il procedimento di revisione costituzionale, perché tale ultimo profilo, avendo carattere formale e non sostanziale, è logicamente antecedente rispetto all’accoglimento della questione riferita agli artt. 3 e 24 Cost. e, pertanto, non può essere assorbito; e) la sentenza ha, in conclusione, implicitamente ritenuto non fondata ogni questione proposta in riferimento all’art. 138 Cost.; f) non osta a tale conclusione il richiamo fatto dalla sentenza alla necessità che l’apprezzabile interesse al sereno svolgimento delle funzioni pubbliche connesse alle alte cariche dello Stato vada tutelato «in armonia con i princípi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale», perché tali princípi sono, secondo la stessa sentenza, quelli di cui agli artt. 3 e 24 Cost. e non quello di cui all’art. 138 Cost.; g) sulla scorta della pronuncia della Corte, il giudice a quo avrebbe dovuto evidenziare le peculiarità della nuova disciplina censurata rispetto a quella dichiarata incostituzionale dalla Corte, specificando sotto quale profilo la prima, a differenza della seconda, violi l’art. 138 Cost.
1.2.2. – Quanto alle finalità della normativa censurata, la difesa dell’imputato deduce che: a) esse sono dirette non tanto a garantire il sereno svolgimento delle funzioni inerenti alle alte cariche dello Stato, quanto a tutelare il diritto di difesa dell’imputato nel processo, che presuppone la possibilità di essere presente alle udienze e di avere il tempo necessario per predisporre la propria difesa; b) la prevalenza dell’esigenza della tutela del diritto di difesa rispetto a quella del sereno svolgimento della funzione si ricava dalla previsione della rinunciabilità della sospensione contenuta nel comma 2 dell’art. 1 della legge n. 124 del 2008, perché se il legislatore avesse voluto creare «in primis […] una prerogativa istituzionale, avrebbe dovuto dotare la sospensione di un profilo di indisponibilità, sulla base del presupposto che l’interesse istituzionale trascende anche l’eventuale interesse dell’imputato a farsi giudicare subito»; c) «non osta a questa ricostruzione il fatto che la Corte Costituzionale abbia dichiarato costituzionalmente illegittima la legge n. 140/2003 anche perché prevedeva una sospensione dei processi penali automatica e non rinunciabile: questo dato depone nel senso che una disposizione legislativa che sospenda i processi per le alte cariche dello Stato, senza dar loro la possibilità di rinunciarvi, porrebbe nel nostro ordinamento seri problemi di costituzionalità, ma non può far diventare la disposizione della legge n. 124/2008 ciò che non è, ovvero una prerogativa connessa al fatto di rivestire una determinata funzione»; d) la ricostruzione della ratio delle norme censurate nel senso che esse sono finalizzate a tutelare il diritto di difesa della persona che ricopre la carica trova conferma nel comma 5 dell’art. 1 della legge n. 124 del 2008 – il quale prevede la non reiterabilità della sospensione – perché, «se una stessa persona rivestisse, durante una legislatura, la funzione di Presidente della Camera, con conseguente sospensione dei processi penali a suo carico, e nella legislatura successiva ricoprisse la funzione di Presidente del Senato, senza poter piú beneficiare della suddetta sospensione, si sarebbe costretti ad ammettere che per un’intera legislatura la Presidenza del Senato dovrebbe rimanere priva di una propria prerogativa istituzionale, la quale tornerebbe poi a rivivere una volta che venisse a ricoprire la funzione una persona che non avesse mai beneficiato della sospensione»; e) nella prospettiva della tutela del diritto di difesa, la durata di un mandato è il periodo di tempo che il legislatore ha ritenuto sufficiente per consentire alla persona che riveste la carica di organizzarsi per affrontare contemporaneamente gli impegni istituzionali di un eventuale nuovo incarico e il processo penale; f) la ratio dell’inciso «salvo il caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura», che fa eccezione alla non reiterabilità della sospensione, è bilanciare «l’esercizio del diritto di difesa, tutelato dall’art. 24 della Costituzione, con l’esercizio del munus publicum, tutelato dall’art. 51 della Costituzione»; g) «il meccanismo per cui una condizione soggettiva dell’imputato si traduce in una condizione di oggettiva difficoltà a che il processo si svolga regolarmente è […] tutt’altro che nuovo», perché vale anche «per la sospensione del processo per l’imputato incapace, prevista dall’art. 71 c.p.p.», che è un istituto diretto a tutelare «il fatto che la capacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo è aspetto indefettibile del diritto di difesa senza il cui effettivo esercizio nessun processo è immaginabile»; h) ad analoga ratio è ispirato anche l’istituto del legittimo impedimento a comparire dell’imputato; i) non può essere condivisa l’affermazione del rimettente secondo cui «tutti i rapporti tra gli organi con rilevanza costituzionale ed il processo penale sono definiti con norma costituzionale», perché anche prima dell’entrata in vigore della legge n. 124 del 2008 il giudice di merito, davanti a un impegno istituzionale, riconosceva l’impossibilità per l’imputato di essere presente al processo nonostante la Costituzione non preveda che le alte cariche dello Stato hanno diritto al riconoscimento di questi legittimi impedimenti; l) con la sentenza n. 148 del 1983, la Corte ha ammesso che il legislatore possa disciplinare con legge ordinaria addirittura una vera e propria circostanza scriminante, quale l’insindacabilità dei voti dati e delle opinioni espresse dai componenti del Consiglio superiore della magistratura, con la conseguenza che anche una mera causa di sospensione, quale quella oggetto delle disposizioni censurate, può essere disciplinata con legge ordinaria; m) i commi denunciati operano un ragionevole bilanciamento tra l’obbligatorietà dell’azione penale e la ragionevole durata del processo, da un lato, e il diritto di difesa dell’imputato, dall’altro.
