Diritti della persona e procreazione artificiale. Relazione tra ‘sistema CEDU’, ordinamento comunitario e ordinamento interno
1. Considerazioni introduttive: il quadro delle questioni all’attenzione dell’interprete.
2. Relazione tra ‘sistema CEDU’, ordinamento comunitario e ordinamento interno. Valore e portata delle decisioni della Corte Europea Diritti dell’Uomo prima e dopo la ratifica del Trattato di Lisbona del 1 dicembre 2009. Differenti orientamenti interpretativi.
2.1. La ‘situazione precedente’ alla ratifica del Trattato di Lisbona.
2.2. Effettività e esecutività delle sentenze della Corte EDU 2.3. La ‘situazione successiva’ alla ratifica del Trattato di Lisbona.
3. La pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 1 aprile 2010: divieto di procreazione eterologa previsto dalla legge austriaca (Fortpflanzungsmedizingesetz) e violazione dell’art. 8 e 14 della CEDU.
4. Segue: Le implicazioni della pronuncia della Corte EDU sull’ordinamento italiano e in particolare sull’art 4 c. 3 legge 40/04. Identità della rationem legis tra disciplina italiana e austriaca. Conformità della Sentenza della Corte ai principi costituzionali e impossibilità di adeguamento interpretativo della norma interna.
5. Compatibilità normativa e sistematica, de iure condito, dell’eventuale eliminazione del divieto di esecuzione delle tecniche di PMA eterologhe di cui all’ 4 c. 3 L. 40/04. Applicazione della normativa esistente
1. Considerazioni introduttive: il quadro delle questioni all’attenzione dell’interprete
La riflessione non può che prendere le mosse dalle rilevanti novità introdotte in tema di diritti fondamentali della persona, relative tecniche di tutela e soggetti legittimati a garantirne l’effettiva attuazione, all’esito del lungo e contrastato processo che a partire dal 2001 con la proclamazione della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) tra alterne vicende politiche e sociali è infine giunto alla sua conclusione, in senso tecnico-giuridico, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 1 dicembre 2009.
Il nuovo quadro dell’integrazione europea delineata dal Trattato pone al giurista assieme all’esigenza di riordinare il complesso sistema di ‘tutela multilivello’ dei diritti fondamentali della persona nel sistema europeo, interrogativi, prospettive di indagine, soluzioni applicative del tutto nuove ed inedite anche rispetto ad un recente passato[1]. Il problema, se non del riconoscimento, della c.d. ‘attuazione decentrata’ dei diritti fondamentali nello spazio comune europeo, trova finalmente una risposta di diritto positivo nella misura in cui il Trattato conferisce giuridico rilievo, sul piano del diritto comunitario, sia alla Carta di Nizza che alla CEDU[2].
Questo mutato quadro di riferimento pone in una luce del tutto nuova le principali problematiche che non da oggi interrogavano il giurista: come assicurare eguale tutela tra i cittadini europei in ordine alla fruizione e al godimento di fondamentali situazioni soggettive di natura esistenziale? Quali i rapporti, nell’ambito dell’articolato sistema di “tutela multilivello’ dei diritti fondamentali della persona, tra fonti normative nazionali, europee, internazionali e relative autorità giudicanti preposte: Corte Giustizia Europea-Corte Europea dei Diritti dell’Uomo-Corti Costituzionali Statali? Quale il ruolo delle corti di merito statali al fine di rendere effettiva la tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali proclamati da autorità sovranazionali? Quali i meccanismi di armonizzazione utilizzabili nel/dal sistema per assicurare una interpretazione ed applicazione uniforme dei diritti fondamentali nello spazio unico europeo? Regola gerarchica o funzionale quale disciplina della relazione tra le varie fonti?
Si tratta di questioni dirimenti rispetto all’obiettivo di realizzare una compiuta cittadinanza europea. In altre parole risulta evidente come solo attraverso una ‘emeneutica europea’ e la ‘effettività della protezione giurisdizionale’ si può realizzare quella tutela necessariamente uniforme dei diritti fondamentali del cittadino europeo.
Tale scenario interroga l’interprete se alla "europeizzazione dei diritti e dei valori" debba corrispondere una "europeizzazione delle tutele”, poiché nell’ambito della nuova concezione del c.d. diritto integrato il giurista è chiamato ad assolvere un compito particolarmente complesso e delicato, ovverossia quello dell’interpretazione adeguatrice, che consiste nel leggere e interpretare le norme interne in maniera tale da renderle compatibili con i valori fondanti dell’Unione europea al cui vertice sta la ‘dignità umana’.
Nell’ambito delle problematiche sopra evidenziate e delle rilevanti novità introdotte dal Trattato di Lisbona la questione preliminare da dirimere attiene all’impatto e alla portata negli ordinamenti interni dei singoli stati membri della UE che le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono destinate ad assumere nelle ipotesi in cui la normativa interna risulti difforme ovvero contraria a quella della CEDU.
Campo di elezione prescelto per svolgere tale riflessione è quello dei cc.dd. diritti bioetici o di quarta generazione. Ciò essenzialmente per due ragioni. Da un lato non si può non rilevare come lo sviluppo delle tecniche biomediche e le connesse applicazioni biotecnologiche determinando sempre più il superamento del paradigma naturalistico nelle cc.dd. questioni di inizio vita/media vita/fine vita, pongono in una luce del tutto nuova la relazione tra principi fondamentali quali dignità umana e autonomia, libertà e responsabilità, consenso informato e libertà terapeutica, parità di trattamento e divieto di discriminazione, imponendo all’interprete di ripensare metodi di indagine, criteri ermeneutici utilizzati e categorie giuridiche di riferimento. Si tratta di un ambito nuovo anche per il civilista nel quale al diritto non si chiede di disciplinare gli effetti scaturenti dal fatto rilevante (la nascita, la malattia, la morte) ma di dettare norme che regolino l’assetto e l’organizzazione del fatto stesso.
E’ di ogni evidenza come sul piano sostanziale molto differenti potranno essere le soluzioni proposte in dipendenza dell’opzione politica e bioetica compiuta tra personalismo, utilitarismo e autonomia. In tal senso esempio paradigmatico è costituito dalla diffusione delle tecniche di procreazione artificiale come rimedio dell’incremento esponenziale della sterilità/infertilità (patologia che si stima interessi tra il 18 e il 22% della popolazione europea) che nel consentire il superamento dei limiti naturalistici oggettivi e soggettivi entro i quali era necessariamente definito il fenomeno procreativo (copula tra uomo e donna in età potenzialmente fertile) pone l’esigenza di regole che riconoscano/delimitino i nuovi spazi di libertà e autonomia conquistati al soggetto dalla scienza. Le previsioni contenute nella Carta di Nizza e nella CEDU costituiscono la cornice di riferimento entro la quale l’interprete è chiamato ad applicare le regole e a dirimere le controversie del caso concreto.
