x

x

CSM: a che punto è la notte?

Vincent van Gogh, Notte stellata, 1889, New York, Museum of Modern Art
Vincent van Gogh, Notte stellata, 1889, New York, Museum of Modern Art

Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita

incontrerai tante maschere e pochi volti

L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila

 

Gli eventi di questi giorni sono una ferita profonda e dolorosa alla magistratura e al Consiglio superiore. L’associazionismo giudiziario è stato un potente fattore di cambiamento e di democratizzazione della magistratura. E ancora oggi svolge un ruolo prezioso. Ma consentitemi di dire che nulla di tutto ciò vedo nelle degenerazioni correntizie, nei giochi di potere e nei traffici venali di cui purtroppo evidente traccia è nelle cronache di questi giorni. E dico che nulla di tutto ciò dovrà in futuro macchiare l’operato del Csm. Siamo di fronte a un passaggio delicato: o sapremo riscattare con i fatti il discredito che si è abbattuto su di noi o saremo perduti”.

Queste erano le dichiarazioni preoccupate e dolenti ma comunque aperte alla speranza e al riscatto di Davide Ermini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura.

Erano i primi giorni di giugno del 2019 ed era appena esploso il cosiddetto “caso Palamara”[1].

Le rivelazioni di stampa dopo la perquisizione nell’abitazione dell’ex presidente dell’associazione nazionale magistrati e, molto di più, il successivo lunghissimo stillicidio di stralci delle sue conversazioni telefoniche e dei suoi sms avevano proposto all’opinione pubblica una gravissima degenerazione.

L’idea suggerita da quei resoconti sempre più incalzanti e dettagliati era che il CSM, a dispetto della sua natura di organo di autogoverno della magistratura e di difensore della sua autonomia e indipendenza, si fosse trasformato, né più né meno, in un centro lobbistico; che le nomine di sua competenza, particolarmente quelle apicali delle più grandi procure della Repubblica, fossero fatte non per merito ma per appartenenza a cordate; che gli stessi criteri fossero applicati per la scelta dei magistrati da collocare nelle postazioni più importanti del ministero della Giustizia e degli altri da destinare nei ranghi interni dello stesso CSM e in altre ambite sedi fuori ruolo; che tale stato di cose fosse il frutto dello strapotere delle correnti associative dei magistrati le quali, in virtù di un sedimentato consociativismo, avevano il controllo assoluto del medesimo CSM; che la degenerazione si fosse spinta così avanti da considerare normale la partecipazione di esponenti politici, imprenditori e affaristi ai processi decisionali interni dell’organo di autogoverno; che, infine, di questa degenerazione facesse parte anche un uso distorto della giustizia disciplinare la quale, piuttosto che adempiere ai suoi scopi ordinamentali, si era trasformata in un comodo strumento per tutelare gli amici e tenere sulla graticola i nemici.

Sono passati più di due anni da allora e pare un tempo sufficiente per verificare se al solenne impegno del vicepresidente Ermini e alle sue parole alte sia seguito il riscatto agognato.

Una verifica tanto più significativa se si considera che, fatta eccezione per i consiglieri superiori dimessisi dopo lo scandalo e sostituiti dai candidati vittoriosi nelle elezioni suppletive e fatta ulteriore eccezione per un altro consigliere superiore cessato dall’incarico per raggiunti limiti di età, è ancora all’opera lo stesso CSM del 2019.

Il primo banco di prova è l’uso della giustizia disciplinare nei confronti dei magistrati lambiti a vario titolo dal medesimo scandalo.

Ad oggi risulta concluso un unico procedimento ed è quello che ha portato alla destituzione del Dr. Palamara.

Risulta prossimo alla definizione l’altro procedimento avviato nei confronti di alcuni ex consiglieri superiori cui è stato addebitato di avere partecipato in modo disciplinarmente rilevante alla pratica per la nomina del successore del Dr. Pignatone alla guida della procura della Repubblica di Roma.

Si apprende dalla stampa che la procura generale presso la Corte di Cassazione ha chiesto la sanzione della sospensione dal servizio per gli incolpati e che la decisione dovrebbe essere emessa in questo mese di settembre.

