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Criminalità organizzata, riciclaggio ed evasione fiscale

Dal Capone a Sciascia, al “redditometro”
The Banker and His Wife, Marinus van Reymerswale, 1514, Louvre
The Banker and His Wife, Marinus van Reymerswale, 1514, Louvre

Capitolo I estratto dal volume Le nuove frontiere della criminalità finanziaria. Evasione fiscale, frodi e riciclaggio, Filodiritto Editore, Bologna, marzo 2014

È noto che la criminalità organizzata si inserisce nel mercato legale, assumendo i modelli tipici dell’impresa: l’anello di collegamento tra le attività illegali e quelle legali è rappresentato proprio dal riciclaggio del denaro di origine illecita, spesso attuato mediante operazioni finanziarie che danno luogo a fenomeni di evasione e di elusione fiscale, sia nazionale che internazionale.

Non a caso il rapporto tra riciclaggio ed evasione fiscale ha da sempre costituito oggetto di particolare attenzione sia da parte dell’Unione Europea e dell’OCSE.

In Italia il decreto legislativo n. 74 del 2000 ha sicuramente fornito uno strumento per perseguire, se non l’evasore fiscale, sicuramente il suo complice, che rischia di essere inquisito per “Riciclaggio da evasione fiscale”.

Il citato decreto, fissando un’ipotesi delittuosa in presenza di evasioni fiscali superiori a una determinata soglia (prima 103.000, il corrispondente dei vecchi 200 milioni di lire; poi, dal 2011, 50.000 Euro) ha determinato che, la stessa, costituisce, a differenza che in passato, reato presupposto per il riciclaggio di denaro sporco.

In altri termini, l’evasore fiscale è oggi equiparabile a un qualunque altro soggetto criminale penalmente perseguibile.

Facciamo qualche esempio: immaginiamo l’imprenditore poco incline agli adempimenti fiscali, che versa il contante (da ricavi non fatturati) sul conto corrente extracontabile, mentre i bonifici e assegni vanno regolarmente sul conto aziendale.

Se il conto extracontabile è intestato o è nella disponibilità dello stesso imprenditore, ci troveremo semplicemente di fronte a un caso di mera evasione fiscale.

Se, al contrario, le risorse sottratte all’Erario sono accantonate su analogo conto extracontabile intestato molto più comunemente ad altri, pensiamo alla moglie dell’imprenditore, casalinga e priva di redditi, alla suocera ultraottantenne, pensionata, al figlio studente, alla segretaria, o, comunque a una persona di fiducia, queste ultime figure, risponderanno di riciclaggio da evasione fiscale, configurandosi la fattispecie prevista dall’articolo 648-bis del codice penale.

È del resto ordinaria amministrazione per l’Agenzia delle Entrate notificare verbali di contestazione a una società a responsabilità limitata a ristretta base familiare, a seguito di indagini bancarie sui conti correnti dei soci su cui vengono riscontrati versamenti e addebitamenti non giustificati.

È infatti evidente, in questi casi, che tali movimentazioni sono in realtà afferenti all’attività della società e in particolare a vendite senza fattura i cui ricavi non sono stati contabilizzati.

In tali circostanze, del resto, l’estensione delle indagini bancarie anche a soggetti terzi rispetto alla società, essendo tutti tali soggetti amministratori, di solito, soci o congiunti di questi, è del tutto legittima e la prova della riferibilità alla società delle operazioni oggetto di contestazione deriva proprio dalla ristretta compagine sociale a base familiare delle società, dalla presenza di cospicue somme di denaro sui conti correnti dei soci, magari, come quasi sempre accade, assolutamente sproporzionate rispetto alle relative disponibilità finanziarie, la qualità (imprenditori e società) dei soggetti che tali versamenti a favore dei soci abbiano effettuato.

L’accertamento è dunque in questi casi estensibile ai terzi, purché, in ragione della previsione di cui all’articolo 37 del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, sia provata una qualche connessione tra i terzi e la società accertata.

E questo in linea con il consolidato orientamento della Corte Suprema.

La Corte di Cassazione ha infatti espressamente riconosciuto, in più occasioni (vedi, per esempio, sentenza n. 17390 del 23 luglio 2010), la piena legittimità dell’utilizzazione dei risultati delle indagini esperite nei confronti dei singoli soci e ha ritenuto imputabili alla società i risultati delle verifiche esperite sui conti dei soci sulla base di presunzioni relative, mantenendo in capo ai soci l’onere di dimostrare l’inesistenza di correlazione fra i movimenti bancari accertati sui propri conti personali e l’attività imprenditoriale della società.

Come confermato dalla Corte Suprema con la sentenza n. 18429 del 16 settembre 2005, infatti, «gli accertamenti bancari forniscono un insieme di dati sufficientemente sicuri, che possono legittimamente essere posti a base di un avviso di accertamento; avendo l’amministrazione adempiuto all’onere della prova che su di essa grava, il contribuente non può limitarsi a una generica contestazione, ma ha l’onere di fornire elementi che costituiscano la prova contraria richiesta dalla legge».