Dall’altro, proprio il campo dei cc.dd. diritti bioetici date le profonde differenze per non dire veri e propri contrasti tra le discipline nazionali di settore vigenti nei vari stati membri UE costituisce un osservatorio privilegiato per verificare se siano rinvenibili nuove tecniche che consentano di superare la dimensione dell’autoreferenzialità dei singoli sistemi nonché prassi interpretative armonizzanti da parte delle Corti Europee che permettano di addivenire ad una tutela uniforme tra tutti i cittadini europei per ciò che attiene al piano dei diritti fondamentali della persona.
Una recente sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo che ritiene contrarie ai principi di cui all’art. 8 e 14 della CEDU talune disposizioni di legge in materia di procreazione medicalmente assistita (il divieto di tecniche eterologhe) di uno Stato membro della UE (l’Austria), norme rinvenibili anche in altri Stati tra cui l’Italia, offre lo spunto per indagare le questioni sopra sommariamente tracciate.
La sentenza pronunciata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo il 1° aprile 2010 per la natura delle violazioni accertate e per il tenore delle motivazioni addotte, in considerazione dell’avvenuta ‘comunitarizzazione’ della CEDU per effetto della ratifica del Trattato di Lisbona del 1 dicembre 2009 che la medesima espressamente richiama prevedendo l’adesione della UE al sistema CEDU, costituisce una decisione paradigmatica per indagare le questioni esposte in quanto pone al giurista molteplici stimoli in ordine all’esigenza di riordinare il complesso sistema multilivello destinata a produrre effetti importanti ben oltre l’ordinamento interno cui espressamente si riferisce (quello austriaco) costituendo precedente ovvero ‘principio di diritto’ per gli ordinamenti interni di tutti i paesi aderenti ovvero per l’ordinamento comunitario di cui costituisce oggi parte integrante. E’ aperta la discussione in dottrina se si tratti di un mero parametro ermeneutico che il legislatore e il giudice interno è tenuto in forza del principio sancito all’art. 117 Cost a seguire ovvero di una decisione vincolante che determina la qualificazione in termini di illegittimità di tutte le disposizioni statali aventi il medesimo contenuto. Rimane inoltre da valutare se, pur trattandosi di decisione assunta nei confronti di altro ordinamento statale, essa possa determinare una automatica disapplicazione di tutte le norme interne dei vari stati membri UE in maniera automatica attraverso l’intervento del giudice nazionale adito nel caso concreto ovvero necessiti comunque di una valutazione di costituzionalità da parte del giudice delle leggi.
Ai fini di una corretta comprensione dei vari passaggi logici e dell’iter argomentativo in forza dei quali deve ritenersi che le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo producono effetti diretti negli ordinamenti interni degli Stati aderenti occorre procedere ad una breve ma indispensabile disamina del rapporto tra i vari sistemi giuridici presi in esame anche alla luce delle recenti novità sopra ricordate.
2. Relazione tra ‘sistema CEDU’, ordinamento comunitario e ordinamento interno. Valore e portata delle decisioni della Corte Europea Diritti dell’Uomo prima e dopo la ratifica del Trattato di Lisbona del 1 dicembre 2009. Differenti orientamenti interpretativi.
La soluzione del problema circa valore e portata per gli ordinamenti statali delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e nel caso specifico di quella adottata contro l’Austria contenente una espressa censura al divieto di fecondazione artificiale eterologa contenuta nella legge sulla fecondazione assistita di quel paese[3], come sopra accennato, rende necessario un preliminare inquadramento delle relazioni esistenti tra sistema giuridico CEDU, diritto comunitario e diritto interno prima e dopo la ratifica del Trattato di Lisbona che prevedendo l’adesione della UE al sistema CEDU ha determinato l’ingresso di questo nell’ambito del diritto dell’Unione Europea. Il riferimento ad un “Sistema CEDU” in luogo della semplice Carta si rende opportuno atteso che, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare della CEDU è di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa[4].
2.1. La ‘situazione precedente’ alla ratifica del Trattato di Lisbona del 1° dicembre 2009.
Come insegna autorevole e costante giurisprudenza mentre le norme comunitarie «devono avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari»[5], rinvenendosi il fondamento costituzionale di tale efficacia diretta nell’art. 11 Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni, per ciò che riguarda le norme CEDU, «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale»[6] deve ritenersi che “pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone esse sono pur sempre norme patrizie che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto”[7]. Secondo la Corte Cost. ciò trova importante conferma nel riformulato art. 117 Cost laddove si distingue tra vincoli derivanti dall’«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali ».
Ad ogni buon conto dato il peculiare rilievo, ‘sostanziale’ e ‘formale’, delle norme CEDU anche in considerazione della loro integrale ricezione nella c.d. Carta di Nizza o Costituzione Europea i cui contenuti, a seguito della mancata ratifica della Carta da parte di alcuni Paesi, sono stati per la parte che a noi interessa completamente trasfusi per relationem nel richiamato Trattato di Lisbona, considerata la portata dell’art. 117 cost, la Consulta pur non accogliendo , in contrasto con autorevole giurisprudenza di merito e di legittimità, la tesi dell’applicabilità immediata[8] ha comunque ritenuto superato l’orientamento secondo il quale le norme CEDU entrano a far parte dell’ordinamento interno in forza di una norma di adattamento qualificabile come legge ordinaria. Secondo la Consulta, il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost, “se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall’altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi”[9].
In tutti i casi come ribadito da una recente sentenza della Consulta precedente al 1 dicembre 2009, “ in presenza di un apparente contrasto fra disposizioni legislative interne ed una disposizione della CEDU, anche quale interpretata dalla Corte di Strasburgo, può porsi un dubbio di costituzionalità, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., solo se non si possa anzitutto risolvere il problema in via interpretativa”[10].
Dal portato giurisprudenziale sopra sommariamente richiamato si ricava la competenza degli organi giurisdizionali comuni dell’eventuale opera interpretativa ex art. 44, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 che sia resa effettivamente necessaria dalle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo; a tale compito, peraltro, già ha atteso la giurisprudenza di legittimità. Solo ove l’adeguamento interpretativo, che appaia necessitato, “risulti impossibile o l’eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale, questa Corte potrà essere chiamata ad affrontare il problema della asserita incostituzionalità della disposizione di legge”[11] . In tutti i casi, l’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza dì quella giurisprudenza, secondo un criterio già adottato dal giudice comune e dalla Corte europea[12]
2.2. Effettività e esecutività delle sentenze della Corte EDU.
Precisate modalità e portata degli effetti delle norme CEDU nel sistema interno, ulteriore problema riguardava poi le modalità di esecuzione delle sentenze della Corte europea. Se il dato indiscusso è l’impegno a conformarsi alle sentenze della Corte, sancito dall’articolo 46 della Convenzione tradizionalmente, si riteneva che, quando esso si sostanziava nell’obbligo del pagamento della somma di denaro stabilita dalla Corte a titolo di “equa soddisfazione” (per l’impossibilità di porre in essere la restitutio in integrum chè è il caso anche della sentenza di cui si discute), questo riconoscimento precludesse ulteriori misure, tanto più in quanto esse non entravano nel dispositivo della sentenza. L’obbligo dello Stato di adottare, se del caso, misure di carattere individuale o generale per far cessare la constatata violazione, eliminarne le conseguenze, prevenire analoghe violazioni, sarebbe quindi rimasto sostanzialmente privo di reale efficacia normativa.