1.2.3. – Quanto, in particolare, alla questione sollevata dal giudice a quo in riferimento all’art. 136 Cost., la parte privata rileva che: a) contrariamente all’assunto del rimettente, la norma in esame non ha riproposto la medesima disciplina già dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 24 del 2004, «né ha perseguito e raggiunto, anche indirettamente, esiti corrispondenti a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione», ma ha un contenuto del tutto differente, ad esempio laddove prevede la rinunciabilità della sospensione del processo; b) la nuova disciplina è diversa dalla vecchia anche sotto il profilo del trattamento della parte civile e della durata non indefinita della sospensione; c) i soggetti cui la sospensione si applica non coincidono con quelli indicati nella disciplina già dichiarata incostituzionale e la differenziazione del loro trattamento, «sotto il profilo della parità riguardo ai princípi fondamentali della giurisdizione, rispetto agli altri componenti degli organi collegiali è giustificata dall’intero nuovo assetto normativo, comunque diverso da quello già oggetto di censura costituzionale», anche perché «la Costituzione stessa riconosce l’autonomo rilievo nelle funzioni dei due Presidenti delle Camere rispetto agli altri membri del Parlamento (artt. 62 comma 2, 86 commi 1 e 2, 88 comma 1 della Costituzione)» e perché «del pari il Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi del primo comma dell’art. 95 della Costituzione, svolge funzioni proprie del tutto peculiari rispetto agli altri membri del Governo».
1.3. – Si è costituito il pubblico ministero del giudizio a quo, nelle persone del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e di un sostituto della stessa Procura.
1.3.1. – Il pubblico ministero sostiene, in primo luogo, l’ammissibilità della sua costituzione, nonostante il contrario indirizzo interpretativo della Corte costituzionale, espresso con le sentenze n. 361 del 1998, n. 1 e n. 375 del 1996 e con l’ordinanza n. 327 del 1995. Secondo la sua ricostruzione, «gli argomenti contrari alla legittimazione del p.m. sono i seguenti: 1) la distinta menzione del “pubblico ministero” e delle “parti” nell’attuale disciplina della legge 11 marzo 1953, n. 87 (artt. 20, 23 e 25); 2) la menzione delle sole “parti” nella disciplina delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (artt. 3 e 17 [ora 16]); 3) la peculiarità della posizione ordinamentale e processuale del p.m. nonostante ad esso debba riconoscersi la qualità di parte nel processo a quo».
Quanto all’art. 20 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la difesa del pubblico ministero ritiene che esso, limitandosi a prevedere che per gli organi dello Stato (tra cui gli uffici del pubblico ministero) non è richiesta una difesa “professionale”, non riguardi né valga a modificare la disciplina della legittimazione ad essere parte o ad intervenire in giudizio.
Parimenti non decisivi, contro la legittimazione del pubblico ministero a costituirsi nel giudizio di costituzionalità, sarebbero gli argomenti desumibili dagli artt. 23 e 25 della legge n. 87 del 1953.
Il quarto comma dell’art. 23 dispone che: «L’autorità giurisdizionale ordina che a cura della cancelleria l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata, quando non se ne dia lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in causa ed al pubblico ministero quando il suo intervento sia obbligatorio». Dispone, a sua volta, il secondo comma dell’art. 25 che: «Entro venti giorni dall’avvenuta notificazione dell’ordinanza, ai sensi dell’art. 23, le parti possono esaminare gli atti depositati nella cancelleria e presentare le loro deduzioni». Secondo la difesa del pubblico ministero, il quarto comma dell’art. 23, da un lato, non esclude espressamente che l’ordinanza debba essere notificata al pubblico ministero che sia stato parte in giudizio e, dall’altro, ne impone la notifica al pubblico ministero, proprio perché questo è stato "parte"; e ciò a prescindere dal fatto che il suo intervento fosse o no obbligatorio. A ciò conseguirebbe che il pubblico ministero, sia che sia parte del giudizio principale, sia che debba obbligatoriamente intervenire in tale giudizio, può costituirsi nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale.
Quanto agli artt. 3 e 17 delle previgenti norme integrative (attuali artt. 3 e 16), il pubblico ministero rileva che essi si limitano a riferirsi alle “parti”, non facendo «altro che presupporre una nozione aliunde determinata». Essi, quindi, non ostano alle «conclusioni (favorevoli) raggiunte alla luce degli artt. 23 e 25 della legge n. 87 del 1953».
Quanto alla peculiarità della posizione ordinamentale e processuale del pubblico ministero, la difesa rileva che il fatto che tale organo giudiziario, «secondo la nota formula dell’art. 73 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, debba vegliare “alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti di stato, delle persone giuridiche e degli incapaci […]” è indiscutibile, ma costituisce un argomento estraneo al problema». Infatti, «un conto è l’imparzialità istituzionale del pubblico ministero, un conto la sua parzialità funzionale», avendo rilevanza nel processo costituzionale solo tale ultimo profilo, in considerazione del fatto che i princípi costituzionali di parità delle parti e del contraddittorio sono stati inequivocabilmente introdotti nell’ordinamento con la legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, entrata in vigore successivamente alle decisioni della Corte costituzionale che negano al pubblico ministero la legittimazione a costituirsi. Tali princípi – prosegue la difesa del pubblico ministero – esistevano nel nostro ordinamento già prima, «ma com’è noto, essi venivano desunti in giurisprudenza e in dottrina dall’art. 24 Cost. e quindi, come per tutti i diritti costituzionali previsti in Costituzione, di essi erano (e sono) titolari solo i soggetti privati, non i pubblici poteri. Conseguentemente sia il principio della parità delle armi che il principio del contraddittorio avevano una portata unidirezionale. Garantivano il cittadino, ma non la pubblica accusa nel processo penale e non la p.a. nel processo amministrativo». Ne deriverebbe che solo la nuova formulazione dell’art. 111 Cost. garantisce al pubblico ministero una piena qualità di parte, sotto il profilo della parità processuale e del contraddittorio, con la conseguenza che la Corte costituzionale potrebbe mutare il sopra citato orientamento giurisprudenziale, proprio alla luce del mutato quadro costituzionale.
A tali considerazioni si dovrebbe aggiungere che nei casi – come quello di specie – in cui proprio il pubblico ministero abbia sollevato la questione di legittimità costituzionale di fronte al giudice a quo, sarebbe irragionevole escluderlo dalla partecipazione al giudizio costituzionale.
1.3.2. – Nel merito, il pubblico ministero chiede che siano accolte le questioni proposte dal rimettente.