L’amministrazione può quindi utilizzare, oltre ai dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari formalmente intestati all’ente, anche quelli relativi a conti formalmente intestati ai soci, amministratori o procuratori generali, allorché risulti provata, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati, in particolare laddove, magari, i soci non risultino svolgere alcuna diversa attività produttiva di reddito, né avere operato dismissioni patrimoniali, o essere divenuti beneficiari di atti di liberalità (vedi anche sentenza della Corte di Cassazione, n. 15523 del 6 novembre 2002).

Il rapporto intercorrente fra i soci amministratori di società e la società amministrata è del resto talmente stretto (per il principio di immedesimazione organica) da realizzare una sostanziale identità di soggetti, tale da giustificare l’utilizzazione dei dati bancari raccolti attraverso l’indagine svolta anche relativamente ai conti intestati ai soci stessi; e ciò in quanto «la presunzione di riferibilità dei movimenti bancari a operazioni imponibili si correla a una valutazione di rilevante probabilità che il contribuente si avvalga di tutti i conti di cui possa disporre per le rimesse e i prelievi inerenti all’esercizio di attività» (vedi Corte di Cassazione, sentenza n. 4987 del 1 aprile 2003).

La documentazione bancaria rappresenta dunque, senza dubbio, una forte presunzione, superabile soltanto da una altrettanto forte prova contraria, che il contribuente deve in ogni caso fornire se vuole superare l’accertamento dell’ufficio.

La “sottigliezza” da non perdere di vista, del resto, consiste nell’aver presente che non è l’articolo 37, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973 il presupposto necessario per il legittimo ricorso alla procedura degli accertamenti bancari di cui all’articolo 32 del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, essendo vero invece il contrario, e cioè che, sulla base dell’accertamento ex articolo 32, sarà possibile imputare al contribuente, ex articolo 37, i redditi formalmente appartenenti ad altra persona.

Come infatti confermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 19003 del 28 settembre 2005 «L’articolo 32 del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973 muove dalla - ovvia - considerazione che gli evasori occultano le poste attive e non le poste passive. Pertanto, in caso di acquisizione dei movimenti di un conto corrente bancario riconducibili all’impresa (nel caso di specie, di pertinenza del socio accomandante su cui operavano i soci accomandatari) debbono essere considerati ricavi sia le operazioni attive sia quelle passive (a meno che l’imprenditore non dimostri che corrispondono a operazioni già contabilizzate o estranee all’attività aziendale), senza che si debba procedere alla deduzione presuntiva di oneri e costi deducibili, essendo onere del contribuente indicare e provare eventuali specifici costi deducibili».

Dalla teoria alla pratica.

La Commissione Tributaria Provinciale di Firenze con una recente sentenza (la n. 93/1/12), depositata il 12 giugno 2012, ha respinto il ricorso di un contribuente avverso un avviso di accertamento per più di 500.000 Euro, tra imposte e sanzioni, con condanna dello stesso anche al pagamento delle spese di giudizio.

In particolare, nel caso all’attenzione dei giudici, nonostante il contribuente risultasse fin dagli anni ottanta titolare di un affittacamere in pieno centro storico a Firenze, attività verosimilmente remunerativa, tenuto conto del numero dei turisti che affollano la città durante tutto l’anno, i relativi redditi di impresa dichiarati erano sempre risultati nell’ordine di poche migliaia di Euro annui, quando non addirittura in perdita.

Allo stesso tempo a fronte di un reddito complessivo in media modesto, che in alcuni periodi di imposta era risultato pressoché nullo a causa delle perdite fatte registrare dall’attività di affittacamere, il contribuente risultava aver stipulato, tra il 2004 e il 2008, numerose operazioni, sia di compravendita immobiliare, che finanziarie.

L’ufficio acquisiva allora il dettaglio delle movimentazioni dei singoli conti e, ai sensi dell’articolo 32, comma 1, decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, provvedeva a invitare il contribuente a fornire chiarimenti in merito ai dati e alle informazioni bancarie acquisite.

A seguito del contraddittorio, in presenza di operazioni non ritenute debitamente giustificate, l’ufficio notificava dunque al contribuente apposito avviso di accertamento.

Tale avviso veniva dunque impugnato davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Firenze.

Per quel che qui interessa, in relazione a numerose movimentazioni bancarie il contribuente dichiarava dunque, in sede di contraddittorio, di aver erogato prestiti in danaro ad alcuni suoi conoscenti e/o ai loro amici e di averne avuto restituzione senza il pagamento di alcun interesse.

Riguardo le modalità dei prestiti il contribuente sosteneva che essi avvenivano prevalentemente attraverso lo sconto di cambiali e, talvolta, con l’anticipo di somme di danaro a fronte della consegna di assegni post datati da parte del beneficiario del prestito.