Con il paragrafo 249 della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 13 luglio 2000 (caso Scozzari e Giunta contro Italia) e con l’opinione parzialmente concorrente del giudice Zupancic a quella sentenza ed all’altra, sempre della Corte, del 27 febbraio 2001 (caso Lucà contro Italia) si è realizzata una vera e propria svolta interpretativa destinata a produrre rilevanti effetti. La restitutio in integrum conseguente alla violazione dei diritti umani accertata dalla Corte resta dunque un obbligo gravante integralmente sullo Stato membro, stante l’accessorietà dell’equo soddisfacimento, rispetto all’obbligo delle Parti contraenti a conformarsi alle decisioni della Corte. Questa giurisprudenza ha stabilito, per la prima volta in modo esplicito ed incisivo, che l’equa soddisfazione costituisce solo una delle conseguenze di una sentenza: essa ha infatti chiaramente affermato che lo Stato condannato è chiamato non solo a versare agli interessati le somme eventualmente accordate a titolo di equa soddisfazione ma anche, e innanzitutto, a scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o, se del caso, individuali destinate a porre termine alla violazione constatata e a rimuoverne, per quanto possibile, le conseguenze[13]. La Corte ha tenuto inoltre a precisare, e trattasi di un’altra rilevante novità, che lo Stato, sempre sotto il controllo del Comitato dei Ministri, è libero di scegliere le modalità con cui adempiere tale obbligo a condizione che queste restino compatibili con le conclusioni della Corte[14]. Da quanto precede emerge che: le somme accordate a titolo di equa soddisfazione servono a compensare solo i danni ormai irreversibili (§ 250 della sentenza), sicché l’equa soddisfazione acquista un ruolo sussidiario e l’obbligo primario derivante da una sentenza, se si tiene conto anche della sistematica dei §§ 249 e 250, è quello della cessazione della violazione e della rimozione dei suoi effetti, nella misura in cui, ovviamente, ciò sia ancora possibile; lo Stato non gode più di una libertà assoluta nella scelta delle modalità con cui adempiere tale obbligo primario. La scelta dello Stato è sottoposta al “monitoraggio” del Comitato dei Ministri ed è vincolata a parametri di valutazione precisi circa il carattere soddisfacente o meno delle misure generali/individuali adottate dal medesimo che devono essere conformi alle conclusioni della Corte.
Conclusivamente, alla luce di quanto precede, ai fini della individuazione del valore e degli effetti nel nostro ordinamento della sentenza del caso “SH e altri/Austria”, del 1 aprile 2010, si può ritenere senza timore di smentita che l’accertata natura sub-costituzionale delle norme CEDU e delle connesse decisioni adottate dalla Corte Europea, assume rilievo sia sotto il profilo diretto di dictum per l’interprete (e lo stesso legislatore in virtù della menzionata evoluzione giurisprudenziale intervenuta) che sotto quello indiretto di canone interpretativo generale cui il Giudice nazionale, ivi compreso il Giudice delle Leggi, deve attenersi, nell’operazione di qualificazione della disposizione interna contrastante e della connessa esigenza di adeguare l’ordinamento interno, nei modi sopra visti, alle decisioni adottate dalla Corte Europea. In tal senso il giudice interno investito del problema in via incidentale, previa verifica della congruità con i principi costituzionali interni delle asserite violazioni di diritti fondamentali della persona accertate dalla Corte Europea –nella specie gli artt. 8 e 14 della CEDU- esperito il tentativo di adeguamento per via interpretativa della norma interna alla norma/decisione CEDU, dovrebbe procedere, in caso di esito negativo, o alla applicazione, data la relazione gerarchica tra fonti e cronologica tra norme, della ‘norma/decisione interposta’ in luogo di quella ordinaria contrastante[15] – nella specie divieto di PMA di tipo eterologo previsto dalla norma interna di cui alla L. 40/04 art. 4 c. 3- ovvero, ove la questione presenti rilevanti profili di costituzionalità, sollevando q.l.c. della norma interna contrastante con la decisione della Corte Europea innanzi alla Consulta. Con ogni effetto consequenziale.
2.3. Situazione successiva alla ratifica del Trattato di Lisbona del 1° dicembre 2009
Con la ratifica del Trattato di Lisbona del 1 dicembre 2009, in considerazione dell’esplicito richiamo ivi operato dall’art. 6 c. 2 e 3 del riformato Trattato UE, viene previsto che l’Unione aderisce alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, divengono ‘diritto dell’Unione’ in quanto principi generali[16]. Dopo decenni di incertezze si assiste alla definitiva ‘comunitarizzazione’ o se si vuole all’ingresso del ‘sistema CEDU’ nell’ambito del diritto della UE, con ogni implicazione conseguenziale sotto il profilo delle modalità di adeguamento del diritto interno al diritto sovrannazionale e dei rapporti tra sistemi normativi non più fondati e regolati dal meccanismo di cui all’art. 117 bensì da quello di cui all’art. 11 Cost.[17]
Per maggior chiarezza giova puntualizzare alcuni aspetti essenziali della materia. Iniziamo col ricordare che, come è noto, sulla base della consolidata giurisprudenza della Consulta i rapporti fra diritto comunitario e diritto interno devono rapportarsi a due sistemi configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato[18]. I principi stabiliti dalla Corte in relazione al diritto comunitario – regolamento, direttiva, decisione del Parlamento o dell’organo giudiziario relativa all’applicazione o all’interpretazione di talune norme dei trattati- traggono significato dalla considerazione che l’ordinamento della UE e quello dello Stato, pur distinti ed autonomi, sono, come esige il Trattato di Roma, necessariamente coordinati; il coordinamento discende, a sua volta, dall’avere la legge di esecuzione del Trattato trasferito agli organi comunitari, in conformità dell’art. 11 Cost., le competenze che questi esercitano, beninteso nelle materie loro riservate.
