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Il tenente Colombo, la sua fenomenologia e l’amore per il normale

Fenomenologia di un ispettore sui generis e irriepetibile
tenente Colombo (e johnny Cash sullo sfondo)
tenente Colombo (e johnny Cash sullo sfondo)

Il tenente Colombo: fenomenologia e amore per il normale

Se ripenso ai miei ricordi di bambino, il tenente Colombo c’è sempre, come piccole foto in bianco e nero e poi a colori, un po’ sbiadite dal tempo e dal ricordo, insieme a mia nonna, mio zio, mia cugina e qualche amico dei miei genitori che frequentava casa nostra.

Per anni non c’è stata domenica in cui non fosse presente, verso il tardo pomeriggio, su Rete 4, la visione di una ennesima replica di una puntata della serie del tenente Colombo, che riguardavo con enorme gusto e senso di tranquillità.

Poi ho scoperto che su Prime Video ci sono tutte le stagioni. E allora, ancora oggi, dopo tanti anni, ogni tanto mi riguardo una puntata della serie del tenente Colombo: “L’uomo dell’anno”, oppure quella del mago Santini, oppure “L’ultima diva”, “L’ultimo saluto al Commodoro” ovvero quella con l’immenso Jonny Cash protagonista, dal titolo “Swan Song (in italiano “Il canto del cigno”).

E ogni volta la sensazione è quella di sicurezza, di benessere, di piacere calmo e diffuso. Ma perché tutto questo?

Perché una serie in fondo ripetitiva come quella del tenente Colombo (l’assassino si sa subito, i tic del tenente sono sempre gli stessi, le modalità di risoluzione le medesime) più la si vede più ci piace?

Il motivo è proprio in questo: perché ci sentiamo tutti come il tenente Colombo, perché la reiterazione di gesti ci dà sicurezza e calma, e come lui ripete le stesse gestualità, noi ripetiamo lo stesso modo: guardarlo e riguardalo, all’infinito se occorre.

13 anni fa Piero Citati scrisse un articolo memorabile, sulla falsariga del saggio scritto nel 1961 da Umberto Eco, e contenuto nel suo “Diario minimo”, “Fenomenologia di Mike Bongiorno”, dal titolo, appunto, Fenomenologia del tenente Colombo” comparso sul quotidiano La Repubblica il giorno 9 gennaio del 2008, che spiega bene i motivi del successo e della sua diffusione tra giovani, anziani e spettatori anche poco avvezzi al giallo.

Ho pensato di celebrare il tenente Colombo e i 10 anni già trascorsi dalla morte del suo protagonista, il grande Peter Falk, avvenuta il 23 giugno del 2011, riproponendovi integralmente il memorabile articolo di Piero Citati.

Perché siamo tutti il tenente Colombo. Meglio, vorremmo tanto esserlo.
 

La serie sul tenente Colombo è nata nel 1968. Fino al '94 sono stati girati sessantadue telefilm, poi sono state realizzate altre otto puntate, l'ultima delle quali nel 2003. In Italia le avventure di Colombo sono andate in onda dal 1979 su RaiDue e poi su Rete4, che trasmette vecchie puntate viste ancora da milioni di telespettatori: Per il ruolo del tenente, Peter Falk non fu la prima scelta, vennero interpellati Lee J. Cobb e Bing Crosby, ma entrambi rifiutarono di vestire i panni dell'investigatore italo-americano.

Le vicende del tenente Colombo, il suo sospetto improvviso, i minimi indizi, le oscure certezze, le nebbie, le sorprese, le distrazioni, le convinzioni rafforzate, i suoi inganni, le sue finte ingenuità, le sue astuzie, le sue truffe, producono a volte una suspense quasi insostenibile.
Nei gialli di tipo «matematico», ai quali la serie del Tenente Colombo appartiene, il protagonista è di solito avvolto da un profumo alto-borghese, o intellettuale, o lievemente snobistico.

Coltissimo e squisitissimo, Sherlock Holmes ha modi alla Oscar Wilde. Anche in Miss Marple, per non dire in Hercule Poirot, si avverte una buona famiglia e ottimi studi. Invece, il tenente Colombo, italo-americano, fa parte di una razza lungamente vilipesa e talvolta calunniata. La sua famiglia è modestissima: ha frequentato una scuola di infimo ordine; la sua cultura deriva dalla televisione popolare. Ha visto qualche musical con un biglietto omaggio. I ricchi protagonisti-colpevoli guardano con disprezzo il suo impermeabile stazzonato, a volle sovrapposto a un mediocre vestito da sera, la camicia e i vestiti di cattiva qualità, la cravatta sfilacciata e male annodata (c'è sempre una signora elegante che gliene regala una nuova), le scarpe sfondate, la vecchia automobile scoppiettante, il cane sgraziato, la passione per il popolarissimo chili, l'incapacità di bere e mangiare con eleganza. Appena egli entra in una casa ricca o nel negozio di un grande sarto, rivela la sua natura di paria. I salotti, gli specchi, le porte decorate, gli armadi sontuosi, gli enormi mazzi di fiori o l'enorme apparecchio televisivo, l'educata pelouse suscitano la sua candida ammirazione infantile, a volte ostentata con nascosta ironia. 