Nel caso dello sconto di cambiali, ricevuta la richiesta di un prestito di denaro, il contribuente in primo luogo provvedeva a far sottoscrivere al richiedente una cambiale a suo favore, poi si recava in una banca dove intratteneva un conto e disponeva di un apposito castelletto salvo buon fine e si faceva scontare la cambiale; successivamente consegnava la somma ottenuta dalla banca al richiedente il prestito, con l’avvertenza che gliela restituisse prima della scadenza della cambiale.

Nel caso in cui la restituzione non avvenisse nei termini previsti, il contribuente provvedeva a regolarizzare la posizione con la propria banca, facendo contestualmente emettere al debitore una nuova cambiale, con una nuova scadenza, da scontare nuovamente presso lo stesso istituto di credito.

A tale proposito, il contribuente precisava comunque che gli oneri finanziari e gli interessi passivi delle varie operazioni erano sempre a suo carico, dato lo spirito di liberalità e di favore con cui aveva sempre condotto tutte le operazioni.

Per un numero consistente di operazioni il contribuente non forniva comunque alcuna giustificazione, mentre per altre i giustificativi addotti non risultavano accompagnati da un sufficiente riscontro documentale.

In ordine alle uscite dai predetti conti, queste venivano ricondotte genericamente a prelievi per finanziare spese personali, o lo sconto di cambiali a terzi (prestiti di denaro).

Per sua stessa ammissione, quindi, il contribuente prestava denaro, in modo non occasionale, a una generalità di persone, accomunate dalla difficoltà di ottenere un finanziamento presso i canali ufficiali, senza essere iscritto negli appositi elenchi tenuti dal Ministero del Tesoro.

Tali circostanze, che potevano peraltro anche configurare una violazione dell’articolo 132 decreto legislativo n. 385 del 1993 per esercizio abusivo dell’attività finanziaria, da un punto di vista meramente fiscale rilevavano, in particolare, sotto il profilo della prova contraria che il contribuente era in grado di fornire in ordine al fatto che le movimentazioni in entrata di sconto effetti non avessero rilevanza ai fini del reddito.

Tale prova contraria consisteva peraltro, principalmente, in dichiarazioni dei beneficiari dei prestiti con autentica della sottoscrizione.

Il recupero dell’ufficio, alla luce di quanto sopra evidenziato, risultava dunque del tutto corretto.

Come infatti anche recentemente ribadito dalla Corte Suprema, con la sentenza n. 3263 del 2 marzo 2012, «compete al contribuente dimostrare di aver tenuto conto nella dichiarazione della rilevanza fiscale dei movimenti rinvenuti nei rapporti intrattenuti con istituti di credito ovvero allegare la fattispecie di esonero da imposizione delle operazioni economiche di cui trattasi, né l’acquisizione dei dati è subordinata alla verificazione dello svolgimento di attività d’impresa».

Tutti i dati emersi dalle indagini bancarie potevano dunque anche essere considerati attinenti all’attività di impresa, sia ai fini imposte dirette che IVA.

Ancora, nella stessa sentenza, con affermazioni che si attagliano perfettamente al caso in esame, il giudice sottolinea che a nulla rileva «il carattere “astratto” dei titoli di credito utilizzati per le movimentazioni bancarie contestate, laddove su tale astrattezza il contribuente aveva l’onere di fare luce, dando conto del rapporto causale che di ciascuno di essi era alla base. Neppure il richiamo alla mancanza di prova dello svolgimento di attività di impresa coglie nel segno, ove si consideri che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi, “i dati e gli elementi risultanti dai conti correnti bancari vanno ritenuti rilevanti ai fini della ricostruzione del reddito imponibile, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, articolo 32, se il titolare del conto non fornisca adeguata giustificazione, a prescindere dalla prova preventiva che il contribuente eserciti una determinata attività e dalla natura lecita o illecita dell’attività stessa” (Corte di Cassazione, sentenze nn. 10578 e 19692 del 2011).

È perciò appena il caso di ricordare che, analogamente, in tema di IVA, secondo un consolidato indirizzo, “l’utilizzazione dei dati acquisiti presso le aziende di credito, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, articolo 51, comma 2, n. 2, non è subordinata alla prova che il contribuente eserciti attività d’impresa: infatti, se non viene contestata la legittimità dell’acquisizione dei dati risultanti dai conti correnti bancari, i medesimi possono essere utilizzati sia per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attività occulta (impresa, arte o professione), sia per quantificare il reddito ricavato da tale attività, incombendo al contribuente l’onere di dimostrare che i movimenti bancari che non trovano giustificazione sulla base delle sue dichiarazioni non sono fiscalmente rilevanti…».

Le suddette conclusioni e argomentazioni, con la sentenza sopra citata, sono state quindi condivise dalla Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, la quale, dopo aver affermato che «l’onere dell’amministrazione di provare la pretesa fiscale è soddisfatto per volontà di legge attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti bancari […] Sostiene la parte che molti versamenti e prelevamenti riguardavano un’attività personale e non remunerativa di prestiti amicali.

