Demolizioni: i numeri di Legambiente e l’elogio dell’ovvio
Secondo l’ultimo “report” di Legambiente diffuso in occasione dell’approdo in Campania di Goletta Verde, il tempo di attesa è finito e il grido di allarme è uno solo: “occorre ripristinare con urgenza la legalità lungo le aree costiere italiane dove sono state realizzate case vista mare nel totale disprezzo delle leggi, del paesaggio, del diritto collettivo a poterne godere e della sicurezza di chi ci vive. Poco o nulla viene buttato giù. Le demolizioni sono ferme al palo e nelle zone costiere le condotte omissive sono ancora più evidenti”.
In Campania, a detta dei volontari della associazione, le demolizioni lungo il litorale negli ultimi 15 anni non arrivano neanche al 2%. Peggio fanno solo il Molise (fermo a zero) e le Marche (dove si sfiora l’1%) ma con dati quantitativi molto diversi: la Campania guida, infatti, la classifica delle regioni per numero di ordinanze emesse, sia nei comuni costieri che nei comuni dell’entroterra, ma ha demolito solo il 3%. Se si prendono in considerazione solo gli abusi realizzati lungo la costa si contano ben 11.092 ordinanze emesse e solo 220 riferite a quelle eseguite.
Tutto vero!
Come non si può essere d’accordo con questi dati?
Snocciolandoli, vien da pensare che l’elogio è soprattutto dell’ovvio e dell’universalmente giusto o, se si vuole, dell’equità che deve accompagnare qualsiasi trattamento sanzionatorio.
È ovvio che le demolizioni degli immobili abusivi nelle aree di elevata valenza paesaggistica, come la fascia costiera, debbano essere eseguite con priorità assoluta rispetto a quelle degli immobili ricadenti all’interno dei centri abitati o in aree degradate o, comunque, meno appetibili sotto il profilo della godibilità paesaggistica e della commerciabilità.
È ovvio che le demolizioni degli abusi speculativi e delle seconde case, a maggior ragione se ricadenti all’interno della fascia costiera, debbano avere una corsia preferenziale, costi quel che costi.
Legambiente non spiega, tuttavia, perché mai ha osteggiato, con attacchi virulenti e in ogni sede, il DDL Falanga che – a ben vedere ed ovviamente – si prefiggeva lo stesso scopo, ovvero quello di garantire la demolizione degli abusi speculativi con priorità assoluta rispetto agli altri e soprattutto a quelli delle prime ed uniche case della povera gente, dei più bisognosi, ai quali l’amministrazione della cosa pubblica il più delle volte non ha saputo garantire un percorso di condivisa legalità attraverso il varo di strumenti urbanistici adeguati all’ordinato assetto del territorio ed in linea con esigenze di tutela dinamica e non meramente statica dei valori paesaggistici.
Legambiente non spiega perché mai non ha mosso alcuna critica, nemmeno velata, al decreto del Procuratore Generale della Repubblica di Napoli del 10 dicembre 2015 che perseguiva la medesima finalità, evidenziando, con ragionamento lucido e giuridicamente ineccepibile, che “quanto ai beni di rango costituzionale che vengono in rilievo nella materia delle demolizioni, occorre fare riferimento - in un’ottica di valutazione e bilanciamento degli stessi - non solo all’ambiente (art. 9 della Costituzione) e alla salute (art. 32 Cost.) ma anche ad altri beni e principi tutelati dalla Carta Costituzionale, quali l’uguaglianza sostanziale, l’equità, la ragionevolezza e la solidarietà sociale (art. 3 Cost.), il diritto al lavoro (art. 4 Cost.) e la funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.)”.
Legambiente non spiega perché non ha mosso una sola parola di disappunto contro il c.d. Protocollo Siracusa e quelli delle Procure e dei comuni del parco nazionale del Vesuvio e nemmeno contro la circolare del Procuratore Generale di Torino Marcello Maddalena del 2007 (sui criteri da osservare nell’esercizio, pur obbligatorio, dell’azione penale), approvata nel 2008 dal Plenum del C.S.M.
Forse perché tranquillizzata dall’intervento della Cassazione che ha ritenuto che questi protocolli hanno soltanto una valenza interna agli uffici di Procura e che il P.M. è libero da qualsiasi lacciuolo nella esecuzione dei provvedimenti del giudice, anche se, in materia, si contano a migliaia e sono di fatto ineseguibili per mancanza di mezzi, per difficoltà organizzative o per altre commendevoli ragioni?
Non è più il tempo dell’attesa, è vero ... ma non è più nemmeno il tempo di fare polemica.
