A “difesa” del monopolio pubblico
Nel 1956, la Società “Il Tempo-TV” si rivolse al Ministero delle poste e delle comunicazioni al fine di ottenere “l’assenso di massima” per la realizzazione di un servizio di radiodiffusione televisiva, coinvolgente le Regioni del Lazio, della Campania e della Toscana, con eventuale conseguente implicazione di altre Regioni. Un anno dopo, il Ministero ammise l’impossibilità di poter “prendere in considerazione nuove richieste di concessioni per lo stesso servizio”, in virtù di quanto statuito dal Codice postale e delle telecomunicazioni: esso, infatti, aveva concesso in esclusiva alla RAI-Radiotelevisione Italiana l’esercizio dei “servizi di radiodiffusione e di televisione”.
La predetta risposta fu prontamente impugnata dalla ricorrente innanzi al Consiglio di Stato per le seguenti ragioni: l’insussistenza, nel corrente ordinamento, di un monopolio statale del servizio della televisione; l’illegittimità costituzionale di tale monopolio, per eccesso del R.D. n. 645/1936 (che approvava il Codice postale) rispetto alla legge di delegazione n. 336/1933, nonché per contrasto con gli articoli 21, 33 e 41 Cost.
In via generale, l’approccio del Consiglio di Stato fu insoddisfacente. In un primo momento, esso dichiarò infondato il motivo incentrato sull’insussistenza del monopolio statale (ord. n. 504/1959). Con successiva decisione di pari data, esso dichiarò manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale concernente l’esorbitanza del Codice postale dai limiti della delega, rimettendo alla Corte costituzionale le sole questioni relative alla compatibilità degli articoli 168, n. 5, e 1 del Codice postale e delle telecomunicazioni “per la parte in cui concernono la televisione” con gli articoli 21, 33 e 41 Cost. (e in aggiunta con l’articolo 43).
Prima di delineare le risposte concesse dalla Consulta, occorre segnalare che, in mancanza di regole costituzionali puntuali, è stato compito della giurisprudenza costituzionale tracciare i principi ispiranti la disciplina della radiotelevisione. Su spinta di essa, il sistema radiotelevisivo è passato dal regime del monopolio pubblico iniziale al sistema misto attuale.
A differenza della stampa, da sempre incentrata sul regime liberistico, la radiofonia, prima, e la televisione, poi, sono state per lungo tempo assoggettate ad una disciplina pubblicistica.
Il modello ideato dal codice postale del 1936 rimase immutato nei primi anni dell’esperienza prerepubblicana. Si avvertiva, però, la forte necessità di interrogarsi sulla compatibilità di tale disciplina con quanto sancito dall’articolo 21 Cost.., che assicura a “tutti” il diritto di manifestare il proprio pensiero attraverso qualunque mezzo e con il correlato diritto di “tutti” ad avere un’informazione completa ed imparziale.
Con la sentenza n. 59/1960, la Corte difese la legittimità del monopolio pubblico, seguendo il seguente ragionamento: se i costi delle imprese radiotelevisivi sono alti e se il numero delle frequenze che le convenzioni internazionali riconoscono al Paese è circoscritto, il pluralismo dell’informazione è meglio assicurato dal monopolio pubblico che da un regime privatistico, tale da assumere la configurazione di un monopolio o di un oligopolio. Considerato poi che l’informazione radiotelevisiva costituisce un “servizio pubblico essenziale”, il pericolo di un monopolio privato ammette la riserva del servizio alla gestione pubblica, ai sensi dell’articolo 43 Cost. Il riconoscimento “dell’altissima importanza che, nell’attuale fase della nostra civiltà, gli interessi che la televisione tende a soddisfare assumono – e su vastissima scala – non solo per i componenti del corpo sociale, ma anche per questo nella sua unità” rappresenta una premessa che induce il Giudice delle Leggi a legittimare l’avocazione dei servizi televisivi allo Stato, in quanto ritenuto il soggetto più adeguato ad assolvere tali servizi “in più favorevoli condizioni di obiettività, di imparzialità, di completezza e di continuità in tutto il territorio nazionale”.
Nell’ottica della Corte costituzionale, dunque, solo il monopolio pubblico, poiché finalizzato al perseguimento di interessi generali, poteva assicurare alle diverse istanze politiche, sociali e religiose presenti nella comunità l’accesso al mezzo radiotelevisivo, in mancanza del quale non potrebbe considerarsi garantita la libertà di manifestazione del pensiero.
Ragionando in tali termini, la libertà di informazione espleterebbe in toto la sua funzione nel sistema democratico, nonché quella di strumento fondamentale di formazione della opinione pubblica in chiave partecipativa.
Nel corso del tempo, la precisa qualificazione del pensiero espressa dall’aggettivo possessivo (“proprio”) ha innescato il dubbio che l’ambito oggettivo della libertà racchiudesse solo idee, espressioni, notizie frutto del proprio personale pensiero o della propria diretta cognizione, non coinvolgendo la diffusione di pensieri altrui. Con la sentenza in commento, la Consulta non ha accolto una lettura così restrittiva della suddetta libertà: al contrario, le conoscenze, e più in generale, le informazioni acquisite da altri appartengono all’ambito oggettivo tutelato dall’articolo 21 Cost. anche ove esse sono divulgate da altri individui.
Il Giudice delle Leggi, dunque, ha concesso una lettura interpretativa della norma per la quale “il possessivo proprio, riferito al pensiero, non intende esprimere un’appartenenza”, ma “sottolineare il valore dell’autonomia del singolo, l’indipendenza di giudizio” (G. Grisolia, 1944).
La decisione in esame pose le fondamenta di quella linea giurisprudenziale sviluppata dalla Corte costituzionale negli anni a venire. Una linea articolata in due fasi: la prima indirizzata verso la liberalizzazione controllata del sistema; la seconda, invece, rivolta alla conformazione progressiva del sistema parzialmente liberalizzato ai principi del pluralismo.