A tal fine ha prodotto le dichiarazioni di ben tredici soggetti le cui sottoscrizioni sono state autenticate», sottolinea però che «nel processo tributario tali documenti fanno fede solo della data, dell’esistenza e della provenienza delle dichiarazioni in essi scritte, non certo dell’attendibilità delle dichiarazioni medesime, da ritenersi soggette, allo stesso modo di qualsiasi altra scrittura privata, al vaglio del giudicante che deve tenere conto di ogni elemento da cui possa desumersi la maggiore o minore veridicità delle stesse».

In conclusione, evidenziano i giudici di primo grado, «questa Commissione esclude di poter prestare fede all’asserita gratuità dei prestiti. Da un lato si devono considerare i modestissimi introiti denunciati dal contribuente nelle dichiarazioni dei redditi non solo nell’anno in esame, ma anche in quello precedente e nei successivi. In sostanza non si comprende come un soggetto che riesce a mala pena a provvedere alle più elementari esigenze personali sia poi in condizione di fare numerosi prestiti “amicali” per somme molto rilevanti. Inoltre, lo stesso numero delle persone che hanno ricevuto i prestiti deve portare a concludere che prestare denaro costituisca per il […] un’attività commerciale».

L’accertamento veniva dunque confermato nella sua piena legittimità.

Fattispecie come quelle sopra evidenziate, del resto, sono purtroppo molto comuni.

Bankitalia in uno studio pubblicato a maggio 2012, valuta 490 miliardi di Euro il sommerso da evasione fiscale e da economia criminale, pari a oltre il 31% del PIL.

Dopo Bankitalia, una ricerca Eurispes ha concluso «l’economia sommersa nel nostro paese ha generato nel 2010 almeno 529 miliardi di Euro segnando un consistente aumento rispetto all’anno precedente. Sempre secondo i calcoli dell’istituto il nostro sommerso equivale al Pil di Finlandia (177 miliardi), Portogallo (162), Romania (117), Ungheria (102) messi insieme».

A esso va aggiunto il Pil dell’economia criminale valutato 200 miliardi, coincidente con la valutazione di Bankitalia. Complessivamente 729 miliardi di PIL. Facile valutare l’evasione fiscale complessiva.

Secondo le rilevazioni riportate da Eurispes «il 53% dell’economia non osservata è rappresentato dal lavoro sommerso che vale 280,5 miliardi, il 29,5% dall’evasione fiscale a opera di aziende e imprese, valore 156 miliardi e il 17,6%, 93 miliardi, dalla cosiddetta economia informale».

Quanto all’economia criminale, il fatturato annuo delle mafie italiane, valutato da organismi diversi, come detto, si aggira all’incirca sui 180-200 miliardi di Euro ed è più elevato del Pil di Estonia (25 miliardi), Romania (117 miliardi), Slovenia (30 miliardi) e Croazia (34 miliardi).

I beni consolidati delle mafie italiane sono stimati mille miliardi di Euro. La loro confisca risolverebbe il problema del debito pubblico.

Ma i sequestri vanno a rilento e costituiscono il 10% dei patrimoni mafiosi e di questi solo la metà arriva a confisca. Il che significa che finora è stato confiscato solo il 5% dei patrimoni, di cui una parte consistente, non è stata nemmeno assegnata.

Per cui «è evidente la sproporzione fra la ricchezza e la complessità delle leggi e i risultati effettivamente raggiunti sul terreno nevralgico della repressione delle accumulazioni finanziarie illecite e della loro utilizzazione a fini di infiltrazione dell’economia legale». (cfr. Piero Grasso, Relazione anno 2009 alla Commissione Antimafia).

Tutto questo fiume di denaro deve essere però poi ripulito e “legalizzato”.

Le diverse tecniche di riciclaggio vengono attuate prevalentemente attraverso una duplice tipologia di operazioni: da un lato, quelle aventi una causa economica fittizia con lo scopo di dissimulare la provenienza illecita del denaro; dall’altro, quelle che, al fine di occultare la reale titolarità dei beni, sono realizzate mediante soggetti interposti.

Le operazioni del primo tipo hanno a oggetto, a titolo esemplificativo, false fatturazioni, che consentono di giustificare una movimentazione finanziaria, ovvero fittizie importazioni, che permettono di fornire una causa al trasferimento di fondi a fornitori situati all’estero.

La seconda tipologia di operazioni sono, invece, realizzate mediante il ricorso all’interposizione fittizia, consistente nell’adozione di un negozio simulato diretto a occultare l’effettivo proprietario della ricchezza.

In entrambi i casi è possibile rilevare la similitudine con schemi e tecniche utilizzati per realizzare l’evasione fiscale.

Anzi in alcuni casi i due fenomeni coincidono quasi esattamente.

A proposito di negozi simulati, l’articolo 1, comma 65, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 ha del resto aggiunto all’articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, che stabilisce che sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e a ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti, la lettera f-quater.

Tale lettera prevede dunque che l’amministrazione finanziaria disconosca i vantaggi tributari conseguiti mediante «pattuizioni intercorse tra società controllate e collegate ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, una delle quali avente sede legale in uno degli Stati o nei territori a regime fiscale privilegiato, individuati ai sensi dell’articolo 167, comma 4, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, aventi ad oggetto il pagamento di somme a titolo di clausola penale, multa, caparra confirmatoria o penitenziale».

