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Diritto alle dimissioni e libertà di manifestazione del pensiero: alcune considerazioni sul caso Vaccarella

Con delibera 4 maggio 2007, la Corte Costituzionale, in conformità all’art. 17, 2° comma del suo Regolamento generale, accetta all’unanimità, dopo averle in un primo momento respinte, le dimissioni del prof. Romano Vaccarella, eletto giudice costituzionale dal Parlamento in seduta comune in data 24 aprile 2002.

Ora, data per nota la vicenda che ha condotto all’esito che tutti conosciamo e senza entrare in valutazioni politiche del caso, il problema che mi pongo è di duplice natura:

1) si può continuare a parlare di un diritto alle dimissioni in capo ai singoli giudici costituzionali anche se questo comporta, in piena coscienza e consapevolezza, una menomazione della Corte Costituzionale per lo svolgimento delle sue attribuzioni in composizione ordinaria (15 giudici, ex art. 135, 1° comma, Cost.), pur potendo, le istituzioni preposte, procedere a nuova nomina entro un mese (art. 5, 2° comma, l. costituzionale n. 2/1967), anche se, soprattutto con riferimento all’organo parlamentare in seduta comune e per ovvi motivi di equilibri politici, i tempi tendono ad allungarsi eccessivamente, lasciando intravedere, quale extrema ratio per superare l’impasse, una sollevazione, da parte della Corte, di conflitto di attribuzioni contro il potere che “non esercitando il potere-dovere di nomina, le impedisce di funzionare” (Bin-Pitruzzella) ? E sarebbe credibile, in tale ipotesi di scuola, una Corte che è, contestualmente, parte e giudice dello stesso giudizio ?

2) la denuncia, da parte di Vaccarella, di condizionamenti esterni ad opera di alcuni Ministri del Governo Prodi “sicuri della disponibilità della Corte a seguire i suggerimenti” dell’Esecutivo in sede di giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo avente ad oggetto alcune disposizioni normative della vigente legge elettorale, rientra nell’alveo della libertà di manifestazione del pensiero oppure, in ragione dello status ricoperto, non è compresa nel garantismo costituzionale di cui all’art. 21 della Costituzione, esistendo, quindi, un dovere di astensione ?

In merito al primo punto, a me sembra incontestabile che le dimissioni volontarie di un giudice portino con sé una voluta alterazione della funzionalità e della morfologia strutturale della Corte nonchè, indirettamente, una violazione del giuramento di osservanza della Costituzione e delle leggi che tutti i giudici devono prestare prima di assumere le loro funzioni (art. 5 l. ordinaria n. 87/1953). Infatti, l’impegno al pieno rispetto del dettato costituzionale all’atto del giuramento non postula, forse, l’assicurare un’attività a composizione ordinaria della Consulta con la necessità di ascrivere solo alle ipotesi in cui non si riesca a garantire la continuità funzionale dell’organo per fatto esogeno ossia non dipendente dalla volontà del soggetto agente (scadenza naturale del mandato, morte, altra forma di incapacità), la garanzia di una sua operatività “con l’intervento di almeno undici giudici” (art. 16, 2° comma, l. n. 87/1953) ? De iure condito, tuttavia, la situazione è sostanzialmente diversa da quanto sopra auspicato dal momento che la scadenza di un giudice costituzionale, quale ne sia la causa che l’ha determinata (dimissioni incluse), implica come conseguenza immediata il rinvio a nuovo ruolo di tutti i procedimenti non ancora conclusi ma svoltisi in presenza del giudice medesimo (De Roberto) in virtù del parallelismo e della corrispondenza tra il collegio della discussione ed il collegio della decisione, tesi ribadita, peraltro, sia dall’art. 16, 3°comma, della l. n. 87/1953 laddove contempla che le decisioni della Corte vengano deliberate “dai giudici presenti a tutte le udienze in cui si è svolto il giudizio” sia dalla giurisprudenza costituzionale, in particolare dalle ordd. 17 ottobre 1980 n. 145 (a seguito del decesso del giudice costituzionale prof. Guido Astuti) e 29 gennaio 1993 n. 22 (conseguentemente la cessazione dalla carica dell’allora Presidente, dott. Aldo Corasaniti). Mi domando, pertanto, se l’ipotesi delle dimissioni volontarie non produca una grave lesione sul piano della continuità funzionale dell’organo di legittimità costituzionale, perfettamente scongiurabile, evitando l’operatività forzata di una Corte “a mani mozze”. Non sarebbe opportuno, invece, procedere ad una modifica legislativa e regolamentare volta ad attribuire alla Consulta il potere-dovere di bloccare, sia pure solo temporaneamente, la volontà dimissoria, che verrebbe posticipata e non impedita, fino alla conclusione ed al completamento di tutti i giudizi nei quali il giudice aveva preso parte

Relativamente, infine, al secondo punto, va messo in risalto il rilievo dottrinale secondo il quale (D’Orazio) è negata ai singoli giudici la facoltà di manifestare ufficialmente opinioni dissenzienti da quelle espresse nelle decisioni della Corte; e si tratta di una negazione che non mi pare logico circoscrivere unicamente al momento della pronuncia, come ammette una certa parte della dottrina, ma valida anche ex ante ossia a partire dalla fase in cui inizia l’iter che perviene alla decisione finale poiché manifestazioni di pensiero previe, attinenti alla quaestio su cui la Corte è chiamata a giudicare, equivarebbero ad uno svilimento dei presupposti di autonomia ed indipendenza, connaturati all’essenza stessa ed allo svolgimento delle attribuzioni del giudice delle leggi.