1.4. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, rilevando che: a) la questione sollevata in riferimento all’art. 136 Cost. è infondata, perché non si ha violazione del giudicato costituzionale qualora, come nel caso di specie, «il quadro normativo sopravvenuto, nel quale si inserisce la nuova disposizione, sia diverso da quello della legge precedente dichiarata costituzionalmente illegittima»; b) la questione proposta in riferimento all’art. 138 Cost. è «inammissibile e comunque infondata», per i motivi esposti nell’atto di intervento nel procedimento r.o. n. 398 del 2008.
1.5. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la parte privata ha chiesto che venga dichiarata inammissibile la costituzione in giudizio del pubblico ministero, fondando la sua richiesta essenzialmente su due assunti.
1.5.1. – Tale parte sostiene, in primo luogo, che il pubblico ministero non è assimilabile alle altre parti del giudizio a quo, rilevando che: a) l’art. 20, secondo comma, della legge n. 87 del 1953 deve essere interpretato nel senso che esso contiene una previsione generale, volta a regolare esclusivamente la rappresentanza e difesa nel giudizio davanti alla Corte costituzionale; b) l’oggetto del giudizio costituzionale incidentale è la conformità alla Costituzione o ad una legge costituzionale di una norma avente forza di legge ed il contraddittorio in tale giudizio si articola in «correlazione […] con le posizioni soggettive che quella norma ha coinvolto nel giudizio principale, o che in relazione ad esso possono venir coinvolte» (secondo quanto affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 163 del 2005); c) dalla correlazione del contraddittorio con le suddette “posizioni soggettive” deriva l’estraneità al giudizio del pubblico ministero, perché quest’ultimo – anche in base all’art. 73 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 – «non rappresenta mai, per definizione, una posizione soggettiva, intendendosi con questa espressione, un interesse che non sia quello […] della conformità alla legge»; d) «la difesa di una parte privata […] non può mai eccepire l’illegittimità costituzionale di una norma che sia di favore al proprio assistito, e ciò per due ordini di ragioni: in primis perché sarebbe carente di interesse (ma questo non rileverebbe perché non si tratta di una impugnazione), ma in secondo luogo perché risponderebbe del reato di patrocinio infedele ai sensi dell’art. 380 del codice penale, oltre che di grave illecito deontologico sanzionabile dal punto di vista disciplinare»; e) il pubblico ministero, per contro, ha natura di parte pubblica e ha «il diritto/dovere di eccepire l’incostituzionalità di una norma sia a favore sia contro ciascuna delle parti», anche nel processo civile; g) gli artt. 23 e 25 della legge n. 87 del 1953 – come interpretati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 361 del 1998 – distinguono espressamente le parti dal pubblico ministero, escludendo che quest’ultimo possa costituirsi nel giudizio costituzionale.
1.5.2. – La stessa difesa sostiene, in secondo luogo, che al giudizio costituzionale non si applica il principio di parità delle parti davanti al giudice sancito dall’art. 111 Cost., non essendo la Corte costituzionale un organo giurisdizionale, ed afferma, a sostegno di tale assunto, che, nel giudizio costituzionale: a) non trova applicazione il sesto comma dell’articolo 111 Cost., derivando l’obbligo di motivazione delle sentenze della Corte dall’articolo 18, commi secondo e terzo, della legge n. 87 del 1953; b) non trova applicazione neanche il secondo comma dello stesso art. 111, perché «il contraddittorio tra le parti avanti la Consulta è disciplinato, come noto, dalla legge 11 marzo 1953, n. 87 e dalle norme integrative per i giudizi avanti la Corte Costituzionale»; c) non si applica neppure il principio di terzietà e imparzialità del giudice sancito dallo stesso art. 111 Cost., «perché i giudici della Corte Costituzionale sono per natura (per ovvie ragioni concernenti la loro funzione) sempre terzi ed imparziali, tant’è che non possono astenersi né essere ricusati contrariamente a quanto è necessariamente previsto per i giudici di qualsivoglia “processo”».
1.6. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il pubblico ministero del giudizio a quo insiste per l’accoglimento delle questioni proposte nell’ordinanza di rimessione, ribadendo le argomentazioni già svolte nella memoria di costituzione.
2. – Con ordinanza del 4 ottobre 2008 (r.o. n. 398 del 2008), nel corso di un processo penale in cui è imputato anche l’on. Silvio Berlusconi, attuale Presidente del Consiglio dei ministri, il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 68, 90, 96, 111, 112 e 138 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 124 del 2008.
2.1. – In punto di rilevanza, il rimettente premette che l’articolo censurato, imponendo la sospensione del processo penale in corso a carico del Presidente del Consiglio dei ministri, trova necessaria applicazione nel giudizio a quo.
Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo osserva che, con la sentenza n. 24 del 2004, avente ad oggetto la legge n. 140 del 2003, la Corte costituzionale aveva affermato che: a) la natura e la funzione della norma consistevano «nel temporaneo arresto del normale svolgimento» del processo penale e miravano «alla soddisfazione di esigenze extraprocessuali […] eterogenee rispetto a quelle proprie del processo»; b) il presupposto della sospensione era dato dalla «coincidenza delle condizioni di imputato e di titolare di una delle cinque piú alte cariche dello Stato»; c) il bene che la misura intendeva tutelare andava ravvisato «nell’assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche» e tale bene veniva definito, dapprima, come «interesse apprezzabile, che può essere tutelato in armonia con i princípi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale» e, poi, come espressione dei «fondamentali valori rispetto ai quali il legislatore ha ritenuto prevalente l’esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle attività connesse alle cariche in questione»; d) proprio «considerando che l’interesse pubblico allo svolgimento delle attività connesse alle alte cariche comporti nel contempo un legittimo impedimento a comparire», il legislatore aveva voluto stabilire «una presunzione assoluta di legittimo impedimento».
Secondo quanto riferito dal rimettente, la Corte aveva, in detta sentenza, ravvisato l’incostituzionalità della norma nel fatto che la sospensione in esame, che di per sé «crea un regime differenziato riguardo all’esercizio della giurisdizione, in particolare di quella penale», fosse «generale, automatica e di durata non determinata»: generale, in quanto la sospensione concerneva «i processi per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi, che siano extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica»; automatica, in quanto la sospensione veniva disposta «in tutti i casi in cui la suindicata coincidenza» di imputato e titolare di un’alta carica «si verifichi, senza alcun filtro, quale che sia l’imputazione ed in qualsiasi momento dell’iter processuale, senza possibilità di valutazione delle peculiarità dei casi concreti»; di durata non determinata, in quanto la sospensione, «predisposta com’è alla tutela delle importanti funzioni di cui si è detto e quindi legata alla carica rivestita dall’imputato», subiva nella sua durata «gli effetti della reiterabilità degli incarichi e comunque della possibilità di investitura in altro tra i cinque indicati».