Ai sensi del comma 66 dell’articolo 1, della citata legge 27 dicembre 2006, n. 296, tali nuove disposizioni si applicano a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data del 1 gennaio 2007.

Con la Finanziaria 2007 è stata quindi in sostanza introdotta una nuova fattispecie (assimilabile alla ratio del transfer pricing), contrastabile con la previsione antielusiva di cui all’articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973.

Con operazioni quali quelle indicate dalla lettera f-quater, infatti, si realizzano inaccettabili duplicazioni di costi.

Il pagamento di somme a titolo di caparra tra imprese dello stesso gruppo può del resto anticipare manovre elusive che si concretizzano quando, a seguito del mancato rispetto degli accordi contrattuali, la caparra versata viene persa o la caparra ricevuta viene restituita nella misura del doppio.

In tali contesti è facile inoltre che il versamento della caparra infragruppo rappresenti solo uno dei vari illeciti vantaggi fiscali (potremmo dire la punta dell’iceberg).

Può infatti accadere che con tali tipi di operazioni si realizzino contestualmente vari illeciti.

Il versamento della caparra, per esempio, ben si potrebbe inserire nell’ambito di una cessione infragruppo di un contratto preliminare di vendita.

Tale circostanza sarà del resto tanto più grave laddove, oltre all’illecita duplicazione di costi, legata al versamento della caparra, il contratto preliminare venga in realtà ceduto solo fittiziamente, con meri giri contabili infragruppo e con la formazione dunque di illeciti crediti IVA.

Il solo modo per contrastare tali illecite operazioni sarà dunque valutarle nel loro complesso.

Ogni passaggio infatti è strettamente connesso al successivo e ne rappresenta la causa e il presupposto.

Si può parlare in questi casi allora di negozio indiretto con effetti simulativi.

L’argomento è stato già affrontato, infatti, dalla Corte Suprema, che, con la sentenza n. 8098 del 6 aprile 2006, ha affermato che l’amministrazione finanziaria è legittimata a dedurre la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal contribuente, o la loro nullità per “abuso di diritto”.

I giudici, richiamandosi a precedenti pronunce (vedi sentenze n. 12401 del 1992 e n. 5917 del 1999), hanno ribadito che «l’accertamento dell’esistenza dell’elemento causale - definito come scopo economico sociale - deve essere effettuato sul negozio o sui negozi collegati, nel loro complesso, e non con riferimento ai singoli negozi o alle singole prestazioni. Pertanto, per verificare l’esistenza della giustificazione socio-economica del negozio occorre valutare le attribuzioni patrimoniali conseguite dai due negozi nella loro reciproca connessione. Nella specie, quindi, l’esistenza della causa dei contratti collegati deve essere ricercata nell’intera operazione e non in ciascuna attribuzione patrimoniale separatamente considerata».

Ciò che dunque caratterizzerà operazioni come quelle in esame sarà del resto, di solito, la totale assenza di giustificazione economica del negozio di cessione del preliminare (e del versamento della connessa caparra), chiara manifestazione di simulazione del contratto.

Ancora la Corte Suprema, in altre occasioni (vedi sentenze nn. 6445 del 1985, 6232 del 1991, 6037 del 1993, 13261 del 1999), ha ritenuto, a tal proposito, che gli uffici possono sempre rilevare la simulazione (o comunque la nullità) dei contratti, stipulati al solo scopo di ottenere un risparmio fiscale.

La Corte Suprema, peraltro, ha già in passato affrontato più volte fattispecie come quella in esame.

Con la sentenza n. 12353 del 10 giugno 2005 la Corte di Cassazione ha in particolare affermato che «l’ufficio finanziario ha il potere di accertare la sussistenza dell’eventuale simulazione di un contratto in grado di pregiudicare il diritto dell’amministrazione alla percezione del giusto tributo, senza la necessità di un preventivo giudizio di simulazione, spettando poi al giudice tributario, in caso di contestazione, il potere di controllare incidenter tantum, attraverso l’interpretazione del negozio ritenuto simulato, l’esattezza di tale accertamento, al fine di verificare la legittimità della pretesa tributaria».

Il caso affrontato dalla Corte corrispondeva dunque proprio alla fattispecie sopra evidenziata di cessione simulata di preliminari di compravendita.

Il contribuente, nel caso affrontato dalla Corte, aveva infatti posto in essere un sistema di compravendite immobiliari simulate, i cui pagamenti avvenivano attraverso giroconti, effettuati presso finanziarie dello stesso gruppo.

In quell’occasione l’ufficio, considerando le varie operazioni nel loro complesso, aveva effettuato un giudizio di simulazione dei preliminari di vendita, posti in essere al fine di non versare l’IVA a debito e di portare in detrazione l’imposta addebitata in base alle fatture di segno opposto emesse dalla società promissaria acquirente dell’immobile, società facente parte, appunto, della stessa compagine sociale.

