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“Diritto a morire” e tutela della vita nella CEDU: quali indicazioni per l’ordinamento italiano?

Genova
Ph. Simona Balestra / Genova

Abstract

Il contributo esamina la giurisprudenza di Strasburgo in materia di suicidio assistito e trae conclusioni, di natura critica e costruttiva, circa i limiti imposti all’assistenza al suicidio nell’ordinamento italiano.

The contribution analyses the Strasbourg case law on assisted suicide and provides constructive criticism of the limits imposed by the Italian legal system to the assistance to suicide.

 

Indice:

1. Introduzione

2. Il diritto di decidere come e quando morire

3. Le limitazioni al diritto di decidere come e quando morire

3.1 La base legale, o interferenza “prevista dalla legge”

3.2. Lo scopo legittimo, o il contrapposto interesse meritevole di bilanciamento

3.3. La “necessità in una società democratica”, o proporzionalità rispetto al perseguimento dello scopo legittimo

4. Le obbligazioni positive derivanti dal diritto a decidere come e quando morire

5. Conclusioni

 

1. Introduzione

L’eutanasia, intesa in senso ampio quale “morte che beneficia l’interessato”,[1] è categoria all’interno della quale possono distinguersi tre fenomeni: l’eutanasia passiva, ovvero l’omissione intenzionale che cagiona la morte di una persona nell’interesse di quest’ultima (ad esempio tramite la sospensione dei trattamenti di sostegno vitale);[2] l’eutanasia attiva, ovvero l’interruzione intenzionale della vita di un terzo a richiesta di quest’ultimo;[3] e il suicidio assistito, ovvero la prestazione di assistenza a chi si da, con atto proprio, la morte.[4]

Nonostante la prassi dimostri la necessità di una regolamentazione in materia, l’ordinamento italiano è ad oggi privo di una disciplina omnicomprensiva di questi fenomeni. Come noto, il legislatore (stimolato dalla giurisprudenza) è intervenuto solamente in materia di rifiuto dei trattamenti sanitari con la legge 219/2017, così regolamentando in parte l’eutanasia passiva. Viceversa, per ciò che concerne l’eutanasia attiva, l’esame da parte del Parlamento di varie proposte di legge susseguitesi nel tempo è, a distanza di anni, ancora fermo, non restando che auspicarsi un rinnovato interesse per il tema grazie al recentissimo progetto di referendum popolare per l’abolizione parziale dell’art. 579 c.p., per il quale inizierà in estate 2021 la raccolta firme.

Con riferimento al suicidio assistito, la situazione può dirsi in fase di evoluzione: è noto, infatti, che nel c.d. caso Cappato/Fabiani la Corte Costituzionale ha incoraggiato il legislatore all’intervento (C. Cost., ord. n. 207/2018) ma che, a fronte dell’inerzia di quest’ultimo, ha dovuto intervenire con dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 580 c.p. (C. Cost., sent. n. 242/2019).[5]

L’intervento del giudice costituzionale ha individuato un’area di irrilevanza penale per talune condotte di aiuto al suicidio; tuttavia, ha lasciato aperte numerose questioni, a partire dalla fondamentale domanda: esiste nel nostro ordinamento un “diritto al suicidio”? [6] E, in caso di risposta affermativa, che protezione ha un tale diritto?

Ulteriore questione è quella dell’applicabilità in via estensiva delle condizioni individuate dalla Corte Costituzionale: nel recente caso Trentini, le corti di merito si sono confrontate con la necessità di verificare la ricorrenza del requisito di “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale” in un caso di “mera” dipendenza da trattamento farmacologico.[7]

A queste ed altre domande dovrà essere data risposta. Che a farlo sia la giurisprudenza (come è probabile) o il legislatore (come è auspicabile), tale risposta non potrà prescindere dagli standard di tutela imposti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (“CEDU”), nell’interpretazione datane dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (“CtEDU” o “Corte di Strasburgo”). Tali standard, infatti, devono orientare sia l’interprete che il legislatore, in virtù del rango “subcostituzionale” attribuito alla CEDU nel sistema delle fonti italiano (Corte Cost., sent. 348/2007, § 4.6).

Con il duplice obiettivo di sottolineare le carenze dell’attuale assetto ordinamentale, e di fornire utili spunti per la futura disciplina della materia, il presente contributo analizza le pronunce della Corte di Strasburgo in materia di suicidio assistito, per delineare gli standard di tutela imposti dalla CEDU sul punto.[8]

Nella prima parte del contributo si delineerà l’emersione del “diritto di decidere come e quando morire”, ricompreso nell’ambito di tutela dell’articolo 8 CEDU. Nel secondo paragrafo si esamineranno le limitazioni convenzionalmente ammissibili a tale diritto: è importante, infatti, ricordare che all’affermazione di esistenza di un diritto convenzionale, e al riconoscimento di un’interferenza statale in tale diritto, non corrisponde necessariamente una violazione. Come meglio chiarito nel corpo del contributo, eventuali interferenze nel diritto a decidere come e quando morire possono, a certe condizioni, non integrare violazione della Convenzione.