(*) Assistente in Istituzioni di Diritto Pubblico presso presso la Facoltà di

Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Padova - E-mail: daniele.trabucco@alice.it

Con delibera 4 maggio 2007, la Corte Costituzionale, in conformità all’art. 17, 2° comma del suo Regolamento generale, accetta all’unanimità, dopo averle in un primo momento respinte, le dimissioni del prof. Romano Vaccarella, eletto giudice costituzionale dal Parlamento in seduta comune in data 24 aprile 2002.

Ora, data per nota la vicenda che ha condotto all’esito che tutti conosciamo e senza entrare in valutazioni politiche del caso, il problema che mi pongo è di duplice natura:

1) si può continuare a parlare di un diritto alle dimissioni in capo ai singoli giudici costituzionali anche se questo comporta, in piena coscienza e consapevolezza, una menomazione della Corte Costituzionale per lo svolgimento delle sue attribuzioni in composizione ordinaria (15 giudici, ex art. 135, 1° comma, Cost.), pur potendo, le istituzioni preposte, procedere a nuova nomina entro un mese (art. 5, 2° comma, l. costituzionale n. 2/1967), anche se, soprattutto con riferimento all’organo parlamentare in seduta comune e per ovvi motivi di equilibri politici, i tempi tendono ad allungarsi eccessivamente, lasciando intravedere, quale extrema ratio per superare l’impasse, una sollevazione, da parte della Corte, di conflitto di attribuzioni contro il potere che “non esercitando il potere-dovere di nomina, le impedisce di funzionare” (Bin-Pitruzzella) ? E sarebbe credibile, in tale ipotesi di scuola, una Corte che è, contestualmente, parte e giudice dello stesso giudizio ?

2) la denuncia, da parte di Vaccarella, di condizionamenti esterni ad opera di alcuni Ministri del Governo Prodi “sicuri della disponibilità della Corte a seguire i suggerimenti” dell’Esecutivo in sede di giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo avente ad oggetto alcune disposizioni normative della vigente legge elettorale, rientra nell’alveo della libertà di manifestazione del pensiero oppure, in ragione dello status ricoperto, non è compresa nel garantismo costituzionale di cui all’art. 21 della Costituzione, esistendo, quindi, un dovere di astensione ?

In merito al primo punto, a me sembra incontestabile che le dimissioni volontarie di un giudice portino con sé una voluta alterazione della funzionalità e della morfologia strutturale della Corte nonchè, indirettamente, una violazione del giuramento di osservanza della Costituzione e delle leggi che tutti i giudici devono prestare prima di assumere le loro funzioni (art. 5 l. ordinaria n. 87/1953). Infatti, l’impegno al pieno rispetto del dettato costituzionale all’atto del giuramento non postula, forse, l’assicurare un’attività a composizione ordinaria della Consulta con la necessità di ascrivere solo alle ipotesi in cui non si riesca a garantire la continuità funzionale dell’organo per fatto esogeno ossia non dipendente dalla volontà del soggetto agente (scadenza naturale del mandato, morte, altra forma di incapacità), la garanzia di una sua operatività “con l’intervento di almeno undici giudici” (art. 16, 2° comma, l. n. 87/1953) ? De iure condito, tuttavia, la situazione è sostanzialmente diversa da quanto sopra auspicato dal momento che la scadenza di un giudice costituzionale, quale ne sia la causa che l’ha determinata (dimissioni incluse), implica come conseguenza immediata il rinvio a nuovo ruolo di tutti i procedimenti non ancora conclusi ma svoltisi in presenza del giudice medesimo (De Roberto) in virtù del parallelismo e della corrispondenza tra il collegio della discussione ed il collegio della decisione, tesi ribadita, peraltro, sia dall’art. 16, 3°comma, della l. n. 87/1953 laddove contempla che le decisioni della Corte vengano deliberate “dai giudici presenti a tutte le udienze in cui si è svolto il giudizio” sia dalla giurisprudenza costituzionale, in particolare dalle ordd. 17 ottobre 1980 n. 145 (a seguito del decesso del giudice costituzionale prof. Guido Astuti) e 29 gennaio 1993 n. 22 (conseguentemente la cessazione dalla carica dell’allora Presidente, dott. Aldo Corasaniti). Mi domando, pertanto, se l’ipotesi delle dimissioni volontarie non produca una grave lesione sul piano della continuità funzionale dell’organo di legittimità costituzionale, perfettamente scongiurabile, evitando l’operatività forzata di una Corte “a mani mozze”. Non sarebbe opportuno, invece, procedere ad una modifica legislativa e regolamentare volta ad attribuire alla Consulta il potere-dovere di bloccare, sia pure solo temporaneamente, la volontà dimissoria, che verrebbe posticipata e non impedita, fino alla conclusione ed al completamento di tutti i giudizi nei quali il giudice aveva preso parte

Relativamente, infine, al secondo punto, va messo in risalto il rilievo dottrinale secondo il quale (D’Orazio) è negata ai singoli giudici la facoltà di manifestare ufficialmente opinioni dissenzienti da quelle espresse nelle decisioni della Corte; e si tratta di una negazione che non mi pare logico circoscrivere unicamente al momento della pronuncia, come ammette una certa parte della dottrina, ma valida anche ex ante ossia a partire dalla fase in cui inizia l’iter che perviene alla decisione finale poiché manifestazioni di pensiero previe, attinenti alla quaestio su cui la Corte è chiamata a giudicare, equivarebbero ad uno svilimento dei presupposti di autonomia ed indipendenza, connaturati all’essenza stessa ed allo svolgimento delle attribuzioni del giudice delle leggi.

(*) Assistente in Istituzioni di Diritto Pubblico presso presso la Facoltà di

Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Padova - E-mail: daniele.trabucco@alice.it