La regola di diritto che ne consegue è la seguente; “Il giudice italiano accerta che la normativa scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto al suo esame, e ne applica di conseguenza il disposto, con esclusivo riferimento al sistema dell’ente sovrannazionale: cioè al solo sistema che governa l’atto da applicare e di esso determina la capacità produttiva. Le confliggenti statuizioni della legge interna non possono costituire ostacolo al riconoscimento della "forza e valore", che il Trattato conferisce al regolamento [come a qualsiasi atto comunitario immediatamente applicabile] comunitario, nel configurarlo come atto produttivo di regole immediatamente applicabili”[19]. L’effetto connesso con la sua vigenza non è quello di caducare né di abrogare ovvero eliminare ex tunc (in quanto affetta da nullità) la norma interna contraria al diritto comunitario. Proprio in virtù dell’autonomia tra i due ordinamenti la prevalenza del diritto comunitario si sostanzia nell’obbligo per il giudice nazionale di applicare la disposizione comunitaria configgente con la norma interna che viene quindi disapplicata. Del tutto coerentemente con quanto esposto è “significativo che il controllo sulla compatibilità tra la norma comunitario e la norma interna, anche posteriore, sia lasciato alla cognizione del giudice ordinario pur dove un apposito organo giudicante è investito, analogamente a questa Corte, del sindacato di costituzionalità sulle leggi[20].
Alla luce di quanto precede, atteso l’ingresso anche in senso ‘formale’ del ‘sistema CEDU’ nel diritto comunitario cui si aggiunge l’espresso riconoscimento che i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali, le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulle questioni di sua specifica competenza cioè sulle vicende concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli, devono ritenersi immediatamente applicabili nell’ordinamento interno. Nell’ipotesi di disposizione interna confliggente con la norma e/o la decisione applicativo/interpretativa della Corte di Lussemburgo, il giudice ordinario dopo aver effettuato tale controllo di compatibilità procederà alla disapplicazione della norma interna contrastante.
Sul valore vincolante dei diritti dell’uomo per tutti gli Stati aderenti alla UE e per la stessa Unione si era peraltro già espressa la Corte di Giustizia che a partire dal 2003 ha costantemente ribadito come i diritti fondamentali sanciti dalla CEDU fanno parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza[21]
Sulle richiamate conclusioni gli interpreti non risultano tuttavia concordi. Secondo parte autorevole della dottrina, che trova conferma peraltro, nella decisione del Tribunale di Firenze che, sulla scorta della richiamata sentenza della Corte EDU contro l’Austria ha sollevato il dubbio di costituzionalità sul divieto alla fecondazione artificiale eterologa[22], l’adesione della UE alla CEDU affermata nell’art. 6 comma 2 del Trattato di Lisbona avrebbe, al momento, valore programmatico e non precettivo. Più precisamente tale adesione, in assenza dell’apposito Accordo che ne disciplini le modalità attuative/operative richiamato dal protocollo n. 8 annesso al Trattato[23], dovrebbe ritenersi, per quel che è dato di capire, una enunciazione meramente politica o di principio priva, al momento di valenza giuridica[24].
Per ciò che concerne poi il comma 3 dell’art. 6 del Trattato, contenente l’espresso riconoscimento che i diritti dell’uomo sanciti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali, anche tale previsione non consentirebbe , di affermare, secondo il predetto orientamento, che il diritto CEDU è direttamente applicabile negli ordinamenti interni degli Stati. Si tratterebbe di previsione applicabile solo all’ambito del diritto comunitario e non anche a quello nazionale[25].
La tesi non convince. Infatti con riguardo alla assenza, al momento, della formale stipula dell’Accordo richiamato, ci si limita a rilevare come, risulta quantomeno dubbio che dal tenore letterale e dal senso logico della previsione l’interprete possa ricavare che tale Accordo costituisce condizione di validità e/o di operatività della affermata adesione della UE alla CEDU di talchè le regole provenienti dalla medesima dovrebbe continuare a ritenersi, fino a tale approvazione, mero diritto internazionale pattizio. La tesi prova troppo. Più ragionevolmente, anche in considerazione del combinato disposto di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 6, potrebbe ritenersi che data l’indiscutibile novità introdotta anche rispetto al quadro esistente che espressamente escludeva tale possibilità[26], quantomeno negli aspetti nei quali, come nel caso di specie, gli effetti derivanti dall’immediata applicabilità del diritto CEDU nell’ordinamento degli Stati non determini antinomie formali o sostanziali, anche in forza di un consolidato orientamento delle Corti Costituzionali Statali e della Corte UE[27] , tale diritto, a tutti gli effetti vincolante in considerazione dell’avvenuto riconoscimento ‘legale’ dell’adesione dell’organismo soprannazionale, deve ritenersi produttivo di effetti in quanto fonte del diritto comunitario.
Per ciò che riguarda poi l’obiezione per la quale il comma 3 dell’art. 6 dovrebbe ritenersi riferito, per quel che si comprende, ad un ambito di competenza interpretativa e applicativa riservata alla sola Corte di Giustizia UE, si tratta di affermazione che non può essere condivisa. Sfugge infatti quale sia il riferimento, non solo testuale ma anche ermeneutico, in forza del quale la previsione che i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali, non debba produrre i propri effetti pure rispetto agli ordinamenti dei singoli Stati membri. La tesi risulta significativamente confermata da autorevole giurisprudenza amministrativa secondo la quale “Il riconoscimento dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU come principi interni al diritto dell’Unione, ha immediate conseguenze di assoluto rilievo, in quanto le norme della Convenzione divengono immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione, e quindi nel nostro ordinamento nazionale, in forza del diritto comunitario, e quindi in Italia ai sensi dell’art. 11 della Costituzione, venendo in tal modo in rilevo l’ampia e decennale evoluzione giurisprudenziale che ha, infine, portato all’obbligo, per il giudice nazionale, di interpretare le norme nazionali in conformità al diritto comunitario, ovvero di procedere in via immediata e diretta alla loro disapplicazione in favore del diritto comunitario, previa eventuale pronuncia del giudice comunitario ma senza dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno”[28].
Tradotto in altri termini, per la questione che a noi interessa, ciò significa che la decisione della Corte Europea adottata per il caso SH e altri/Austria, del 1 aprile 2010, contiene un dictum che al pari di una sentenza resa dalla Corte di Giustizia Europea, nel definire il caso concreto pone prescrizioni che hanno valore generale stabilendo un principio di diritto che il giudice nazionale adito in giudizio da cittadini che lamentino la lesione di un identico diritto soggettivo fondamentale, effettuato il controllo di compatibilità tra norma interna e disposizione/decisione comunitaria, verificata l’impossibilità di addivenire ad una interpretazione conformativa, ha l’obbligo di applicare a casi che presentino anologo petitum e causa petendi rispetto ad una norma che ha prescindere dalla modalità di formulazione del divieto, presenti la medesima rationes legis
3. La pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 1 aprile 2010: divieto di procreazione eterologa previsto dalla legge austriaca e violazione dell’art. 8 e 14 della CEDU.