Sempre ad avviso del giudice a quo, nella menzionata sentenza n. 24 del 2004 la Corte aveva rilevato: a) la violazione del diritto di difesa previsto dall’art. 24 della Costituzione, in quanto all’imputato «è posta l’alternativa tra continuare a svolgere l’alto incarico sotto il peso di un’imputazione che, in ipotesi, può concernere anche reati gravi e particolarmente infamanti, oppure dimettersi dalla carica ricoperta al fine di ottenere, con la continuazione del processo, l’accertamento giudiziale che egli può ritenere a sé favorevole, rinunciando al godimento di un diritto costituzionalmente garantito (art. 51 Cost.)»; b) la violazione degli articoli 111 e 112 Cost., perché «all’effettività dell’esercizio della giurisdizione non sono indifferenti i tempi del processo»; c) la violazione dell’art. 3 Cost., perché la norma, da un lato, accomunava in un’unica disciplina «cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni» e, dall’altro, distingueva, «per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai princípi fondamentali della giurisdi
Redattore Franco Gallo
Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato), promossi dal Tribunale di Milano con ordinanze del 26 settembre e del 4 ottobre 2008 e dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma con ordinanza del 26 settembre 2008 rispettivamente iscritte al n. 397 e al n. 398 del registro ordinanze 2008, nonché al n. 9 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2008 e n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e gli atti di costituzione dell’onorevole Silvio Berlusconi, nonché del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e di un sostituto della stessa Procura;
udito nell’udienza pubblica del 6 ottobre 2009 il Giudice relatore Franco Gallo;
uditi gli avvocati Alessandro Pace, per il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e un sostituto della stessa Procura, Niccolò Ghedini, Piero Longo e Gaetano Pecorella, per l’onorevole Silvio Berlusconi, e l’avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza del 26 settembre 2008 (r.o. n. 397 del 2008), pronunciata nel corso di un processo penale in cui è imputato, fra gli altri, l’on. Silvio Berlusconi, attuale Presidente del Consiglio dei ministri, il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 136 e 138 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dei commi 1 e 7 dell’art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato).
1.1. – Il primo dei commi censurati prevede che: «Salvi i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei Ministri sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione si applica anche ai processi penali per fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione». Il successivo comma 7 prevede che: «Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della presente legge». Gli altri commi dispongono che: a) «L’imputato o il suo difensore munito di procura speciale può rinunciare in ogni momento alla sospensione» (comma 2); b) «La sospensione non impedisce al giudice, ove ne ricorrano i presupposti, di provvedere, ai sensi degli articoli 392 e 467 del codice di procedura penale, per l’assunzione delle prove non rinviabili» (comma 3); c) si applicano le disposizioni dell’articolo 159 del codice penale e la sospensione, che opera per l’intera durata della carica o della funzione, non è reiterabile, salvo il caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura, né si applica in caso di successiva investitura in altra delle cariche o delle funzioni (commi 4 e 5); d) «Nel caso di sospensione, non si applica la disposizione dell’articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale» e, quando la parte civile trasferisce l’azione in sede civile, «i termini per comparire, di cui all’articolo 163-bis del codice di procedura civile, sono ridotti alla metà, e il giudice fissa l’ordine di trattazione delle cause dando precedenza al processo relativo all’azione trasferita» (comma 6).
Osserva innanzitutto il rimettente che le questioni sono rilevanti perché le disposizioni censurate, imponendo la sospensione del processo penale in corso a carico del Presidente del Consiglio dei ministri, trovano applicazione nel giudizio a quo.
1.1.1. – In punto di non manifesta infondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 138 Cost., il giudice a quo rileva che dette disposizioni trovano un precedente nell’art. 1 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), dichiarato incostituzionale con la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004. Secondo quanto osservato dal rimettente, la Corte, in tale pronuncia, ha affermato che il legislatore può prevedere ipotesi di sospensione del processo penale «finalizzate anche alla soddisfazione di esigenze extraprocessuali» e che la sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche mira a proteggere l’apprezzabile interesse, eterogeneo rispetto al processo, al sereno svolgimento della rilevante funzione da esse svolta; interesse che può essere protetto «in armonia con i princípi fondamentali dello Stato di diritto».
Da tale pronuncia della Corte emerge – sempre ad avviso del giudice a quo – «che disposizioni normative riguardanti le prerogative, l’attività e quant’altro di organi costituzionali richiedono il procedimento di revisione costituzionale. E ciò in quanto la circostanza che l’attività di detti organi sia disciplinata tramite la previsione di un’ipotesi di sospensione del processo penale, non esclude che in realtà essa riguardi non già il regolare funzionamento del processo, bensí le prerogative di organi costituzionali e comunque materie già riservate dal legislatore costituente alla Costituzione». A tale conclusione il rimettente giunge sul rilievo che le disposizioni denunciate incidono su «plurimi ulteriori interessi di rango costituzionale quali la ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), comunque vulnerata seppur non integralmente compromessa, per cui il loro bilanciamento deve necessariamente avvenire con norma costituzionale».
Il giudice a quo sottolinea che già dai lavori dell’Assemblea costituente si desume che la non perseguibilità per reati extrafunzionali nei confronti del Presidente della Repubblica avrebbe dovuto essere prevista con legge costituzionale. Osserva, altresí, che il fatto che, nella specie, si trattasse «di limitazione dell’azione penale piú pregnante di quell’attuale non rileva sulla necessità di disciplinare la materia mediante norma costituzionale»; e ciò in quanto «non può essere messo in dubbio che si tratta in ogni caso di materia riservata, ex art. 138 Cost., al legislatore costituente, cosí come dimostrato dalla circostanza che tutti i rapporti tra gli organi con rilevanza costituzionale ed il processo penale sono definiti con norma costituzionale».