Gli appassionati dei gialli sostengono che uno scrittore o un regista non deve mai ripetere le proprie trovate perché annoia il pubblico. Anche qui, l'occulto responsabile della serie del Tenente Colombo ha capovolto ogni abitudine. Tutto, nella figura del piccolo tenente, è ripetizione. In ogni film, ripete i suoi tic. Fa la parte del tonto, finge di non capire, è troppo umile, permette che il ricco colpevole lo disprezzi o lo insulti, si meraviglia, guida la solita vecchissima macchina, si occupa con amore del grosso cane, ammira sciocchi libri alla moda, segue i successi musicali, allude di continuo a una signora Colombo che non vedremo mai, finge continuamente di avere dimenticato una domanda (la più importante), per ricomparire subito dopo dietro una porta suscitando sospetto e inquietudine, fruga nelle tasche alla ricerca di un importantissimo biglietto perduto... Il suo volto conosce poche espressioni. Nulla, in lui, sembra imprevisto. Ma questa serie incessante di ripetizioni è divertentissima.

Ci affezioniamo alle sue abitudini. Se osasse cambiare impermeabile, ci offenderemmo, come se ognuno dei suoi tic contenesse un segreto straordinario. Malgrado le apparenze, il tenente Colombo è un genio. Cinque minuti dopo essere arrivato sulla scena, comprende chi è il colpevole. Parlare di istinto, o di abilità o di consuetudine poliziesca, è troppo poco. Egli possiede una specie di intuito medianico, che gli rivela l'assassino. Non sappiamo come né perché, né su quali indizi si basi, ma una cosa si ripete sempre: egli non ha dubbi né esitazioni. Egli sa. Appena ha ricevuto l'illuminazione, non si preoccupa di nulla d'altro. Non guarda le cose, trascura piste apparentemente importantissime, si distrae, sogna, fantastica.

Quando ha trovato la vera pista, mette in moto il suo formidabile istinto per tutto ciò che è microscopico. Annusa eventi minimi: un residuo di sigaretta, una minima discordanza temporale, un fiammifero, l'orma di una scarpa, una coincidenza falsa, il filo di un abito, un capello tinto, una sensazione improbabile, un posteggio misteriosamente asciutto. Quando ha accumulato una quantità sufficiente di dettagli (qualche volta basta uno solo), il colpevole gli cade tra le braccia, come se non potesse resistere al fascino del suo seduttore. Il tenente Colombo sembra buonissimo. Non ha mai, o quasi mai, rancori verso i colpevoli, anche se questi lo disprezzano o lo trattano male. Non si offende. Non alza la voce. Non si dà arie. Se cattura il colpevole, lo fa soprattutto per obbedire al suo dovere di poliziotto, e alle volte sembra dispiaciuto, come se il suo compito gli pesasse.

Qualche assassina, specie se bella e ingegnosa, lo commuove. Quanto alla sua vita famigliare, di cui non sappiamo quasi nulla, immaginiamo che sia un marito eccellente e pieno d'attenzioni. Forse è un po' succube della moglie. Con la sua vasta parentela italo-americana, è certo tollerantissimo. Eppure, qualcosa ci induce in sospetto. Con i suoi piccoli tocchi, con le sue microscopiche invenzioni egli irretisce i colpevoli. E chi irretisce, se dobbiamo ascoltare il nostro sentimento profondo, non è mai del tutto innocente. Così, alla fine, abbiamo la sensazione che il colpevole, per quanto coperto di crimini, sia la vittima: la mosca o il topo, caduti nella rete del ragno-Colombo o nelle grinfie del gatto-Colombo. Se ci identifichiamo con lui, sia pure con cautela, affondiamo in quella parte occulta della nostra anima, che ha bisogno del male, coltiva il male, e mentre lo circuisce e lo avvolge, si immerge nella tenebra dell'universo.

Sembra contento di sé. È povero, ma non gli dispiace di esserlo. Non lo sorprendiamo mai a sognare promozioni: se diventasse colonnello di polizia, dovrebbe abbandonare le sue care indagini, con tutti quei bellissimi particolari, dove egli ficca voluttuosamente le mani. È tenente, e vuole restare tenente per tutta la vita. Non desidera possedere le ricche case e i giardini che intravede, ogni volta che il delitto lo introduce nel mondo della ricchezza: l'unico dove il delitto prospera con gioia ed orgoglio. Quando va nei ristoranti alla moda, con il suo patetico cravattino a farfalla, rimpiange le modeste trattorie, i bar, il piatto di chili e le uova sode. Nessuno potrebbe attribuirgli melanconie e inquietudini. Forse non prova sentimenti: forse la moglie, che non si vede mai, non esiste affatto, e il suo proclamato sentimento coniugale è una pura istituzione pubblica. Ama appassionatamente soltanto il suo mestiere di poliziotto: non c'è una goccia di sangue, in lui, che non agogni misteri da risolvere, assassinii da rivelare, tenebre da illuminare, ordine da ristabilire.

Davanti al tenente Colombo, tutti i colpevoli, persino i più astuti e malvagi, sono indifesi; e qualche volta ci sentiamo inteneriti da un vago sentimento di pietà verso di loro. Se essi accettano il suo gioco teatrale, se credono che egli sia ingenuo come finge di essere, oppure si rivolgono alla autorità suprema (i sindaci, i governatori, i capi della polizia), allora sono perduti senza rimedio. Le fauci apertissime del gatto-Colombo li attendono. Ma non sono sicuri nemmeno se comprendono che egli è una avversario pericolosissimo. Come salvarsi da lui? Come proteggersi da qualcuno che combina l'istinto medianico con la raffinatezza razionale, che gioca con la sopraragione, o l'antiragione, e la ragione? Il povero colpevole si nasconde in un angolo; e finalmente capisce che il piccolo elfo italiano ha giocato con lui, con inimitabile grazia, la parte terribile del destino.

L’articolo integralmente sopra riportato è di Pietro Citati, è tratto da “La Repubblica” del 9 gennaio del 2008, e si intitola “Fenomenologia del tenente Colombo”