Nel terzo paragrafo si esamineranno le obbligazioni positive che derivano dal diritto di decidere come e quando morire. Nel quarto paragrafo si trarranno, infine, conclusioni quanto agli standard di tutela imposti dalla giurisprudenza CEDU in materia di suicidio assistito.

 

2. Il diritto di decidere come e quando morire

La Corte di Strasburgo ha affrontato il tema del suicidio assistito in una manciata di sentenze, ormai note ai giuristi che si interessano della materia: Pretty c. Regno Unito 2002, Haas c. Svizzera 2011 , Gross c. Svizzera 2013/Gross c. Svizzera (GC) 2014, e Koch c. Germania 2012.[9]

Da queste pronunce emerge una posizione consolidata: quella per cui considerazioni legate alla qualità della vita e alla scelta di una morte considerata degna trovano tutela sotto l’articolo 8 CEDU, norma che protegge il diritto al rispetto della “vita famigliare e privata”.

Le fondamenta di tale posizione emersero nella prima sentenza della CtEDU in materia: Pretty c. Regno Unito 2002[10]. Il caso riguardava una donna affetta da malattia degenerativa incurabile, la quale desiderava porre fine ai propri giorni con l’aiuto del marito. Costui, tuttavia, sarebbe incorso in responsabilità penale ai sensi dell’Articolo 2 del Suicide Act (norma incriminante l’istigazione e l’aiuto al suicidio). La sig.ra Pretty aveva adito la Corte di Strasburgo lamentando che l’impossibilità di ottenere il desiderato aiuto al suicidio violasse varie norme CEDU, tra cui l’articolo 8 ma anche l’articolo 2, norma che tutela il diritto alla vita, e che la ricorrente riteneva tutelasse anche il diritto a decidere se continuare, o meno, a vivere.

La Corte di Strasburgo chiarì che l’articolo 2 CEDU è norma “indifferente a problematiche concernenti la qualità di vita”, e che essa “non può, senza una distorsione di linguaggio, essere interpretata come conferente all’individuo il diritto diametralmente opposto a quello tutelato, ovvero il diritto di morire”.[11]

Viceversa, la Corte dichiarò di non essere pronta ad escludere” che impedire ad una persona di effettuare una scelta che le risparmi una morte che ella considera non degna, possa costituire un’interferenza nel rispetto della sua vita privata tutelato dall’articolo 8 CEDU. Nel fare questo affermò chel’essenza stessa della Convenzione è il rispetto per la dignità umana e la libertà individuale”, e che è sotto l’articolo 8 CEDU che possono trovare tutela preoccupazioni relative alla qualità di vita. [12]

L’articolo 8 CEDU, invero, è norma dalla portata molto vasta. La Corte di Strasburgo ha sempre affermato che la nozione di “vita privata” è ampia e non suscettibile di definizione esaustiva[13]. Tale concetto è dunque in costante evoluzione, e tutela, inter alia, l’integrità fisica e psicologica delle persone[14], ma anche le scelte relative al proprio corpo. Ben prima del caso Pretty, la giurisprudenza di Strasburgo sulle attività masochiste[15]  e sul rifiuto di cure mediche[16] aveva chiarito che la nozione di vita privata include anche “l’opportunità di dedicarsi ad attività percepite come fisicamente o moralmente dannose o pericolose per la persona [17].

La conclusione abbozzata nel caso Pretty giunse a piena maturità nella sentenza relativa al successivo caso Haas c. Svizzera 2011. Il ricorrente, cittadino svizzero, soffriva di un grave disturbo bipolare da più di vent’anni, che a suo giudizio gli impediva di continuare a vivere in modo dignitoso. Come noto, nel diritto svizzero l’assistenza al suicidio costituisce reato solamente se sostenuta da “motivi egoistici” (articolo 115 del Codice Penale svizzero), e la prescrizione medica di sostanze letali è pratica tollerata nel rispetto di determinate condizioni: le direttive medico-etiche adottate dall’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche (regolarmente aggiornate) chiariscono che i dottori, pur non essendo obbligati a prestare aiuto al suicidio, se desiderano farlo devono verificare il ricorrere di una serie di requisiti, che riguardano la gravità della malattia e la capacità del paziente di formare liberamente la propria volontà sul punto. Il ricorrente del caso Haas, in quanto affetto da grave disturbo psichico, non trovò alcun medico disposto a certificare la sua capacità di formare una volontà di suicidio immune da vizi. Adì dunque la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, lamentando una violazione dell’articolo 8 CEDU.