La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo notificata il 1 aprile 2010 accoglie il ricorso presentato da due coppie di cittadini austriaci, l’8 maggio 2000. La pronuncia è l’effett
1. Considerazioni introduttive: il quadro delle questioni all’attenzione dell’interprete.
2. Relazione tra ‘sistema CEDU’, ordinamento comunitario e ordinamento interno. Valore e portata delle decisioni della Corte Europea Diritti dell’Uomo prima e dopo la ratifica del Trattato di Lisbona del 1 dicembre 2009. Differenti orientamenti interpretativi.
2.1. La ‘situazione precedente’ alla ratifica del Trattato di Lisbona.
2.2. Effettività e esecutività delle sentenze della Corte EDU 2.3. La ‘situazione successiva’ alla ratifica del Trattato di Lisbona.
3. La pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 1 aprile 2010: divieto di procreazione eterologa previsto dalla legge austriaca (Fortpflanzungsmedizingesetz) e violazione dell’art. 8 e 14 della CEDU.
4. Segue: Le implicazioni della pronuncia della Corte EDU sull’ordinamento italiano e in particolare sull’art 4 c. 3 legge 40/04. Identità della rationem legis tra disciplina italiana e austriaca. Conformità della Sentenza della Corte ai principi costituzionali e impossibilità di adeguamento interpretativo della norma interna.
5. Compatibilità normativa e sistematica, de iure condito, dell’eventuale eliminazione del divieto di esecuzione delle tecniche di PMA eterologhe di cui all’ 4 c. 3 L. 40/04. Applicazione della normativa esistente
1. Considerazioni introduttive: il quadro delle questioni all’attenzione dell’interprete
La riflessione non può che prendere le mosse dalle rilevanti novità introdotte in tema di diritti fondamentali della persona, relative tecniche di tutela e soggetti legittimati a garantirne l’effettiva attuazione, all’esito del lungo e contrastato processo che a partire dal 2001 con la proclamazione della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) tra alterne vicende politiche e sociali è infine giunto alla sua conclusione, in senso tecnico-giuridico, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 1 dicembre 2009.
Il nuovo quadro dell’integrazione europea delineata dal Trattato pone al giurista assieme all’esigenza di riordinare il complesso sistema di ‘tutela multilivello’ dei diritti fondamentali della persona nel sistema europeo, interrogativi, prospettive di indagine, soluzioni applicative del tutto nuove ed inedite anche rispetto ad un recente passato[1]. Il problema, se non del riconoscimento, della c.d. ‘attuazione decentrata’ dei diritti fondamentali nello spazio comune europeo, trova finalmente una risposta di diritto positivo nella misura in cui il Trattato conferisce giuridico rilievo, sul piano del diritto comunitario, sia alla Carta di Nizza che alla CEDU[2].
Questo mutato quadro di riferimento pone in una luce del tutto nuova le principali problematiche che non da oggi interrogavano il giurista: come assicurare eguale tutela tra i cittadini europei in ordine alla fruizione e al godimento di fondamentali situazioni soggettive di natura esistenziale? Quali i rapporti, nell’ambito dell’articolato sistema di “tutela multilivello’ dei diritti fondamentali della persona, tra fonti normative nazionali, europee, internazionali e relative autorità giudicanti preposte: Corte Giustizia Europea-Corte Europea dei Diritti dell’Uomo-Corti Costituzionali Statali? Quale il ruolo delle corti di merito statali al fine di rendere effettiva la tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali proclamati da autorità sovranazionali? Quali i meccanismi di armonizzazione utilizzabili nel/dal sistema per assicurare una interpretazione ed applicazione uniforme dei diritti fondamentali nello spazio unico europeo? Regola gerarchica o funzionale quale disciplina della relazione tra le varie fonti?
Si tratta di questioni dirimenti rispetto all’obiettivo di realizzare una compiuta cittadinanza europea. In altre parole risulta evidente come solo attraverso una ‘emeneutica europea’ e la ‘effettività della protezione giurisdizionale’ si può realizzare quella tutela necessariamente uniforme dei diritti fondamentali del cittadino europeo.
Tale scenario interroga l’interprete se alla "europeizzazione dei diritti e dei valori" debba corrispondere una "europeizzazione delle tutele”, poiché nell’ambito della nuova concezione del c.d. diritto integrato il giurista è chiamato ad assolvere un compito particolarmente complesso e delicato, ovverossia quello dell’interpretazione adeguatrice, che consiste nel leggere e interpretare le norme interne in maniera tale da renderle compatibili con i valori fondanti dell’Unione europea al cui vertice sta la ‘dignità umana’.
Nell’ambito delle problematiche sopra evidenziate e delle rilevanti novità introdotte dal Trattato di Lisbona la questione preliminare da dirimere attiene all’impatto e alla portata negli ordinamenti interni dei singoli stati membri della UE che le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono destinate ad assumere nelle ipotesi in cui la normativa interna risulti difforme ovvero contraria a quella della CEDU.
Campo di elezione prescelto per svolgere tale riflessione è quello dei cc.dd. diritti bioetici o di quarta generazione. Ciò essenzialmente per due ragioni. Da un lato non si può non rilevare come lo sviluppo delle tecniche biomediche e le connesse applicazioni biotecnologiche determinando sempre più il superamento del paradigma naturalistico nelle cc.dd. questioni di inizio vita/media vita/fine vita, pongono in una luce del tutto nuova la relazione tra principi fondamentali quali dignità umana e autonomia, libertà e responsabilità, consenso informato e libertà terapeutica, parità di trattamento e divieto di discriminazione, imponendo all’interprete di ripensare metodi di indagine, criteri ermeneutici utilizzati e categorie giuridiche di riferimento. Si tratta di un ambito nuovo anche per il civilista nel quale al diritto non si chiede di disciplinare gli effetti scaturenti dal fatto rilevante (la nascita, la malattia, la morte) ma di dettare norme che regolino l’assetto e l’organizzazione del fatto stesso.
E’ di ogni evidenza come sul piano sostanziale molto differenti potranno essere le soluzioni proposte in dipendenza dell’opzione politica e bioetica compiuta tra personalismo, utilitarismo e autonomia. In tal senso esempio paradigmatico è costituito dalla diffusione delle tecniche di procreazione artificiale come rimedio dell’incremento esponenziale della sterilità/infertilità (patologia che si stima interessi tra il 18 e il 22% della popolazione europea) che nel consentire il superamento dei limiti naturalistici oggettivi e soggettivi entro i quali era necessariamente definito il fenomeno procreativo (copula tra uomo e donna in età potenzialmente fertile) pone l’esigenza di regole che riconoscano/delimitino i nuovi spazi di libertà e autonomia conquistati al soggetto dalla scienza. Le previsioni contenute nella Carta di Nizza e nella CEDU costituiscono la cornice di riferimento entro la quale l’interprete è chiamato ad applicare le regole e a dirimere le controversie del caso concreto.