A tale conclusione non osta – ad avviso del rimettente – la sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 1983, relativa alla previsione con legge ordinaria dell’insindacabilità dei voti dati e delle opinioni espresse dai componenti del Consiglio superiore della magistratura, perché in essa la Corte afferma che «certo rimane il fatto che la scriminante in esame non è stata configurata dalla Carta costituzionale, bensí da una legge ordinaria ed appena nel gennaio 1981, a molti anni dall’entrata in funzione del Consiglio Superiore della magistratura». Secondo lo stesso rimettente, «la Corte, cosí dicendo, mostra di ritenere normalmente necessaria una legge costituzionale laddove si intervenga su organi costituzionali, tanto è vero che nel superare la questione non afferma affatto il principio della sufficienza della legge ordinaria in similari situazioni, ma perviene alla conclusione di legittimità costituzionale sulla base di un complesso ragionamento che in sostanza giustifica il ricorso alla legge ordinaria con la ritardata sistemazione e collocazione della disciplina del C.S.M.». Solo per completezza – prosegue il giudice a quo – «va evidenziato che, nella specie, si era comunque in presenza di una scriminante che ricalca cause di giustificazione generalissime quali l’esercizio di un diritto e/o l’adempimento di un dovere, per cui, di fatto, non veniva ad essere disciplinato l’àmbito delle prerogative di un organo costituzionale».
La necessità di una legge costituzionale per disciplinare la materia oggetto delle norme denunciate non è messa in dubbio – sempre ad avviso del rimettente – neanche dalla considerazione che la Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 24 del 2004, non ha rilevato il contrasto della legge n. 140 del 2003 con l’art. 138 Cost. e che, cosí facendo, «la Corte avrebbe implicitamente rigettato tale profilo, in quanto, siccome pregiudiziale rispetto ad ogni altra questione, avrebbe dovuto necessariamente dichiararlo, ove lo avesse ritenuto». Il giudice a quo osserva, sul punto, che tale considerazione si fonda sul presupposto dell’esistenza di una pregiudizialità tecnico-giuridica tra la questione sollevata in riferimento all’art. 138 Cost. e quelle sollevate in base ad altri parametri e contesta la fondatezza di detto presupposto, rilevando che una tale pregiudizialità non è deducibile «dalla complessiva motivazione della sentenza, in quanto la Corte, nell’accogliere la questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dichiara espressamente “assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale”, lasciando cosí intendere che, in via gradata, sarebbero state prospettabili altre questioni».
Né a diverse conclusioni – secondo il rimettente – possono condurre le note del Presidente della Repubblica del 2 e del 23 luglio 2008, perché le prerogative che si ritengono attribuite al Capo dello Stato in sede di autorizzazione alla presentazione alle Camere di un disegno di legge e in sede di promulgazione comportano solo un primo esame della legittimità costituzionale, e cioè un controllo meno approfondito di quello demandato al giudice ordinario prima ed alla Corte costituzionale poi.
1.1.2. – Quanto alle questioni proposte in riferimento agli artt. 3 e 136 Cost., il Tribunale sostiene che le norme denunciate violano sia il giudicato costituzionale sia il principio di uguaglianza, perché, «avendo riproposto la medesima disciplina sul punto», incorrono «nuovamente nella illegittimità costituzionale, già ritenuta dalla Corte sotto il profilo della violazione dell’art. 3 Cost.». Per il rimettente, infatti, esse accomunano «in una unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni» ed inoltre distinguono irragionevolmente, e «per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai princípi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti [...] rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti». Non sarebbe sufficiente ad evitare le prospettate illegittimità costituzionali il fatto che le disposizioni censurate, diversamente dall’art. 1 della legge n. 140 del 2003, non includono il Presidente della Corte costituzionale tra le alte cariche per le quali opera la sospensione dei processi. Infatti, tale differenza di disciplina – prosegue il rimettente − non è idonea ad impedire la violazione dell’art. 136 Cost., cosí come interpretato dalla Corte costituzionale «con la sentenza n. 922/1988».
1.2. – Si è costituito in giudizio il suddetto imputato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate non rilevanti e, comunque, manifestamente infondate.
1.2.1. – La difesa dell’imputato deduce, quanto alla questione proposta in riferimento all’art. 138 Cost., che: a) contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004, avente ad oggetto l’art. 1 della legge n. 140 del 2003, non afferma né che la sospensione del processo penale sia una «prerogativa di organi costituzionali» né che tale sospensione richieda il procedimento di revisione costituzionale di cui all’art. 138 Cost.; b) nella stessa sentenza si rileva, anzi, che il legislatore può legittimamente prevedere ipotesi di sospensione del processo penale per esigenze extraprocessuali – ad esempio, come nella specie, per soddisfare l’apprezzabile interesse al sereno svolgimento delle funzioni pubbliche connesse alle alte cariche dello Stato −, dovendosi intendere per “legislatore” quello ordinario e non quello costituzionale; c) la sentenza accoglie la questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., dichiarando espressamente assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale; d) l’assorbimento dichiarato dalla Corte ha ad oggetto i soli profili di merito e non anche il profilo relativo alla mancata approvazione della legge con il procedimento di revisione costituzionale, perché tale ultimo profilo, avendo carattere formale e non sostanziale, è logicamente antecedente rispetto all’accoglimento della questione riferita agli artt. 3 e 24 Cost. e, pertanto, non può essere assorbito; e) la sentenza ha, in conclusione, implicitamente ritenuto non fondata ogni questione proposta in riferimento all’art. 138 Cost.; f) non osta a tale conclusione il richiamo fatto dalla sentenza alla necessità che l’apprezzabile interesse al sereno svolgimento delle funzioni pubbliche connesse alle alte cariche dello Stato vada tutelato «in armonia con i princípi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale», perché tali princípi sono, secondo la stessa sentenza, quelli di cui agli artt. 3 e 24 Cost. e non quello di cui all’art. 138 Cost.; g) sulla scorta della pronuncia della Corte, il giudice a quo avrebbe dovuto evidenziare le peculiarità della nuova disciplina censurata rispetto a quella dichiarata incostituzionale dalla Corte, specificando sotto quale profilo la prima, a differenza della seconda, violi l’art. 138 Cost.