La Corte di Strasburgo, richiamate le proprie conclusioni nel caso Pretty, affermò a chiare lettere che “il diritto individuale di decidere come e quando la propria vita avrà fine, se ricorre la capacità di raggiungere liberamente una decisione sul punto ed agire di conseguenza, è un aspetto del diritto al rispetto della vita privata di cui all’articolo 8 della Convenzione”. [18]

Così facendo, la CtEDU ampliò ancora una volta la nozione di “vita privata”, ricomprendendovi il diritto di decidere come e quando morire.

L’affermazione di tale diritto venne poi ripresa nella prima sentenza sul caso Gross c. Svizzera (2013). La ricorrente era un’anziana cittadina svizzera che desiderava non prolungare ulteriormente il progressivo e naturale decadimento delle proprie capacità fisiche e mentali. Non essendo affetta da alcuna malattia incurabile, la sua posizione non ricadeva tra quelle individuate dalle direttive medico-etiche adottate dall’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche: per tale ragione, non aveva potuto ottenere la desiderata assistenza medica al suicidio.

È importante ricordare che la prima sentenza emessa dalla Corte di Strasburgo nel caso Gross è stata privata di effetti dalla sentenza di Grande Camera del 2014, con cui la Corte, nel giudicare “in appello” sul caso, ha radiato la causa dal ruolo perché la sig.ra Gross era nel frattempo riuscita a morire senza, però, che il suo rappresentante ne informasse la Corte (così concretandosi un abuso del diritto di ricorso individuale).

Tuttavia, tra le conclusioni della prima sentenza è certamente rilevante la riconferma del fatto che il desiderio della ricorrente di ottenere assistenza medica al suicidio fosse tutelato dall’articolo 8 CEDU in quanto espressione della sua “vita privata”. 

 

3. Le limitazioni al diritto di decidere come e quando morire

Acclarato che l’articolo 8 CEDU tutela, inter alia, il “diritto di decidere come e quando morire”, è importante sottolineare che tale diritto non è assoluto, potendo essere limitato al fine di proteggere interessi ad esso contrapposti.

L’articolo 8, infatti, fa parte di quelle disposizioni della CEDU che contemplano diritti “relativi” (articoli 8-11) ovvero, in linguaggio convenzionale, diritti suscettibili di compressione a fini di bilanciamento con interessi contrapposti. Il comma secondo della disposizione individua le condizioni in presenza delle quali una limitazione dei diritti tutelati dall’articolo 8 non integra violazione della norma, ovvero: 1) l’esistenza di una base legale, 2) il perseguimento di uno scopo legittimo e 3) una relazione di proporzionalità tra la restrizione al diritto e lo scopo legittimo perseguito.

 

3.1 La base legale, o interferenza “prevista dalla legge”

L’eventuale interferenza nel diritto di decidere come e quando morire deve essere “prevista dalla legge”, ovvero avere una base legale (nel caso Pretty, la base legale era ad esempio rappresentata dall’incriminazione dell’assistenza al suicidio).

È importante ricordare che la nozione di “legge” nel sistema CEDU è autonoma: secondo quanto affermato dalla Corte di Strasburgo sin dal celebre caso Sunday Times c. Regno Unito 1979, è “un concetto che comprende il diritto scritto così come la giurisprudenza, e che implica requisiti qualitativi, in particolare di accessibilità e prevedibilità”. Pertanto, con il termine “legge” non si fa riferimento a specifiche fonti di produzione: l’importante è che la norma sia espressione della volontà statale, ma la sua origine può essere legislativa, governativa, o giurisprudenziale (Huvig c. Francia 1990).

Allo stesso tempo, la nozione di “legge” è qualitativa, perché nel sistema CEDU può essere “legge” solo la norma che ha particolari requisiti di qualità. Come affermato sempre nel caso Sunday Times, e ampiamente ripreso dalla giurisprudenza successiva, la “legge” deve essere adeguatamente accessibile ai cittadini, e formulata con precisione sufficiente da consentire al consociato di orientare la propria condotta, se necessario dopo aver ottenuto un parere qualificato (Silver e altri c. Regno Unito 1983).

Pertanto, il primo requisito imposto dalla CEDU affinché una limitazione al diritto di decidere come e quando morire sia convenzionalmente accettabile è che tale limitazione sia contemplata da una norma che - anche se di origine giurisprudenziale - rispetti i requisiti qualitativi di accessibilità e prevedibilità. In particolare, il secondo requisito impone che la norma limitativa del diritto sia formulata con sufficiente precisione e consenta al consociato di orientare la propria condotta.

 

3.2. Lo scopo legittimo, o il contrapposto interesse meritevole di bilanciamento

L’eventuale interferenza nel diritto di decidere come e quando morire, oltre ad essere “prevista dalla legge”, deve perseguire uno scopo legittimo.

Nel caso Pretty, la Corte di Strasburgo chiarì che la protezione del bene vita rientra nella nozione di “scopo legittimo” che può giustificare – insieme agli altri requisiti – un’interferenza nel diritto di decidere come e quando morire.