Dall’altro, proprio il campo dei cc.dd. diritti bioetici date le profonde differenze per non dire veri e propri contrasti tra le discipline nazionali di settore vigenti nei vari stati membri UE costituisce un osservatorio privilegiato per verificare se siano rinvenibili nuove tecniche che consentano di superare la dimensione dell’autoreferenzialità dei singoli sistemi nonché prassi interpretative armonizzanti da parte delle Corti Europee che permettano di addivenire ad una tutela uniforme tra tutti i cittadini europei per ciò che attiene al piano dei diritti fondamentali della persona.
Una recente sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo che ritiene contrarie ai principi di cui all’art. 8 e 14 della CEDU talune disposizioni di legge in materia di procreazione medicalmente assistita (il divieto di tecniche eterologhe) di uno Stato membro della UE (l’Austria), norme rinvenibili anche in altri Stati tra cui l’Italia, offre lo spunto per indagare le questioni sopra sommariamente tracciate.
La sentenza pronunciata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo il 1° aprile 2010 per la natura delle violazioni accertate e per il tenore delle motivazioni addotte, in considerazione dell’avvenuta ‘comunitarizzazione’ della CEDU per effetto della ratifica del Trattato di Lisbona del 1 dicembre 2009 che la medesima espressamente richiama prevedendo l’adesione della UE al sistema CEDU, costituisce una decisione paradigmatica per indagare le questioni esposte in quanto pone al giurista molteplici stimoli in ordine all’esigenza di riordinare il complesso sistema multilivello destinata a produrre effetti importanti ben oltre l’ordinamento interno cui espressamente si riferisce (quello austriaco) costituendo precedente ovvero ‘principio di diritto’ per gli ordinamenti interni di tutti i paesi aderenti ovvero per l’ordinamento comunitario di cui costituisce oggi parte integrante. E’ aperta la discussione in dottrina se si tratti di un mero parametro ermeneutico che il legislatore e il giudice interno è tenuto in forza del principio sancito all’art. 117 Cost a seguire ovvero di una decisione vincolante che determina la qualificazione in termini di illegittimità di tutte le disposizioni statali aventi il medesimo contenuto. Rimane inoltre da valutare se, pur trattandosi di decisione assunta nei confronti di altro ordinamento statale, essa possa determinare una automatica disapplicazione di tutte le norme interne dei vari stati membri UE in maniera automatica attraverso l’intervento del giudice nazionale adito nel caso concreto ovvero necessiti comunque di una valutazione di costituzionalità da parte del giudice delle leggi.
Ai fini di una corretta comprensione dei vari passaggi logici e dell’iter argomentativo in forza dei quali deve ritenersi che le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo producono effetti diretti negli ordinamenti interni degli Stati aderenti occorre procedere ad una breve ma indispensabile disamina del rapporto tra i vari sistemi giuridici presi in esame anche alla luce delle recenti novità sopra ricordate.
2. Relazione tra ‘sistema CEDU’, ordinamento comunitario e ordinamento interno. Valore e portata delle decisioni della Corte Europea Diritti dell’Uomo prima e dopo la ratifica del Trattato di Lisbona del 1 dicembre 2009. Differenti orientamenti interpretativi.
La soluzione del problema circa valore e portata per gli ordinamenti statali delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e nel caso specifico di quella adottata contro l’Austria contenente una espressa censura al divieto di fecondazione artificiale eterologa contenuta nella legge sulla fecondazione assistita di quel paese[3], come sopra accennato, rende necessario un preliminare inquadramento delle relazioni esistenti tra sistema giuridico CEDU, diritto comunitario e diritto interno prima e dopo la ratifica del Trattato di Lisbona che prevedendo l’adesione della UE al sistema CEDU ha determinato l’ingresso di questo nell’ambito del diritto dell’Unione Europea. Il riferimento ad un “Sistema CEDU” in luogo della semplice Carta si rende opportuno atteso che, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare della CEDU è di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa[4].
2.1. La ‘situazione precedente’ alla ratifica del Trattato di Lisbona del 1° dicembre 2009.
Come insegna autorevole e costante giurisprudenza mentre le norme comunitarie «devono avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari»[5], rinvenendosi il fondamento costituzionale di tale efficacia diretta nell’art. 11 Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni, per ciò che riguarda le norme CEDU, «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale»[6] deve ritenersi che “pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone esse sono pur sempre norme patrizie che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto”[7]. Secondo la Corte Cost. ciò trova importante conferma nel riformulato art. 117 Cost laddove si distingue tra vincoli derivanti dall’«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali ».
Ad ogni buon conto dato il peculiare rilievo, ‘sostanziale’ e ‘formale’, delle norme CEDU anche in considerazione della loro integrale ricezione nella c.d. Carta di Nizza o Costituzione Europea i cui contenuti, a seguito della mancata ratifica della Carta da parte di alcuni Paesi, sono stati per la parte che a noi interessa completamente trasfusi per relationem nel richiamato Trattato di Lisbona, considerata la portata dell’art. 117 cost, la Consulta pur non accogliendo , in contrasto con autorevole giurisprudenza di merito e di legittimità, la tesi dell’applicabilità immediata[8] ha comunque ritenuto superato l’orientamento secondo il quale le norme CEDU entrano a far parte dell’ordinamento interno in forza di una norma di adattamento qualificabile come legge ordinaria. Secondo la Consulta, il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost, “se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall’altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi”[9].
In tutti i casi come ribadito da una recente sentenza della Consulta precedente al 1 dicembre 2009, “ in presenza di un apparente contrasto fra disposizioni legislative interne ed una disposizione della CEDU, anche quale interpretata dalla Corte di Strasburgo, può porsi un dubbio di costituzionalità, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., solo se non si possa anzitutto risolvere il problema in via interpretativa”[10].
Dal portato giurisprudenziale sopra sommariamente richiamato si ricava la competenza degli organi giurisdizionali comuni dell’eventuale opera interpretativa ex art. 44, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 che sia resa effettivamente necessaria dalle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo; a tale compito, peraltro, già ha atteso la giurisprudenza di legittimità. Solo ove l’adeguamento interpretativo, che appaia necessitato, “risulti impossibile o l’eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale, questa Corte potrà essere chiamata ad affrontare il problema della asserita incostituzionalità della disposizione di legge”[11] . In tutti i casi, l’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza dì quella giurisprudenza, secondo un criterio già adottato dal giudice comune e dalla Corte europea[12]
2.2. Effettività e esecutività delle sentenze della Corte EDU.
Precisate modalità e portata degli effetti delle norme CEDU nel sistema interno, ulteriore problema riguardava poi le modalità di esecuzione delle sentenze della Corte europea. Se il dato indiscusso è l’impegno a conformarsi alle sentenze della Corte, sancito dall’articolo 46 della Convenzione tradizionalmente, si riteneva che, quando esso si sostanziava nell’obbligo del pagamento della somma di denaro stabilita dalla Corte a titolo di “equa soddisfazione” (per l’impossibilità di porre in essere la restitutio in integrum chè è il caso anche della sentenza di cui si discute), questo riconoscimento precludesse ulteriori misure, tanto più in quanto esse non entravano nel dispositivo della sentenza. L’obbligo dello Stato di adottare, se del caso, misure di carattere individuale o generale per far cessare la constatata violazione, eliminarne le conseguenze, prevenire analoghe violazioni, sarebbe quindi rimasto sostanzialmente privo di reale efficacia normativa.