1.2.2. – Quanto alle finalità della normativa censurata, la difesa dell’imputato deduce che: a) esse sono dirette non tanto a garantire il sereno svolgimento delle funzioni inerenti alle alte cariche dello Stato, quanto a tutelare il diritto di difesa dell’imputato nel processo, che presuppone la possibilità di essere presente alle udienze e di avere il tempo necessario per predisporre la propria difesa; b) la prevalenza dell’esigenza della tutela del diritto di difesa rispetto a quella del sereno svolgimento della funzione si ricava dalla previsione della rinunciabilità della sospensione contenuta nel comma 2 dell’art. 1 della legge n. 124 del 2008, perché se il legislatore avesse voluto creare «in primis […] una prerogativa istituzionale, avrebbe dovuto dotare la sospensione di un profilo di indisponibilità, sulla base del presupposto che l’interesse istituzionale trascende anche l’eventuale interesse dell’imputato a farsi giudicare subito»; c) «non osta a questa ricostruzione il fatto che la Corte Costituzionale abbia dichiarato costituzionalmente illegittima la legge n. 140/2003 anche perché prevedeva una sospensione dei processi penali automatica e non rinunciabile: questo dato depone nel senso che una disposizione legislativa che sospenda i processi per le alte cariche dello Stato, senza dar loro la possibilità di rinunciarvi, porrebbe nel nostro ordinamento seri problemi di costituzionalità, ma non può far diventare la disposizione della legge n. 124/2008 ciò che non è, ovvero una prerogativa connessa al fatto di rivestire una determinata funzione»; d) la ricostruzione della ratio delle norme censurate nel senso che esse sono finalizzate a tutelare il diritto di difesa della persona che ricopre la carica trova conferma nel comma 5 dell’art. 1 della legge n. 124 del 2008 – il quale prevede la non reiterabilità della sospensione – perché, «se una stessa persona rivestisse, durante una legislatura, la funzione di Presidente della Camera, con conseguente sospensione dei processi penali a suo carico, e nella legislatura successiva ricoprisse la funzione di Presidente del Senato, senza poter piú beneficiare della suddetta sospensione, si sarebbe costretti ad ammettere che per un’intera legislatura la Presidenza del Senato dovrebbe rimanere priva di una propria prerogativa istituzionale, la quale tornerebbe poi a rivivere una volta che venisse a ricoprire la funzione una persona che non avesse mai beneficiato della sospensione»; e) nella prospettiva della tutela del diritto di difesa, la durata di un mandato è il periodo di tempo che il legislatore ha ritenuto sufficiente per consentire alla persona che riveste la carica di organizzarsi per affrontare contemporaneamente gli impegni istituzionali di un eventuale nuovo incarico e il processo penale; f) la ratio dell’inciso «salvo il caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura», che fa eccezione alla non reiterabilità della sospensione, è bilanciare «l’esercizio del diritto di difesa, tutelato dall’art. 24 della Costituzione, con l’esercizio del munus publicum, tutelato dall’art. 51 della Costituzione»; g) «il meccanismo per cui una condizione soggettiva dell’imputato si traduce in una condizione di oggettiva difficoltà a che il processo si svolga regolarmente è […] tutt’altro che nuovo», perché vale anche «per la sospensione del processo per l’imputato incapace, prevista dall’art. 71 c.p.p.», che è un istituto diretto a tutelare «il fatto che la capacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo è aspetto indefettibile del diritto di difesa senza il cui effettivo esercizio nessun processo è immaginabile»; h) ad analoga ratio è ispirato anche l’istituto del legittimo impedimento a comparire dell’imputato; i) non può essere condivisa l’affermazione del rimettente secondo cui «tutti i rapporti tra gli organi con rilevanza costituzionale ed il processo penale sono definiti con norma costituzionale», perché anche prima dell’entrata in vigore della legge n. 124 del 2008 il giudice di merito, davanti a un impegno istituzionale, riconosceva l’impossibilità per l’imputato di essere presente al processo nonostante la Costituzione non preveda che le alte cariche dello Stato hanno diritto al riconoscimento di questi legittimi impedimenti; l) con la sentenza n. 148 del 1983, la Corte ha ammesso che il legislatore possa disciplinare con legge ordinaria addirittura una vera e propria circostanza scriminante, quale l’insindacabilità dei voti dati e delle opinioni espresse dai componenti del Consiglio superiore della magistratura, con la conseguenza che anche una mera causa di sospensione, quale quella oggetto delle disposizioni censurate, può essere disciplinata con legge ordinaria; m) i commi denunciati operano un ragionevole bilanciamento tra l’obbligatorietà dell’azione penale e la ragionevole durata del processo, da un lato, e il diritto di difesa dell’imputato, dall’altro.
1.2.3. – Quanto, in particolare, alla questione sollevata dal giudice a quo in riferimento all’art. 136 Cost., la parte privata rileva che: a) contrariamente all’assunto del rimettente, la norma in esame non ha riproposto la medesima disciplina già dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 24 del 2004, «né ha perseguito e raggiunto, anche indirettamente, esiti corrispondenti a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione», ma ha un contenuto del tutto differente, ad esempio laddove prevede la rinunciabilità della sospensione del processo; b) la nuova disciplina è diversa dalla vecchia anche sotto il profilo del trattamento della parte civile e della durata non indefinita della sospensione; c) i soggetti cui la sospensione si applica non coincidono con quelli indicati nella disciplina già dichiarata incostituzionale e la differenziazione del loro trattamento, «sotto il profilo della parità riguardo ai princípi fondamentali della giurisdizione, rispetto agli altri componenti degli organi collegiali è giustificata dall’intero nuovo assetto normativo, comunque diverso da quello già oggetto di censura costituzionale», anche perché «la Costituzione stessa riconosce l’autonomo rilievo nelle funzioni dei due Presidenti delle Camere rispetto agli altri membri del Parlamento (artt. 62 comma 2, 86 commi 1 e 2, 88 comma 1 della Costituzione)» e perché «del pari il Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi del primo comma dell’art. 95 della Costituzione, svolge funzioni proprie del tutto peculiari rispetto agli altri membri del Governo».
1.3. – Si è costituito il pubblico ministero del giudizio a quo, nelle persone del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e di un sostituto della stessa Procura.