Nel caso Haas, la Corte precisò che “nell’esaminare una possibile violazione dell’articolo 8, è appropriato considerare l’articolo 2 della Convenzione, che pone a carico delle autorità un dovere di proteggere le persone vulnerabili anche contro proprie azioni che potrebbero mettere in pericolo la loro vita”.[19]

L’articolo 2 CEDU, infatti, impone agli Stati obbligazioni positive (o di facere),[20] all’interno delle quali la giurisprudenza include la protezione dei soggetti vulnerabili da sé stessi, mediante la prevenzione effettiva di atti auto-lesivi. Tale giurisprudenza si è sviluppata con riferimento a tentativi di suicidio commessi da detenuti[21] o da membri delle forze armate[22]: casi, cioè, di situazioni afflittive o di stress sotto il controllo delle autorità statali, dove l’individuo presenta una vulnerabilità che impedisce l’assunzione di una decisione informata e consapevole.

Orbene, la conclusione che si trae da questa giurisprudenza, e dal suo richiamo nei casi di suicidio assistito, è che il sistema CEDU consente limitazioni al diritto di decidere come e quando morire fondate sull’esigenza di tutelare il bene vita di soggetti il cui desiderio di morte non dipenda dalla libera formazione di una volontà sul punto.

Tale conclusione non è dissimile da quanto afferma la nostra Corte Costituzionale quando definisce l’incriminazione dell’istigazione e aiuto al suicido come “funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio”: C. Cost. ord. 207/2018, § 6 Considerato in Diritto).

 

3.3. La “necessità in una società democratica”, o proporzionalità rispetto al perseguimento dello scopo legittimo

L’eventuale interferenza nel diritto di decidere come e quando morire, prevista dalla legge e avente uno scopo legittimo, deve infine essere proporzionata al conseguimento di tale scopo.

Il requisito della proporzionalità richiede che l’ingerenza nel diritto corrisponda a una necessità sociale imperativa, e che sia operato un ragionevole bilanciamento tra il diritto che subisce la limitazione (nel nostro caso, il diritto di decidere come e quando morire), e lo scopo legittimo che tale limitazione persegue (nel nostro caso, la tutela della vita dei soggetti “deboli”).[23]

Nella valutazione di proporzionalità di un’interferenza, un elemento importante che la Corte di Strasburgo prende in considerazione è lo “spazio di manovra” entro il quale la garanzia del rispetto dei diritti CEDU è riservata alle autorità nazionali: il c.d. margine di apprezzamento. Il margine di apprezzamento è tendenzialmente ampio quando non vi è “omogeneità di vedute” sulla tutela degli interessi in gioco tra gli Stati Parte alla CEDU (mancanza del c.d. consenso europeo); ma si restringe quando viene in considerazione un aspetto particolarmente importante dell’identità della persona.

In termini pratici, ciò significa che il controllo di Strasburgo sulla proporzionalità di un’interferenza sarà più invasivo (e il corrispondente spazio di manovra degli Stati sarà ridotto) laddove il diritto in gioco coinvolga un aspetto importante dell’identità della persona (ad esempio, aspetti relativi all’identità sessuale, Dudgeon c. Regno Unito 1981, o alla scelta di divenire genitori biologici, Dickson c. Regno Unito (GC) 2007). Viceversa, il controllo di Strasburgo sarà meno invasivo, e gli Stati avranno un margine di manovra più ampio, laddove il diritto in gioco non goda di un consenso europeo circa le modalità della sua tutela (ad esempio, in materia di fecondazione eterologa in vitro, S.H. e altri c. Austria (GC) 2011).

Orbene, nel caso Pretty, la Corte di Strasburgo rigettò l’argomento della ricorrente secondo cui il margine di apprezzamento doveva essere particolarmente ristretto nel suo caso, in quanto coinvolgente un aspetto importante dell’identità della persona (Pretty § 71).

Tale conclusione è discutibile: come si può ragionevolmente negare che una scelta circa modalità e tempi della propria morte non sia un aspetto importante dell’identità della persona? È probabile che tale affermazione sia stata motivata dal desiderio di lasciare agli Stati un margine di apprezzamento ampio in una materia così delicata: ed infatti, nel successivo caso Haas la Corte riconobbe allo Stato un “considerevole margine di apprezzamento”, in ragione del fatto che “gli Stati parte del Consiglio d’Europa sono ben lontani dall’aver raggiunto un consenso circa il diritto individuale a decidere come e quando morire” (Haas § 55).

Pertanto, allo stato attuale, la Corte di Strasburgo riconosce agli Stati un ampio margine di apprezzamento nel regolamentare le limitazioni al suicidio assistito, in ragione dell’assenza di un consenso europeo sul punto.

Premessa l’ampiezza di tale margine, un elemento su cui la Corte EDU può fondare la valutazione di proporzionalità è quello dell’assolutezza, o meno, della restrizione al diritto convenzionale. Sovente, infatti, l’assolutezza di limitazioni a diritti convenzionali conduce la Corte di Strasburgo a riscontrare un’assenza di proporzionalità dell’interferenza in diritti relativi e, quindi, una violazione della norma invocata [24].