Con il paragrafo 249 della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 13 luglio 2000 (caso Scozzari e Giunta contro Italia) e con l’opinione parzialmente concorrente del giudice Zupancic a quella sentenza ed all’altra, sempre della Corte, del 27 febbraio 2001 (caso Lucà contro Italia) si è realizzata una vera e propria svolta interpretativa destinata a produrre rilevanti effetti. La restitutio in integrum conseguente alla violazione dei diritti umani accertata dalla Corte resta dunque un obbligo gravante integralmente sullo Stato membro, stante l’accessorietà dell’equo soddisfacimento, rispetto all’obbligo delle Parti contraenti a conformarsi alle decisioni della Corte. Questa giurisprudenza ha stabilito, per la prima volta in modo esplicito ed incisivo, che l’equa soddisfazione costituisce solo una delle conseguenze di una sentenza: essa ha infatti chiaramente affermato che lo Stato condannato è chiamato non solo a versare agli interessati le somme eventualmente accordate a titolo di equa soddisfazione ma anche, e innanzitutto, a scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o, se del caso, individuali destinate a porre termine alla violazione constatata e a rimuoverne, per quanto possibile, le conseguenze[13]. La Corte ha tenuto inoltre a precisare, e trattasi di un’altra rilevante novità, che lo Stato, sempre sotto il controllo del Comitato dei Ministri, è libero di scegliere le modalità con cui adempiere tale obbligo a condizione che queste restino compatibili con le conclusioni della Corte[14]. Da quanto precede emerge che: le somme accordate a titolo di equa soddisfazione servono a compensare solo i danni ormai irreversibili (§ 250 della sentenza), sicché l’equa soddisfazione acquista un ruolo sussidiario e l’obbligo primario derivante da una sentenza, se si tiene conto anche della sistematica dei §§ 249 e 250, è quello della cessazione della violazione e della rimozione dei suoi effetti, nella misura in cui, ovviamente, ciò sia ancora possibile; lo Stato non gode più di una libertà assoluta nella scelta delle modalità con cui adempiere tale obbligo primario. La scelta dello Stato è sottoposta al “monitoraggio” del Comitato dei Ministri ed è vincolata a parametri di valutazione precisi circa il carattere soddisfacente o meno delle misure generali/individuali adottate dal medesimo che devono essere conformi alle conclusioni della Corte.
Conclusivamente, alla luce di quanto precede, ai fini della individuazione del valore e degli effetti nel nostro ordinamento della sentenza del caso “SH e altri/Austria”, del 1 aprile 2010, si può ritenere senza timore di smentita che l’accertata natura sub-costituzionale delle norme CEDU e delle connesse decisioni adottate dalla Corte Europea, assume rilievo sia sotto il profilo diretto di dictum per l’interprete (e lo stesso legislatore in virtù della menzionata evoluzione giurisprudenziale intervenuta) che sotto quello indiretto di canone interpretativo generale cui il Giudice nazionale, ivi compreso il Giudice delle Leggi, deve attenersi, nell’operazione di qualificazione della disposizione interna contrastante e della connessa esigenza di adeguare l’ordinamento interno, nei modi sopra visti, alle decisioni adottate dalla Corte Europea. In tal senso il giudice interno investito del problema in via incidentale, previa verifica della congruità con i principi costituzionali interni delle asserite violazioni di diritti fondamentali della persona accertate dalla Corte Europea –nella specie gli artt. 8 e 14 della CEDU- esperito il tentativo di adeguamento per via interpretativa della norma interna alla norma/decisione CEDU, dovrebbe procedere, in caso di esito negativo, o alla applicazione, data la relazione gerarchica tra fonti e cronologica tra norme, della ‘norma/decisione interposta’ in luogo di quella ordinaria contrastante[15] – nella specie divieto di PMA di tipo eterologo previsto dalla norma interna di cui alla L. 40/04 art. 4 c. 3- ovvero, ove la questione presenti rilevanti profili di costituzionalità, sollevando q.l.c. della norma interna contrastante con la decisione della Corte Europea innanzi alla Consulta. Con ogni effetto consequenziale.
2.3. Situazione successiva alla ratifica del Trattato di Lisbona del 1° dicembre 2009
Con la ratifica del Trattato di Lisbona del 1 dicembre 2009, in considerazione dell’esplicito richiamo ivi operato dall’art. 6 c. 2 e 3 del riformato Trattato UE, viene previsto che l’Unione aderisce alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, divengono ‘diritto dell’Unione’ in quanto principi generali[16]. Dopo decenni di incertezze si assiste alla definitiva ‘comunitarizzazione’ o se si vuole all’ingresso del ‘sistema CEDU’ nell’ambito del diritto della UE, con ogni implicazione conseguenziale sotto il profilo delle modalità di adeguamento del diritto interno al diritto sovrannazionale e dei rapporti tra sistemi normativi non più fondati e regolati dal meccanismo di cui all’art. 117 bensì da quello di cui all’art. 11 Cost.[17]
Per maggior chiarezza giova puntualizzare alcuni aspetti essenziali della materia. Iniziamo col ricordare che, come è noto, sulla base della consolidata giurisprudenza della Consulta i rapporti fra diritto comunitario e diritto interno devono rapportarsi a due sistemi configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato[18]. I principi stabiliti dalla Corte in relazione al diritto comunitario – regolamento, direttiva, decisione del Parlamento o dell’organo giudiziario relativa all’applicazione o all’interpretazione di talune norme dei trattati- traggono significato dalla considerazione che l’ordinamento della UE e quello dello Stato, pur distinti ed autonomi, sono, come esige il Trattato di Roma, necessariamente coordinati; il coordinamento discende, a sua volta, dall’avere la legge di esecuzione del Trattato trasferito agli organi comunitari, in conformità dell’art. 11 Cost., le competenze che questi esercitano, beninteso nelle materie loro riservate.