Non si ha notizia invece di alcun altro provvedimento disciplinare o anche solo di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale nei confronti di uno qualsiasi dei tanti magistrati per i quali sono emerse tracce di contatti con il Dr. Palamara finalizzati all’acquisizione di trattamenti di favore in vista di nomine o di trasferimenti a sedi ambite  per se stessi o per altri oppure, al contrario, finalizzati a mettere in cattiva luce colleghi interessati a nomine e ostacolarne il percorso professionale.

Si consideri peraltro che nelle more il procuratore generale presso la Corte di cassazione cui, al pari del ministro della Giustizia, compete l’esercizio dell’azione disciplinare ha emesso direttive volte a circoscrivere tale funzione proprio per i casi emersi a seguito dell’indagine perugina sul Dr. Palamara ed ha escluso esplicitamente dal novero del disciplinarmente rilevante le condotte di autopromozione anche particolarmente petulanti purché avvenute senza denigrazione dei concorrenti o prospettazione di vantaggi elettorali[2].

Si comprende bene che un’esclusione di tal genere, al di là del giudizio di fondatezza che se ne può avere, ha ridotto significativamente il raggio di azione del PG.

Resta comunque il fatto che anche per coloro che potrebbero aver tenuto condotte di autopromozione accompagnate da denigrazione altrui o dalla promessa di riconoscenza elettorale la scure disciplinare non risulta aver prodotto effetti finora.

C’è poi un’altra questione sulla quale era lecito attendersi il riscatto promesso dal vicepresidente Ermini ed era quella della prima pietra dello scandalo, vale a dire la procedura di nomina del capo della procura capitolina.

È noto che la prima istruttoria condotta dalla commissione consiliare per gli incarichi direttivi si era conclusa con un voto a maggioranza a favore della candidatura del Dr. Marcello Viola, all’epoca procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Firenze.

La diffusione del caso Palamara ha fatto sì che la procedura fosse rifatta ex novo e questa volta la nomina è stata spuntata dal Dr. Michele Prestipino Giarritta, già procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Roma e stretto collaboratore del predecessore Dr. Pignatone.

Due dei candidati soccombenti, precisamente il citato Dr. Viola e il Dr. Francesco Lo Voi, procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo, hanno adito il TAR di Roma, lamentando l’illegittimità della nomina del Dr. Prestipino i cui titoli di servizio sarebbero stati sopravvalutati nella comparazione con i concorrenti. Il TAR ha accolto i ricorsi e la decisione di primo grado è stata confermata dal Consiglio di Stato dopo l’appello del Dr. Prestipino.

Il dato di rilievo è che il CSM si è costituito in entrambi i giudizi sostenendo la legittimità della nomina del Dr. Prestipino e continuerà a farlo anche nel giudizio in cassazione attivato dal ricorso del soccombente contro le decisioni del Consiglio di Stato (impugnabili, peraltro, solo per difetto di giurisdizione).

È scontato che il CSM sia legittimato a fare ciò che ha fatto ma ciò che è legittimo non è necessariamente anche opportuno, soprattutto se l’effetto è di generare l’impressione della difesa ad oltranza di una nomina che la giurisdizione amministrativa ha unanimemente giudicato fondata su criteri addirittura incomprensibili[3].

Sembra pertanto che anche questa rilevante occasione di un nuovo corso sia stata mancata.

Si potrebbe continuare a fare esempi.

Si potrebbe parlare delle posizioni oltranziste assunte anche di recente dall’associazione nazionale magistrati e da almeno alcune delle sue correnti ogni qualvolta si affacci la possibilità di riforme che immettano semi di pluralismo in ambiti che la magistratura considera suoi propri e quindi indisponibili.

Così è avvenuto per la proposta di conferire diritto di tribuna e di voto agli avvocati in occasione dei pareri redatti dai consigli giudiziari per le valutazioni professionali dei magistrati.