Orbene, nel caso Pretty la ricorrente fece valere proprio l’assolutezza della norma incriminatrice dell’aiuto al suicidio per motivare l’allegata violazione del suo diritto a decidere come e quando morire tutelato dall’articolo 8 CEDU. La norma incriminatrice inglese - similmente a quella italiana nella versione antecedente la declaratoria di incostituzionalità - non faceva alcuna distinzione tra incitamento e aiuto al suicidio, né consentiva eccezioni “caritatevoli”. Tuttavia, la CtEDU rimarcò come nella prassi del Regno Unito fosse garantita una certa flessibilità al carattere formalmente assoluto del divieto di aiuto al suicidio: il sistema non si fonda sull’obbligatorietà dell’azione penale, e non sono previsti minimi edittali - pertanto, sui ventidue casi di “eutanasia” portati all’attenzione delle corti inglesi nei dieci anni precedenti il caso Pretty, in uno solo si era giunti a una condanna all’ergastolo per omicidio, mentre in tutti gli altri casi le condanne erano state a pene ridotte e sospese. La Corte di Strasburgo concluse, dunque, per una non violazione dell’articolo 8 CEDU, poiché lo Stato, nel limitare il diritto di decidere come e quando morire, non aveva agito in modo sproporzionato.

 

4. Le obbligazioni positive derivanti dal diritto a decidere come e quando morire

Come l’articolo 2, anche l’articolo 8 CEDU impone allo Stato obbligazioni di tipo “positivo” o di facere, quali l’adozione di legislazione e la predisposizione di un sistema di enforcement idonei a garantire il rispetto in pratica di quei diritti che l’articolo 8 tutela (X e Y c. Paesi Bassi 1985).

Come affermato dalla CtEDU sin dal caso Keegan c. Irlanda, “i confini tra le obbligazioni positive e negative dello Stato (…) non si prestano a precisa definizione. I principi applicabili sono, comunque, simili. In entrambi i casi bisogna avere riguardo al giusto equilibrio che deve essere raggiunto tra i contrapposti interessi dell’individuo e della comunità; e in entrambi i casi lo Stato gode di un certo margine di apprezzamento”.

Pertanto, quando ricorre un’obbligazione positiva dello Stato in materia di “diritto a decidere come e quando morire”, la sussistenza di una violazione di tale obbligazione dipende dal mancato rispetto, da parte dello Stato, di un giusto equilibro tra interessi contrapposti (nel nostro caso, tra diritto a decidere come e quando morire e tutela della vita dei soggetti vulnerabili), all’interno del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati in materia (nel caso di assistenza suicidio, ritenuto dalla Corte EDU particolarmente ampio).

Nella sentenza sul caso Haas c. Svizzera (che, come descritto in precedenza, riguardava l’impossibilità per un malato di mente di ottenere assistenza medica al suicido), la Corte sottolineò che il ricorrente non stava cercando tutela contro interferenze dell’autorità nel proprio diritto a decidere come e quando morire (obbligazione negativa): egli invocava una obbligazione (positiva) dello Stato a “mettere in atto le necessarie misure per consentire un suicidio dignitoso”.[25] In sostanza, il sig. Haas chiedeva allo Stato di supportare attivamente il desiderio di porre fine ai propri giorni in modo dignitoso, prestandogli l’assistenza medica necessaria per procedere al desiderato suicidio.

Orbene la Corte, pur evitando di pronunciarsi sull’esistenza di un’obbligazione positiva di “adottare misure che facilitino un suicidio degno”, esaminò comunque il merito della questione, andando a verificare se nel caso concreto tale obbligazione fosse stata rispettata.

Ricordata la necessità di riconoscere allo Stato un ampio margine di apprezzamento in ragione dell’assenza di consenso europeo, e sottolineata la necessità di bilanciare l’(eventuale) obbligazione positiva con gli obblighi derivanti dall’articolo 2 CEDU relativi alla tutela della vita delle persone più deboli, la Corte concluse che lo Stato svizzero, imponendo alla pratica del suicidio assistito le limitazioni previste dalla legge e dalle direttive medico-etiche, aveva operato un bilanciamento di interessi non irragionevole e comunque non eccedente l’ampio margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati sul punto.