Era evidente la sussistenza di un negozio simulato, il cui contrasto doveva necessariamente passare attraverso l’individuazione del meccanismo di illecita preordinazione, a cui le compravendite immobiliari (simulate) erano dirette.

E il solo modo per farlo consisteva nel dimostrare che, né la stipulazione, né la cessione dei contratti preliminari avevano in realtà un effettivo contenuto economico: indizio (rectius: prova) questo della natura simulata delle operazioni, che rappresentavano dunque un mero schermo finalizzato a celare l’evasione d’imposta.

Come riconosciuto ancora dalla Corte Suprema con le sentenze n. 11676 del 5 agosto 2002 e n. 18048 del 18 dicembre 2002 (e ancor prima con la sentenza n. 11424 del 12 novembre 1998) l’amministrazione finanziaria dispone del potere di accertare la presenza di un’eventuale simulazione in grado di pregiudicare il diritto alla percezione dell’esatto tributo.

E di conseguenza il giudice tributario può verificare l’esattezza di tale accertamento anche attraverso l’interpretazione del negozio simulato.

Nella sentenza n. 5582 del 18 aprile 2002, infine, la Corte Suprema ha ribadito che la inopponibilità all’amministrazione finanziaria di operazioni negoziali simulate discende dai principi generali dell’ordinamento, essendo il riflesso della più generale inefficacia del contratto simulato di cui agli articoli 1414-1415 del codice civile.

Ancor prima dell’estensione della disciplina antielusiva a operazioni quali quelle indicate dalla lettera f-quater dell’articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973 (e a prescindere pertanto anche dalla data di entrata in vigore della medesima previsione), quindi, sussisteva già nel nostro ordinamento un generale divieto di conferire rilevanza a simili operazioni, finalizzate esclusivamente all’artificioso ottenimento di illeciti vantaggi fiscali.

Un ulteriore legame tra il fenomeno dell’evasione e quello del riciclaggio si rinviene poi nella scelta di allocare, in entrambi i casi, i capitali di origine illecita nei c.d. “paradisi fiscali”.

L’interrelazione tra la disciplina di contrasto al riciclaggio e la lotta all’evasione fiscale emerge del resto dalla legislazione di molti paesi OCSE, i quali stanno progressivamente adeguando la loro legislazione alle misure individuate dal GAFI, nonché agli standard elaborati dal Global Forum in materia di trasparenza e scambio di informazioni in materia fiscale.

Per una maggiore efficienza dell’azione di contrasto ai due fenomeni (riciclaggio ed evasione fiscale) sarebbe inoltre auspicabile l’accesso diretto da parte dell’amministrazione finanziaria ai dati e alle informazioni reperite dalle autorità antiriciclaggio e viceversa.

Tuttavia, mentre la normativa consente oggi un’agevole travaso di dati dall’amministrazione finanziaria alle autorità antiriciclaggio, al contrario, all’amministrazione finanziaria è consentito l’accesso alle segnalazioni di operazioni sospette di riciclaggio soltanto a determinate condizioni.

Infatti, tutte le informazioni in possesso delle autorità preposte all’antiriciclaggio, salvo alcune deroghe espressamente previste dalla legge «sono coperte dal segreto d’ufficio anche nei confronti della Pubblica amministrazione».

Tra i metodi di controllo impiegati nella lotta all’evasione da utilizzare con finalità extrafiscali, al fine di segnalare posizioni patrimoniali e operazioni finanziarie ambigue, potrebbe del resto essere utile valorizzare taluni dei vigenti strumenti probatori di natura presuntiva: si pensi all’accertamento sintetico, fondato sul controllo della capacità di spesa e degli investimenti patrimoniali del contribuente in relazione alla sua capacità reddituale, nonché alle citate indagini finanziarie.

L’amministrazione finanziaria può infatti determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente sulla base delle spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d’imposta.

Viene fatta comunque salva la possibilità per il contribuente di fornire la prova che il finanziamento della spesa sia avvenuto con redditi non soggetti a tassazione ovvero con disponibilità economiche e finanziarie che non sono configurabili come reddito (es. smobilizzi patrimoniali, donazioni di denaro, ecc.).

Il metodo di accertamento sintetico si fonda quindi sul presupposto logico secondo cui il sostenimento di una spesa costituisce un indice presuntivo dell’esistenza di un reddito: la norma introduce cioè una presunzione legale relativa di evasione d’imposta laddove la capacità di spesa non trovi correlazione con il reddito dichiarato.

Per procedere ad accertamento sintetico è necessario valutare la complessiva posizione reddituale dei componenti il nucleo familiare, dato che gli elementi indicativi di capacità contributiva rilevanti ai fini dell’accertamento sintetico potrebbero trovare giustificazione nei redditi degli altri componenti il nucleo familiare.

Passando sempre dalla teoria alla pratica, giova riportare il seguente esempio.

In un caso recentemente all’esame della Commissione Tributaria Provinciale di Firenze una contribuente era stata selezionata perché nell’anno 2005 e 2006, pur non avendo presentato alcuna dichiarazione dei redditi, risultava proprietaria di una autovettura di grossa cilindrata.