1.3.1. – Il pubblico ministero sostiene, in primo luogo, l’ammissibilità della sua costituzione, nonostante il contrario indirizzo interpretativo della Corte costituzionale, espresso con le sentenze n. 361 del 1998, n. 1 e n. 375 del 1996 e con l’ordinanza n. 327 del 1995. Secondo la sua ricostruzione, «gli argomenti contrari alla legittimazione del p.m. sono i seguenti: 1) la distinta menzione del “pubblico ministero” e delle “parti” nell’attuale disciplina della legge 11 marzo 1953, n. 87 (artt. 20, 23 e 25); 2) la menzione delle sole “parti” nella disciplina delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (artt. 3 e 17 [ora 16]); 3) la peculiarità della posizione ordinamentale e processuale del p.m. nonostante ad esso debba riconoscersi la qualità di parte nel processo a quo».
Quanto all’art. 20 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la difesa del pubblico ministero ritiene che esso, limitandosi a prevedere che per gli organi dello Stato (tra cui gli uffici del pubblico ministero) non è richiesta una difesa “professionale”, non riguardi né valga a modificare la disciplina della legittimazione ad essere parte o ad intervenire in giudizio.
Parimenti non decisivi, contro la legittimazione del pubblico ministero a costituirsi nel giudizio di costituzionalità, sarebbero gli argomenti desumibili dagli artt. 23 e 25 della legge n. 87 del 1953.
Il quarto comma dell’art. 23 dispone che: «L’autorità giurisdizionale ordina che a cura della cancelleria l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata, quando non se ne dia lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in causa ed al pubblico ministero quando il suo intervento sia obbligatorio». Dispone, a sua volta, il secondo comma dell’art. 25 che: «Entro venti giorni dall’avvenuta notificazione dell’ordinanza, ai sensi dell’art. 23, le parti possono esaminare gli atti depositati nella cancelleria e presentare le loro deduzioni». Secondo la difesa del pubblico ministero, il quarto comma dell’art. 23, da un lato, non esclude espressamente che l’ordinanza debba essere notificata al pubblico ministero che sia stato parte in giudizio e, dall’altro, ne impone la notifica al pubblico ministero, proprio perché questo è stato "parte"; e ciò a prescindere dal fatto che il suo intervento fosse o no obbligatorio. A ciò conseguirebbe che il pubblico ministero, sia che sia parte del giudizio principale, sia che debba obbligatoriamente intervenire in tale giudizio, può costituirsi nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale.
Quanto agli artt. 3 e 17 delle previgenti norme integrative (attuali artt. 3 e 16), il pubblico ministero rileva che essi si limitano a riferirsi alle “parti”, non facendo «altro che presupporre una nozione aliunde determinata». Essi, quindi, non ostano alle «conclusioni (favorevoli) raggiunte alla luce degli artt. 23 e 25 della legge n. 87 del 1953».
Quanto alla peculiarità della posizione ordinamentale e processuale del pubblico ministero, la difesa rileva che il fatto che tale organo giudiziario, «secondo la nota formula dell’art. 73 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, debba vegliare “alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti di stato, delle persone giuridiche e degli incapaci […]” è indiscutibile, ma costituisce un argomento estraneo al problema». Infatti, «un conto è l’imparzialità istituzionale del pubblico ministero, un conto la sua parzialità funzionale», avendo rilevanza nel processo costituzionale solo tale ultimo profilo, in considerazione del fatto che i princípi costituzionali di parità delle parti e del contraddittorio sono stati inequivocabilmente introdotti nell’ordinamento con la legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, entrata in vigore successivamente alle decisioni della Corte costituzionale che negano al pubblico ministero la legittimazione a costituirsi. Tali princípi – prosegue la difesa del pubblico ministero – esistevano nel nostro ordinamento già prima, «ma com’è noto, essi venivano desunti in giurisprudenza e in dottrina dall’art. 24 Cost. e quindi, come per tutti i diritti costituzionali previsti in Costituzione, di essi erano (e sono) titolari solo i soggetti privati, non i pubblici poteri. Conseguentemente sia il principio della parità delle armi che il principio del contraddittorio avevano una portata unidirezionale. Garantivano il cittadino, ma non la pubblica accusa nel processo penale e non la p.a. nel processo amministrativo». Ne deriverebbe che solo la nuova formulazione dell’art. 111 Cost. garantisce al pubblico ministero una piena qualità di parte, sotto il profilo della parità processuale e del contraddittorio, con la conseguenza che la Corte costituzionale potrebbe mutare il sopra citato orientamento giurisprudenziale, proprio alla luce del mutato quadro costituzionale.
A tali considerazioni si dovrebbe aggiungere che nei casi – come quello di specie – in cui proprio il pubblico ministero abbia sollevato la questione di legittimità costituzionale di fronte al giudice a quo, sarebbe irragionevole escluderlo dalla partecipazione al giudizio costituzionale.
1.3.2. – Nel merito, il pubblico ministero chiede che siano accolte le questioni proposte dal rimettente.
1.4. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, rilevando che: a) la questione sollevata in riferimento all’art. 136 Cost. è infondata, perché non si ha violazione del giudicato costituzionale qualora, come nel caso di specie, «il quadro normativo sopravvenuto, nel quale si inserisce la nuova disposizione, sia diverso da quello della legge precedente dichiarata costituzionalmente illegittima»; b) la questione proposta in riferimento all’art. 138 Cost. è «inammissibile e comunque infondata», per i motivi esposti nell’atto di intervento nel procedimento r.o. n. 398 del 2008.
1.5. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la parte privata ha chiesto che venga dichiarata inammissibile la costituzione in giudizio del pubblico ministero, fondando la sua richiesta essenzialmente su due assunti.