Anche il caso Gross c. Svizzera poneva un problema di obbligazioni positive: come si ricorderà, il caso riguardava un’anziana signora che desiderava ottenere assistenza medica al suicidio nonostante non fosse affetta da alcuna malattia particolare. Nella prima sentenza, la CtEDU dichiarò che la questione sollevata dal ricorso era se lo Stato svizzero avesse rispettato l’obbligazione (positiva) di fornire “sufficienti linee guida che identifichino se - e in quali circostanze - i medici siano autorizzati ad emettere una prescrizione a favore di persona che si trovi nelle condizioni della ricorrente”. [26]

A maggioranza di quattro voti contro tre, la Corte concluse che tale obbligazione non era stata rispettata, perché il diritto svizzero, pur prevedendo la possibilità di ottenere la prescrizione medica di una sostanza letale, non forniva sufficienti linee guida per chiarire l’estensione di tale diritto, in particolare perché i suoi contorni sono definiti dalle direttive medico-etiche che non hanno qualità di legge e non prendono in considerazione il caso di pazienti non affetti da malattia.

Questa conclusione, seppur discutibile sotto alcuni aspetti, e priva di rilevanza giuridica in virtù della pronuncia di Grande Camera del 2014, è comunque interessante in quanto testimonia l’interesse della Corte di Strasburgo, anche nel campo delle obbligazioni positive, per l’esistenza di un quadro normativo che consenta ai consociati di conoscere l’estensione dei propri diritti – nel caso concreto, del diritto di decidere come e quando morire.

 

5. Conclusioni

La giurisprudenza CEDU in materia di suicidio assistito è ancora scarna, e certamente destinata ad evolvere: tuttavia, possono già individuarsi alcuni punti fermi, che l’ordinamento italiano non potrà ignorare quando si troverà a dover dare risposta alle (numerose) questioni irrisolte in materia di suicidio assistito. In particolare, dalla giurisprudenza di Strasburgo emerge quanto segue.

Esiste un diritto a decidere come e quando morire, se ricorre la capacità di raggiungere liberamente una decisione sul punto ed agire di conseguenza. Tale diritto è tutelato dall’articolo 8 CEDU in quanto espressione della “vita privata” dell’individuo. Il diritto in questione non è assoluto, potendo essere bilanciato con interessi contrastanti che costituiscano uno “scopo legittimo”. Tra tali interessi si annovera la tutela di soggetti vulnerabili, che non possono assumere una decisione libera e consapevole in merito ad atti di disposizione della propria vita.

Per non essere in contrasto con la CEDU, una limitazione del diritto a decidere come e quando morire, oltre a perseguire uno scopo legittimo, deve altresì avere una base legale ed essere proporzionata allo scopo. Il requisito della base legale impone una regolamentazione – anche di origine giurisprudenziale - sufficientemente precisa per consentire al consociato di orientare la propria condotta. Il requisito della proporzionalità impone che la limitazione del diritto a decidere come e quando morire sia ragionevolmente bilanciata in funzione del perseguimento dello scopo legittimo. Tale ragionevolezza sarà valutata tenendo in considerazione l’esistenza di un (ampio) margine di apprezzamento dello Stato. Allo stesso tempo, elementi quale l’assolutezza della restrizione sono indicativi di un’assenza di ragionevolezza.

Dal diritto di decidere come e quando morire possono derivare, in capo allo Stato, obbligazioni positive, ovvero obblighi di intervento attivo a tutela di tale diritto. Non è, allo stato, possibile estrarre dalla giurisprudenza di Strasburgo un contenuto preciso per tali obblighi di intervento. Ad ogni modo, qualora essi ricorrano, i principi applicabili saranno gli stessi che si impongono per le obbligazioni negative: la necessità di rispettare un giusto equilibro tra interessi contrapposti, all’interno del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati in materia.

Alla luce di queste conclusioni, è possibile svolgere alcune considerazioni sullo “stato dell’arte” dell’ordinamento italiano.

Nel nostro ordinamento, non vi è riconoscimento espresso del “diritto a decidere come e quando morire”: tuttavia l’articolo 580 c.p., nella lettura impostane dalla Corte Costituzionale, individua i limiti imposti a tale diritto (similmente all’articolo 2 del Suicide Act nel caso Pretty).

Posto, infatti, che tale diritto esiste perché esso è imposto dalla CEDU - parte integrante del nostro ordinamento costituzionale - quando una persona voglia godere di tale diritto, si troverà confrontata con i limiti entro i quali può legittimamente ottenere assistenza al suicidio.

Tra questi limiti, ve ne sono almeno due che attirano l’attenzione in quanto fonte potenziale di problemi in ottica CEDU: il limite della “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale”, e quello della “verifica delle condizioni e modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale”.

La “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale”, come autorevolmente sottolineato, è requisito mutuato dal diverso contesto della sospensione dei trattamenti (eutanasia passiva), il cui utilizzo nel contesto dell’assistenza al suicidio appare irragionevole.[27] Tale irragionevolezza rende il requisito facile fonte di divergenze interpretative, come si deduce, del resto, dal fatto che nel caso Trentini si è già posto il problema della sua estensibilità ai casi di “mera” dipendenza farmacologica. Non è dunque escluso - ed anzi, è probabile – che tale limite si presti a interpretazioni divergenti da parte delle corti di merito, in ragione della molteplicità di casi dissimili dal caso Fabiani, ma altrettanto meritevoli di tutela, nonché della diversa sensibilità dei giudicanti nei confronti di questo problema.