La regola di diritto che ne consegue è la seguente; “Il giudice italiano accerta che la normativa scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto al suo esame, e ne applica di conseguenza il disposto, con esclusivo riferimento al sistema dell’ente sovrannazionale: cioè al solo sistema che governa l’atto da applicare e di esso determina la capacità produttiva. Le confliggenti statuizioni della legge interna non possono costituire ostacolo al riconoscimento della "forza e valore", che il Trattato conferisce al regolamento [come a qualsiasi atto comunitario immediatamente applicabile] comunitario, nel configurarlo come atto produttivo di regole immediatamente applicabili”[19]. L’effetto connesso con la sua vigenza non è quello di caducare né di abrogare ovvero eliminare ex tunc (in quanto affetta da nullità) la norma interna contraria al diritto comunitario. Proprio in virtù dell’autonomia tra i due ordinamenti la prevalenza del diritto comunitario si sostanzia nell’obbligo per il giudice nazionale di applicare la disposizione comunitaria configgente con la norma interna che viene quindi disapplicata. Del tutto coerentemente con quanto esposto è “significativo che il controllo sulla compatibilità tra la norma comunitario e la norma interna, anche posteriore, sia lasciato alla cognizione del giudice ordinario pur dove un apposito organo giudicante è investito, analogamente a questa Corte, del sindacato di costituzionalità sulle leggi[20].
Alla luce di quanto precede, atteso l’ingresso anche in senso ‘formale’ del ‘sistema CEDU’ nel diritto comunitario cui si aggiunge l’espresso riconoscimento che i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali, le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulle questioni di sua specifica competenza cioè sulle vicende concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli, devono ritenersi immediatamente applicabili nell’ordinamento interno. Nell’ipotesi di disposizione interna confliggente con la norma e/o la decisione applicativo/interpretativa della Corte di Lussemburgo, il giudice ordinario dopo aver effettuato tale controllo di compatibilità procederà alla disapplicazione della norma interna contrastante.
Sul valore vincolante dei diritti dell’uomo per tutti gli Stati aderenti alla UE e per la stessa Unione si era peraltro già espressa la Corte di Giustizia che a partire dal 2003 ha costantemente ribadito come i diritti fondamentali sanciti dalla CEDU fanno parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza[21]
Sulle richiamate conclusioni gli interpreti non risultano tuttavia concordi. Secondo parte autorevole della dottrina, che trova conferma peraltro, nella decisione del Tribunale di Firenze che, sulla scorta della richiamata sentenza della Corte EDU contro l’Austria ha sollevato il dubbio di costituzionalità sul divieto alla fecondazione artificiale eterologa[22], l’adesione della UE alla CEDU affermata nell’art. 6 comma 2 del Trattato di Lisbona avrebbe, al momento, valore programmatico e non precettivo. Più precisamente tale adesione, in assenza dell’apposito Accordo che ne disciplini le modalità attuative/operative richiamato dal protocollo n. 8 annesso al Trattato[23], dovrebbe ritenersi, per quel che è dato di capire, una enunciazione meramente politica o di principio priva, al momento di valenza giuridica[24].
Per ciò che concerne poi il comma 3 dell’art. 6 del Trattato, contenente l’espresso riconoscimento che i diritti dell’uomo sanciti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali, anche tale previsione non consentirebbe , di affermare, secondo il predetto orientamento, che il diritto CEDU è direttamente applicabile negli ordinamenti interni degli Stati. Si tratterebbe di previsione applicabile solo all’ambito del diritto comunitario e non anche a quello nazionale[25].
La tesi non convince. Infatti con riguardo alla assenza, al momento, della formale stipula dell’Accordo richiamato, ci si limita a rilevare come, risulta quantomeno dubbio che dal tenore letterale e dal senso logico della previsione l’interprete possa ricavare che tale Accordo costituisce condizione di validità e/o di operatività della affermata adesione della UE alla CEDU di talchè le regole provenienti dalla medesima dovrebbe continuare a ritenersi, fino a tale approvazione, mero diritto internazionale pattizio. La tesi prova troppo. Più ragionevolmente, anche in considerazione del combinato disposto di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 6, potrebbe ritenersi che data l’indiscutibile novità introdotta anche rispetto al quadro esistente che espressamente escludeva tale possibilità[26], quantomeno negli aspetti nei quali, come nel caso di specie, gli effetti derivanti dall’immediata applicabilità del diritto CEDU nell’ordinamento degli Stati non determini antinomie formali o sostanziali, anche in forza di un consolidato orientamento delle Corti Costituzionali Statali e della Corte UE[27] , tale diritto, a tutti gli effetti vincolante in considerazione dell’avvenuto riconoscimento ‘legale’ dell’adesione dell’organismo soprannazionale, deve ritenersi produttivo di effetti in quanto fonte del diritto comunitario.
Per ciò che riguarda poi l’obiezione per la quale il comma 3 dell’art. 6 dovrebbe ritenersi riferito, per quel che si comprende, ad un ambito di competenza interpretativa e applicativa riservata alla sola Corte di Giustizia UE, si tratta di affermazione che non può essere condivisa. Sfugge infatti quale sia il riferimento, non solo testuale ma anche ermeneutico, in forza del quale la previsione che i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali, non debba produrre i propri effetti pure rispetto agli ordinamenti dei singoli Stati membri. La tesi risulta significativamente confermata da autorevole giurisprudenza amministrativa secondo la quale “Il riconoscimento dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU come principi interni al diritto dell’Unione, ha immediate conseguenze di assoluto rilievo, in quanto le norme della Convenzione divengono immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione, e quindi nel nostro ordinamento nazionale, in forza del diritto comunitario, e quindi in Italia ai sensi dell’art. 11 della Costituzione, venendo in tal modo in rilevo l’ampia e decennale evoluzione giurisprudenziale che ha, infine, portato all’obbligo, per il giudice nazionale, di interpretare le norme nazionali in conformità al diritto comunitario, ovvero di procedere in via immediata e diretta alla loro disapplicazione in favore del diritto comunitario, previa eventuale pronuncia del giudice comunitario ma senza dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno”[28].
Tradotto in altri termini, per la questione che a noi interessa, ciò significa che la decisione della Corte Europea adottata per il caso SH e altri/Austria, del 1 aprile 2010, contiene un dictum che al pari di una sentenza resa dalla Corte di Giustizia Europea, nel definire il caso concreto pone prescrizioni che hanno valore generale stabilendo un principio di diritto che il giudice nazionale adito in giudizio da cittadini che lamentino la lesione di un identico diritto soggettivo fondamentale, effettuato il controllo di compatibilità tra norma interna e disposizione/decisione comunitaria, verificata l’impossibilità di addivenire ad una interpretazione conformativa, ha l’obbligo di applicare a casi che presentino anologo petitum e causa petendi rispetto ad una norma che ha prescindere dalla modalità di formulazione del divieto, presenti la medesima rationes legis
3. La pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 1 aprile 2010: divieto di procreazione eterologa previsto dalla legge austriaca e violazione dell’art. 8 e 14 della CEDU.
La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo notificata il 1 aprile 2010 accoglie il ricorso presentato da due coppie di cittadini austriaci, l’8 maggio 2000. La pronuncia è l’effett