La contribuente, a seguito della notifica del questionario da parte dell’ufficio con richiesta di fornire chiarimenti in merito al possesso di tali beni e al mantenimento degli stessi, pur confermando il possesso dell’autovettura, indicava un soggetto terzo quale sostenitore delle spese.

Tale soggetto tuttavia non aveva alcun rapporto di parentela con la ricorrente, la quale, in ogni caso, non aveva prodotto alcuna documentazione comprovante l’effettivo sostenimento delle spese da parte del soggetto da lei indicato.

La ricorrente si era poi limitata a sostenere in contenzioso, tra l’altro in maniera contraddittoria, di aver ricevuto da parte dell’ex coniuge una somma di 80.000 Euro, come quota parte del prezzo di vendita realizzato a seguito di alienazione di un immobile situato in Bucarest e di aver inoltre ricevuto una somma pari a 12.000 Euro da parte del padre dell’attuale convivente di fatto.

Tali giustificazioni, oltre a essere comunque inconferenti, erano prive però di ogni valida documentazione probatoria di supporto.

Il contratto di compravendita dell’immobile in Romania (la cui traduzione risultava peraltro prodotta in copia e autenticata da parte di notaio pubblico in Romania e non in Italia), non aveva alcun valore di prova, poiché unico intestatario dell’immobile, nonché venditore, risultava essere l’ex marito della contribuente e non anche la moglie, pertanto da considerarsi, fino a prova contraria, unico percettore delle somme derivanti dalla vendita dell’immobile.

Il trasferimento della cifra di 80.000 Euro, derivante dalla vendita dell’immobile non risultava provato, poiché l’unica documentazione prodotta era una dichiarazione dell’ex coniuge che attestava di aver conferito alla moglie tale cifra. La parte avrebbe dovuto infatti offrire in prova semmai la documentazione comprovante i passaggi di somme di denaro dal conto corrente dell’ex coniuge al suo (estratti conto, copia bonifici, assegni ecc.).

Infine non era stato provato l’utilizzo di tali somme ai fini del sostenimento delle spese di acquisto, mantenimento e gestione dell’autovettura, né tantomeno ai fini del proprio sostentamento; anzi, in contraddizione con tale disponibilità, era la stessa ricorrente a sostenere che aveva comunque avuto bisogno di un prestito da parte del padre del convivente per l’acquisto dell’autovettura.

L’ufficio a tal proposito sottolineava peraltro come la disponibilità di somme derivanti da redditi prodotti da componenti del “nucleo familiare” (seppur in ogni caso non provata) non corrispondeva comunque alla fattispecie in esame.

Il certificato di stato di famiglia prodotto dalla ricorrente indicava infatti come componenti del nucleo familiare della stessa contribuente e non anche il convivente di fatto.

Risultava soltanto che dal 30 dicembre 2005 la contribuente aveva acquisito la residenza anagrafica presso il convivente.

Il fatto però che la contribuente risiedesse anagraficamente presso l’abitazione di quest’ultimo a far data dal 30 dicembre 2005 non dimostrava certo l’effettivo rapporto di convivenza more uxorio da lei asserito.

La mera convivenza anagrafica poteva del resto sottintendere altre tipologie di rapporti, non ultimo un rapporto di lavoro come quello di collaboratrice domestica, peraltro comprovato dalla dichiarazione della stessa ricorrente di aver prestato assistenza alla famiglia del convivente e di aver eletto domicilio presso la sua abitazione per poter regolarizzare la sua posizione in Italia.

Tali conclusioni, in diritto, trovavano del resto conferma nella sentenza della Corte Suprema n. 17203 del 28 luglio 2006, la quale stabiliva che «l’articolo 38 del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973 consente al contribuente di dimostrare che il maggior reddito determinato determinabile attraverso l’accertamento sinteticamente basato su “redditometro” è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta. Ciò tuttavia solo a condizione che tali redditi aggiuntivi risultino da idonea documentazione e siano effettivamente posseduto dal contribuente e cioè siano di pertinenza sua, del coniuge e dei figli minori (che costituiscono “nucleo familiare”). Non possono perciò essere conteggiati i redditi di un affine, pur se convivente con il contribuente».

La contribuente del resto avrebbe potuto cercare di dimostrare l’effettivo rapporto di convivenza more uxorio attraverso idonea documentazione comprovante la comunione e la condivisione dei beni.

A titolo esemplificativo la contestazione di un conto corrente o del contratto di assicurazione dell’autovettura o di altro documento comprovante che il convivente aveva a carico la ricorrente, la quale, come detto, non risultava percepire alcun reddito.