Orbene, lo sviluppo di interpretazioni difformi sulla ricorrenza del requisito di “dipendenza da trattamenti di sostengo vitale” determinerebbe l’assenza di prevedibilità di una delle limitazioni imposte dall’ordinamento italiano al diritto di decidere come e quando morire. Verrebbe così a mancare un quadro normativo chiaro che consenta ai consociati di conoscere l’estensione del proprio diritto di decidere come e quando morire, ovvero la “base legale” per l’interferenza dello Stato nel diritto tutelato dall’art. 8 CEDU.

Per quanto riguarda, poi, il limite rappresentato dalla necessità di ottenere una “verifica delle condizioni e modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale”, esso è fonte di potenziali problemi in termini di obbligazioni positive.

Non è, infatti, da escludere che la “verifica delle condizioni e modalità di esecuzione” dell’assistenza a suicidio da parte del servizio sanitario nazionale sia, in pratica, impossibile da ottenere, in assenza di un obbligo legislativo imposto in tal senso al servizio sanitario.

Se questa eventualità si verificasse, la possibilità di ottenere legittima assistenza al suicidio sarebbe vanificata, concretandosi così una violazione di obbligazioni positive, perché lo Stato non garantirebbe tutela effettiva al diritto di decidere come e quando morire, non consentendo il verificarsi delle condizioni che esso stesso impone quale presupposto per ottenere il godimento di tale diritto.

Pertanto, le indicazioni che si possono trarre dalla giurisprudenza CEDU in materia di suicidio assistito riguardano la necessità di garantire: a) un’applicazione prevedibile dei requisiti limitativi del diritto a decidere come e quando morire, individuati dall’articolo 580 c.p. nella rilettura offerta dalla Corte Costituzionale; b) l’effettiva verificabilità delle condizioni richieste per il godimento di tale diritto.

Per garantire tali risultati e conformarsi agli standard imposti dalla CEDU, la migliore soluzione sarebbe senz’altro quella di un intervento legislativo sul tema che riconosca infine il “diritto a decidere come e quando morire” e ne delinei chiaramente i limiti, rendendo nella pratica possibile il suo godimento. Nell’attesa di tale intervento, grava rispettivamente sulle corti di merito e sul servizio sanitario nazionale il compito di agire nel rispetto dei parametri imposti dalla CEDU.

 

[1] W Glannon, Biomedical Ethics (OUP 2005) 129.

[2] Penney Lewis, Assisted Dying and Legal Change, OUP, 2007 p. 5. Contro l’utilizzo del termine eutanasia passiva per la sospensione dei trattamenti vitali : C. Lantero, Euthanasie et suicide assisté, in Journal international de bioéthique et d’éthique des sciences, 2015, vol. 26, p. 232

[3] L’eutanasia attiva è “l’intenzionale interruzione della vita posta in essere da terzi a richiesta dell’interessato”, secondo l’articolo 2 della legge belga sull’eutanasia del 2002, richiamata in Yann Joly e Bartha Maria Knoppers (Eds), Routledge Handbook of Medical Law and Ethics, Abingdon [England] : Routledge, 2016, p. 120.

[4] Si rammenta la definizione fornita dalla legge olandese del 2002: “Nel caso di eutanasia, il dottore amministra il farmaco eutanasico; nel caso di assistenza al suicidio, il dottore fornisce il farmaco, che il paziente assume” (Regional Review Committes, 2005 Annual Report, p. 5, citato in Stéphanie Hennette-Vauchez, Droits des patients et pouvoir médical – Quel paradigme dominant dans la juridicisation de la fin de vie?, in Jean-Manuel Larralde (Ed), La libre disposition de son corps, Bruxelles Bruylant 2009, p. 182 sub 20)

[5] Ci si riferisce, ovviamente, alle pronunce e Contenuto e portata di tali pronunce sono state oggetto di vasta attenzione in dottrina. Senza alcuna pretesa di completezza, si segnalano ad esempio i seguenti contributi: M. Donini, Libera nos a malo. I diritti di disporre della propria vita per la neutralizzazione del male ; M. Romano, Aiuto al suicidio, rifiuto o rinuncia a trattamenti sanitari, eutanasia (sulle recenti pronunce della corte costituzionale)F. Cerquozzi, Caso Cappato, la sentenza Corte costituzionale 242 del 2019 sulla punibilità dell’aiuto al suicidio ed il diritto all’autodeterminazione terapeutica, e dottrina ivi citata

[6] Si vedano le considerazioni svolte sul tema da M. Romano, cit., p. 7 e M. Donini, cit. pp. 13 e ss.