1.5.1. – Tale parte sostiene, in primo luogo, che il pubblico ministero non è assimilabile alle altre parti del giudizio a quo, rilevando che: a) l’art. 20, secondo comma, della legge n. 87 del 1953 deve essere interpretato nel senso che esso contiene una previsione generale, volta a regolare esclusivamente la rappresentanza e difesa nel giudizio davanti alla Corte costituzionale; b) l’oggetto del giudizio costituzionale incidentale è la conformità alla Costituzione o ad una legge costituzionale di una norma avente forza di legge ed il contraddittorio in tale giudizio si articola in «correlazione […] con le posizioni soggettive che quella norma ha coinvolto nel giudizio principale, o che in relazione ad esso possono venir coinvolte» (secondo quanto affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 163 del 2005); c) dalla correlazione del contraddittorio con le suddette “posizioni soggettive” deriva l’estraneità al giudizio del pubblico ministero, perché quest’ultimo – anche in base all’art. 73 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 – «non rappresenta mai, per definizione, una posizione soggettiva, intendendosi con questa espressione, un interesse che non sia quello […] della conformità alla legge»; d) «la difesa di una parte privata […] non può mai eccepire l’illegittimità costituzionale di una norma che sia di favore al proprio assistito, e ciò per due ordini di ragioni: in primis perché sarebbe carente di interesse (ma questo non rileverebbe perché non si tratta di una impugnazione), ma in secondo luogo perché risponderebbe del reato di patrocinio infedele ai sensi dell’art. 380 del codice penale, oltre che di grave illecito deontologico sanzionabile dal punto di vista disciplinare»; e) il pubblico ministero, per contro, ha natura di parte pubblica e ha «il diritto/dovere di eccepire l’incostituzionalità di una norma sia a favore sia contro ciascuna delle parti», anche nel processo civile; g) gli artt. 23 e 25 della legge n. 87 del 1953 – come interpretati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 361 del 1998 – distinguono espressamente le parti dal pubblico ministero, escludendo che quest’ultimo possa costituirsi nel giudizio costituzionale.
1.5.2. – La stessa difesa sostiene, in secondo luogo, che al giudizio costituzionale non si applica il principio di parità delle parti davanti al giudice sancito dall’art. 111 Cost., non essendo la Corte costituzionale un organo giurisdizionale, ed afferma, a sostegno di tale assunto, che, nel giudizio costituzionale: a) non trova applicazione il sesto comma dell’articolo 111 Cost., derivando l’obbligo di motivazione delle sentenze della Corte dall’articolo 18, commi secondo e terzo, della legge n. 87 del 1953; b) non trova applicazione neanche il secondo comma dello stesso art. 111, perché «il contraddittorio tra le parti avanti la Consulta è disciplinato, come noto, dalla legge 11 marzo 1953, n. 87 e dalle norme integrative per i giudizi avanti la Corte Costituzionale»; c) non si applica neppure il principio di terzietà e imparzialità del giudice sancito dallo stesso art. 111 Cost., «perché i giudici della Corte Costituzionale sono per natura (per ovvie ragioni concernenti la loro funzione) sempre terzi ed imparziali, tant’è che non possono astenersi né essere ricusati contrariamente a quanto è necessariamente previsto per i giudici di qualsivoglia “processo”».
1.6. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il pubblico ministero del giudizio a quo insiste per l’accoglimento delle questioni proposte nell’ordinanza di rimessione, ribadendo le argomentazioni già svolte nella memoria di costituzione.
2. – Con ordinanza del 4 ottobre 2008 (r.o. n. 398 del 2008), nel corso di un processo penale in cui è imputato anche l’on. Silvio Berlusconi, attuale Presidente del Consiglio dei ministri, il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 68, 90, 96, 111, 112 e 138 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 124 del 2008.
2.1. – In punto di rilevanza, il rimettente premette che l’articolo censurato, imponendo la sospensione del processo penale in corso a carico del Presidente del Consiglio dei ministri, trova necessaria applicazione nel giudizio a quo.
Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo osserva che, con la sentenza n. 24 del 2004, avente ad oggetto la legge n. 140 del 2003, la Corte costituzionale aveva affermato che: a) la natura e la funzione della norma consistevano «nel temporaneo arresto del normale svolgimento» del processo penale e miravano «alla soddisfazione di esigenze extraprocessuali […] eterogenee rispetto a quelle proprie del processo»; b) il presupposto della sospensione era dato dalla «coincidenza delle condizioni di imputato e di titolare di una delle cinque piú alte cariche dello Stato»; c) il bene che la misura intendeva tutelare andava ravvisato «nell’assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche» e tale bene veniva definito, dapprima, come «interesse apprezzabile, che può essere tutelato in armonia con i princípi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale» e, poi, come espressione dei «fondamentali valori rispetto ai quali il legislatore ha ritenuto prevalente l’esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle attività connesse alle cariche in questione»; d) proprio «considerando che l’interesse pubblico allo svolgimento delle attività connesse alle alte cariche comporti nel contempo un legittimo impedimento a comparire», il legislatore aveva voluto stabilire «una presunzione assoluta di legittimo impedimento».
Secondo quanto riferito dal rimettente, la Corte aveva, in detta sentenza, ravvisato l’incostituzionalità della norma nel fatto che la sospensione in esame, che di per sé «crea un regime differenziato riguardo all’esercizio della giurisdizione, in particolare di quella penale», fosse «generale, automatica e di durata non determinata»: generale, in quanto la sospensione concerneva «i processi per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi, che siano extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica»; automatica, in quanto la sospensione veniva disposta «in tutti i casi in cui la suindicata coincidenza» di imputato e titolare di un’alta carica «si verifichi, senza alcun filtro, quale che sia l’imputazione ed in qualsiasi momento dell’iter processuale, senza possibilità di valutazione delle peculiarità dei casi concreti»; di durata non determinata, in quanto la sospensione, «predisposta com’è alla tutela delle importanti funzioni di cui si è detto e quindi legata alla carica rivestita dall’imputato», subiva nella sua durata «gli effetti della reiterabilità degli incarichi e comunque della possibilità di investitura in altro tra i cinque indicati».
Sempre ad avviso del giudice a quo, nella menzionata sentenza n. 24 del 2004 la Corte aveva rilevato: a) la violazione del diritto di difesa previsto dall’art. 24 della Costituzione, in quanto all’imputato «è posta l’alternativa tra continuare a svolgere l’alto incarico sotto il peso di un’imputazione che, in ipotesi, può concernere anche reati gravi e particolarmente infamanti, oppure dimettersi dalla carica ricoperta al fine di ottenere, con la continuazione del processo, l’accertamento giudiziale che egli può ritenere a sé favorevole, rinunciando al godimento di un diritto costituzionalmente garantito (art. 51 Cost.)»; b) la violazione degli articoli 111 e 112 Cost., perché «all’effettività dell’esercizio della giurisdizione non sono indifferenti i tempi del processo»; c) la violazione dell’art. 3 Cost., perché la norma, da un lato, accomunava in un’unica disciplina «cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni» e, dall’altro, distingueva, «per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai princípi fondamentali della giurisdi