Tali conclusioni sono del resto confermate anche dall’indirizzo della Corte Suprema, la quale, con la sentenza n. 9549 del 29 aprile 2011, ha per esempio affermato che «in tema di accertamento dei redditi, nella disciplina ratione temporis vigente, la disponibilità di autoveicoli in Italia o all’estero costituisce un elemento indicativo di capacità contributiva. Il possesso del bene costituisce una presunzione legale ai sensi dell’articolo 2728 del codice civile e il giudice tributario non può privare tale elemento che la legge ha inteso annettere alla loro disponibilità potendo solo valutare la prova che il contribuente offre in ordine alla provenienza non reddituale delle somme necessarie per mantenerne il possesso».

Tale strumento è stato peraltro recentemente rafforzato con l’introduzione del c.d. spesometro che ha introdotto per i soggetti passivi IVA l’obbligo di comunicare in via telematica le cessioni di beni e le prestazioni di servizi per le quali i corrispettivi dovuti risultano di importo pari o superiore a 3.000 Euro, al netto dell’imposta.

Ciò significa che, a regime, l’amministrazione finanziaria sarà in grado, inserendo semplicemente il codice fiscale del contribuente nell’Anagrafe tributaria, di monitorare non soltanto tutti gli investimenti patrimoniali effettuati dal contribuente, ma anche le spese sostenute per importi unitari superiori a 3.000 Euro.

Appare evidente come l’utilizzazione dell’accertamento sintetico nonché dei dati risultanti dalle indagini finanziarie fondate su strumenti presuntivi sia idonea a fornire un’immagine estremamente precisa della capacità di spesa del contribuente in relazione alla sua capacità reddituale.

E l’impiego congiunto di tali strumenti (accertamento sintetico e indagini finanziarie) potrebbe rivelarsi particolarmente proficuo per selezionare posizioni patrimoniali e finanziarie sospette da sottoporre a ulteriori accertamenti, anche penali, soprattutto in funzione di contrasto a operazioni di riciclaggio.

L’idea di usare strumenti fiscali per contrastare la criminalità organizzata, del resto, non è certamente nuova.

A parte il leggendario caso di Al Capone, infatti, non può non citarsi il pensiero del Capitano Bellodi, ne “Il giorno della civetta” di Sciascia, il quale, durante l’interrogatorio di Don Mariano Arena, si trova ad affermare che «bisogna sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche […] sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…».

L’idea di Sciascia di «annusare intorno alle ville e alle automobili fuori serie, confrontando quei segni di ricchezza con gli stipendi, e tirarne il giusto senso» non sembra molto diversa da quella di utilizzare l’accertamento sintetico proprio per intercettare le risorse finanziarie illecite della criminalità organizzata.

Del resto, proprio alla luce di quanto sopra evidenziato, poiché una (notevole) parte della ricchezza prodotta sfugge a qualsiasi controllo dello Stato, è necessario distinguere tra pressione fiscale “apparente” e pressione fiscale effettiva.

Mentre infatti la pressione fiscale “apparente” si aggira sul 44%, la pressione fiscale effettiva - dovuta all’economia sommersa e a quella criminale, per chi le tasse le paga è superiore di circa 8-10 punti percentuali.

Insomma fenomeni criminali (e in primis il riciclaggio) ed evasione fiscale sono intimamente connessi.

Anche per questo, nella nuova direttiva comunitaria antiriciclaggio è ora espressamente previsto il richiamo ai reati fiscali relativi alle imposte dirette e imposte indirette.

La proposta di direttiva, approvata dalla Commissione europea insieme con il regolamento riguardante i dati informativi che accompagnano i trasferimenti di fondi, al fine di garantire la «dovuta tracciabilità, chiarisce infatti che antiriciclaggio ed evasione sono sempre più due facce della stessa medaglia. Tanto che nei considerando iniziali della direttiva la Commissione sottolinea che l’inclusione dei reati fiscali legati alle imposte dirette e indirette è un recepimento delle indicazioni che arrivano dall’organismo internazionale OCSE dell’antiriciclaggio (GAFI).

Le nuove regole antiriciclaggio arrivano dunque per banche, istituzioni finanziarie, revisori contabili, notai, promotori finanziari. Ma anche agenti immobiliari, trust e legali rappresentanti che d’ora in avanti saranno tenuti a rispettare misure più stringenti per aumentare il livello di trasparenza delle operazioni in Europa. Primo fra tutti, la messa al bando dei conti correnti anonimi da parte dei paesi membri, non più ammessi dall’articolo 9 capitolo II della nuova disciplina comunitaria anti riciclaggio.

Oltre all’introduzione obbligatoria della due diligence per tutti coloro che offrono merci o prestano servizi a fronte del pagamento in contanti di importo pari o superiore a 7.500 Euro (in Italia la soglia è già più bassa, a 1.000 Euro). O per operatori del gioco d’azzardo che conducono transazioni finanziarie superiori ai 2.000 Euro. «La due diligence del fornitore dovrà prevedere l’accertamento e la verifica dell’identità sulla base dei documenti o di altre informazioni ottenute in maniera affidabile da parte di fonti di informazione indipendenti», si legge nella direttiva UE.

Insomma, la lotta all’evasione fiscale e al riciclaggio devono necessariamente procedere su binari paralleli e al tempo stesso congiunti. L’una non può prescindere dall’altra.