È sotto gli occhi di tutti che lo Stato non ha le risorse finanziare necessarie per radere al suolo interi paesi, purtroppo costruiti senza i dovuti permessi e talvolta in violazione di ogni regola, anche solo di buon senso.
Acquisire una provvista finanziaria per coprire i costi di una demolizione non equivale ad aprire - da parte dei comuni - una “partita di giro”, come ritenuto dalla Corte dei Conti in numerose, recenti decisioni: ciò perché tale provvista comporta pur sempre un indebitamento, peraltro vietato nei comuni dissestati, e non è detto che il recupero delle spese vada sempre a buon fine, in special modo allorquando il condannato sia insolvibile.
È innegabile che le sentenze debbano essere eseguite e che non possa esserci scappatoia che tenga.
Il problema diventa grave, però, quando le demolizioni avvengono con il contagocce e nel segno della più assurda anarchia, come sinora accaduto, ed è complicato anche per noi avvocati spiegarne le ragioni.
Non va dimenticato, peraltro, che l’ordine di demolizione collegato alla sentenza di condanna è stato introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento dalla legge n. 47 del 1985.
L’istituto, dunque, è vecchio di oltre trent’anni.
Se le demolizioni si contano sulle dita di una mano e avvengono a macchia di leopardo, è evidente che qualcosa non funziona.
Lo scopo di una graduazione su base normativa delle demolizioni era ed è proprio quello di mettere ordine nella esecuzione dei provvedimenti sanzionatori che, come confermato dagli stessi dati di Legambiente, sono migliaia nella sola regione Campania e riguardano ecomostri, fabbricati pericolanti, scheletri di cemento armato, immobili della criminalità organizzata, costruzioni realizzate sulle spiagge o in violazione del limite di distanza dalla costa e finanche case di necessità abitate da persone prive di ogni altra possibilità di alloggio.
Va ancora una volta ricordato che il quotidiano Il Mattino ha segnalato alcuni anni fa che la demolizione di tutte le costruzioni abusive realizzate a Napoli e Provincia equivale alla demolizione di un numero di case pari a quello di una città grande come Padova, aggiungendo che, per radere al suolo questo immenso patrimonio edilizio, occorrono almeno due secoli ed un enorme fiume di denaro, senza considerare i problemi, sui quali si è soffermato anche il Governatore della Campania Vincenzo De Luca, legati alla carenza, nella intera regione, di un numero sufficiente di discariche dove poter smaltire i residui della attività demolitoria che, come è noto, costituiscono rifiuti speciali.
Non va, poi, dimenticato che, con una illuminante sentenza del 21 aprile 2016, nota come sentenza “Ivanova”, la Corte Europea ha esaminato il caso di due coniugi bulgari che avevano realizzato un’abitazione sulla costa del Mar Nero, in una località paesaggisticamente vincolata e senza i dovuti permessi.
Per questa abitazione, la Corte di Cassazione bulgara aveva attribuito titolo all’amministrazione comunale per la demolizione, in seguito affidata ad un’impresa privata.
La demolizione - secondo la Cassazione - era stata riconosciuta legittima perché “conforme alla normativa bulgara e nel perseguimento di un fine pubblico”: la lotta all’abusivismo edilizio, fenomeno molto diffuso in Bulgaria.
La Corte di Strasburgo, invece, è approdata a conclusioni diverse.
La Corte europea ha ritenuto, in proposito, che l’articolo 8 della Convenzione Europea, che sancisce il diritto al rispetto del domicilio, trova applicazione anche nel caso in cui lo Stato abbia accertato l’esistenza dell’abuso e adottato conseguentemente un ordine di demolizione per garantire il ripristino dello stato dei luoghi.
La Corte ha stabilito, infatti, che “gli Stati contraenti sono tenuti ad assicurare un esame giudiziale della complessiva proporzionalità di misure così invasive, come la demolizione della propria abitazione, e a riconsiderare l’ordine di demolizione della casa abitata dai ricorrenti alla luce delle condizioni personali degli stessi, che vi vivevano da anni ed avevano risorse economiche limitate”.
Insomma, secondo la Corte, un conto è proteggere il diritto meramente economico di chi costruisce violando la normativa edilizia ed un altro conto è assicurare che la prima ed unica casa di una persona in difficoltà economica non venga demolita con leggerezza.
È tempo, dunque, di affrontare il problema con la giusta serenità senza farsi condizionare da falsi ideologismi, guardando, in particolare, alla giurisprudenza europea per trovare la soluzione e realizzare, senza troppi bizantinismi, il giusto contemperamento tra attività repressiva, valori da salvaguardare e diritto alla inviolabilità del domicilio.
Diversamente, tra qualche tempo bisognerà parlare non di elogio dell’ovvio ma di elogio della follia, parafrasando Erasmo da Rotterdam.