[7] Alla data del presente contributo le motivazioni della sentenza della Corte d’Appello di Genova non sono ancora state depositate, ma è stato annunciato l’esito assolutorio per gli imputati Cappato e Welby: F. Gallo, Fine vita: nel silenzio della politica, parola ai cittadini

[8] Non si esaminerà in questa sede il tema dell’eutanasia attiva, sul quale la Corte di Strasburgo non ha ancora avuto modo di pronunciarsi (nel 2018 è stato comunicato un caso in materia - Mortier c. Belgio - ma nessuna decisione è stata presa al momento della stesura del presente contributo). Non si esaminerà nemmeno il tema dell’eutanasia passiva, ed in particolare la giurisprudenza - sviluppata a partire dalla nota pronuncia Lambert c. Francia - sulla sospensione dei trattamenti vitali, che per la sua ampiezza merita un’analisi autonoma in diverso contributo.

[9] I casi Sanles c. Spagna 2000 e Ada Rossi e altri c. Italia 2008 non sono presi in considerazione, in quanto rigettati dalla Corte per irricevibilità, senza entrare nel merito della questione: i ricorrenti non avevano, infatti, la qualità di “vittima” dell’allegata violazione CEDU.

[10] La decisione è stata oggetto di molti commenti in dottrina, tra cui si rammenta: D. Rietiker, From Prevention to Facilitation? Suicide in the Jurisprudence of the ECtHR in the Light of the Recent Haas v Switzerland judgment, Harvard Human Rights Journal, 2012, vol 25, pp. 115 ff., e la dottrina richiamata sub n. 230; G. Puppinck, C. de La Hougue, The Right to Assisted Suicide in the Case Law of the European Court of Human Rights, International Journal of Human Rights, 2014, vol. 18, p. 738

[11] Pretty § 39

[12] Pretty § 67

[13] X e Y c. Paesi Bassi, sentenza 26 marzo 1985, Series A no. 91, p. 11, § 22, e, più di recente: Niemietz c. Germania, 16 dicembre 1992, § 29, Series A no. 251‑B; Peck c, Regno Unito, no. 44647/98, § 57, ECHR 2003‑I.

[14] X e Y c. Paesi Bassi, cit.

[15] Laskey, Jaggard e Brown c. Regno Unito, 19 febbraio 1997, §§ 35‑36, Reports 1997‑I; K.A. e A.D. c. Belgio, no. 42758/98 e 45558/99, §§ 78 e 83, 17 febbraio 2005.

[16] Acmanne e altri c. Belgio, no. 10435/83, Commission decision 10 dicembre 1984, DR 40, p. 251; Glass c. Regno Unito, no. 61827/00, §§ 82‑83, ECHR 2004‑II; Storck c. Germania, no. 61603/00, §§ 143‑44, ECHR 2005‑V; Jehovah’s Witnesses of Moscow c. Russia, no. 302/02, § 135, ECHR 2010; Shopov c. Bulgaria, no. 11373/04, § 41, 2 settembre 2010.

[17] Pretty § 62

[18] Haas, cit., § 51.

[19] Haas, cit., § 54.

[20] Quali la criminalizzazione effettiva di condotte lesive del bene vita (X. & Y. c. Paesi Bassi (1985) Series A no 91) e obblighi di protezione individuale in caso di rischio acclarato per la vita (Osman c. Regno Unito, 28 ottobre 1998, Reports 1998-VIII, p. 3159, § 115; Kılıç c. Turchia, no. 22492/93, §§ 62 and 76, ECHR 2000-III.) Sulle obbligazioni positive nella CEDU vedasi: A Mowbray, The Development Of Positive Obligations Under The European Convention On Human Rights, Oxford, Hart 2004; J.F. Akandij-Kombe, Positive Obligations under the European Convention on Human Rights: a Guide to Implementation of the European Convention on Human Rights, Council of Europe, Human Rights Handbooks, Ser. 7, 2007.

[21] Keenan c. Regno Unito, no. 27229/95, § 91, ECHR 2001‑III; Trubnikov c. Russia, no. 49790/99, § 78, 5 July 2005; Renolde c. Francia, no. 5608/05, §§ 86-100, ECHR 2008; Ketreb c. Francia, no. 38447/09, § 71, 19 luglio 2012

[22] Kılınç e altri c. Turchia, no. 40145/98, 7 giugno 2005, Ataman c. Turchia, no. 46252/99, 27 aprile 2006; Gündüz e altri c. Turchia, no. 4611/05, 11 aprile 2011

[23] Per un’analisi generale della proporzionalità vedasi: G. Scaccia, Proporzionalità e bilanciamento tra diritti nella giurisprudenza della Corti Europee, Rivista AIC, n. 3/2017  

[24] A titolo di esempio, si consideri la natura assoluta della perdita del diritto di voto in seguito a condanna penale esaminata in Hirst c. Regno Unito (no. 2) [GC], no. 74025/01, ECHR 2005‑IX.

[25] Haas, cit., § 53.

[26] Gross, cit., § 63.

[27] M. Donini, cit., pp. 15-16