Lo stesso potrebbe dirsi per le posizioni ferocemente critiche, non di rado accompagnate da accuse di incostituzionalità, contro i progetti riformatori, da ultimo quello complessivo fortemente voluto dalla ministra Cartabia, che si sospetti possano sottrarre all’ordine giudiziario anche solo frammenti della sua potestà sul processo e sui suoi tempi di definizione.

Basti qui ricordare quante barriere furono erette contro la legge n. 18/2015 che aboliva il filtro di ammissibilità per le azioni risarcitorie intese a far valere la responsabilità civile dei magistrati, barriere che crollarono miseramente allorché la Consulta, con la sentenza n. 164/2017 dichiarò inammissibili tutte le questioni di legittimità poste da vari giudici con motivazioni in qualche caso addirittura surreali[4].

È il momento di concludere e lo si fa rilevando che nessuna delle ferite aperte dal caso Palamara sembra essersi chiusa sicché la notte non è ancora passata.

Purtroppo per il CSM e per l’ordine giudiziario, purtroppo per tutti noi.

 

[1] Per un resoconto della vicenda, si rinvia a V. Giglio, Il Consiglio superiore della magistratura e la difficilissima stagione dell’autogoverno, Filodiritto, 12 giugno 2019, consultabile a questo link.

[2] Si rinvia, per approfondimenti sul punto, a V. Giglio, La responsabilità disciplinare dei magistrati, Filodiritto, 28 ottobre 2020, consultabile a questo link e a R. Russo, L’elogio della trasparenza, 10 dicembre 2020, Filodiritto, consultabile a questo link. Si segnala inoltre che, sempre in Filodiritto, il Dr. R. Russo, già sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, cura la rubrica “La rinascita della magistratura italiana” ed ha pubblicato numerose riflessioni sui temi della giustizia disciplinare alle quali si rimanda.

[3] Così è testualmente affermato a pag. 36 della sentenza n. 3712/2021 emessa dalla quinta sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato in esito alla camera di consiglio del 15 aprile 2021 nel giudizio d’appello promosso dal Dr. Prestipino avverso la sentenza della prima sezione del TAR Lazio che aveva accolto il ricordo del Dr. Viola: “non appaiono esternate e comunque comprensibili le dominanti ragioni per cui, nel caso di specie, sia la V Commissione nel giudizio in favore del dott. Prestipino Giarritta, sia il Plenum del CSM nel farlo proprio abbiano di fatto ritenuto di senz’altro equiordinare le più ridotte e più contenute funzioni di Procuratore aggiunto rispetto a quelle di chi è stato già a capo di un ufficio di Procura, seppure di ben diverse dimensioni, e poi comunque di un’importante Procura Generale”.

[4] Una di tali questioni fu sollevata dal tribunale di Treviso nell’ambito di un giudizio penale nei confronti di un soggetto imputato di illegale detenzione di un ingente quantitativo di tabacchi lavorati esteri. Il giudice a quo affermò che, poiché il tema essenziale di prova era stabilire se l’imputato fosse consapevole della presenza del tabacco in un magazzino di cui aveva la disponibilità, la relativa valutazione, in difetto di prove dirette, doveva necessariamente fondarsi su elementi indiziari ed era per ciò stesso particolarmente “difficile e rischiosa”. La situazione era ulteriormente complicata dalle modifiche apportate dalla Legge 18/2015 che, esponendo i magistrati a possibili responsabilità anche per effetto della valutazione di fatti e prove, li privava della necessaria serenità e li spingeva “per forza di cose”  verso la decisione meno rischiosa, ordinariamente coincidente con l’assoluzione dell’accusato.

Considerazioni di pari pregnanza fece il tribunale di Catania. Nel giudizio sottostante si trattava l’opposizione proposta da un datore di lavoro contro l’ordinanza che aveva disposto la reintegrazione di una lavoratrice dopo il  suo licenziamento per giusta causa. Nell’ordinanza di rimessione il tribunale osservò che, date la delicatezza della controversia e l’asprezza dei toni delle parti in lite, la novella normativa del 2015 avrebbe potuto privare il decidente dell’indispensabile serenità e indurlo a scegliere non la soluzione giudicata più corretta ma quella “meno rischiosa”.