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Dopo la vittoria del “si”: la partita delle riforme

sistema elettorale
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Indice:

Abstract

1. La riforma del sistema elettorale

2. I progetti di revisione costituzionale

3. Le modifiche dei regolamenti parlamentari

4. Quale futuro per il Parlamento?
 

1. La riforma in materia elettorale

La netta approvazione referendaria della riforma costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari pone il tema dell’approvazione di quelle che nella campagna referendaria sono state definite “integrazioni” (dai sostenitori del SI) o “correzioni” (da quelli del NO) costituzionali. La questione sull’istituzione Parlamento è stata aperta e bisogna fare grande attenzione a che i necessari adeguamenti non prendano una strada sbagliata, stravolgendo sostanzialmente il sistema della rappresentanza.

Il cambiamento del sistema elettorale è il contrappeso più importante alla riduzione del numero dei parlamentari, al fine di evitare gli effetti abnormi sulla rappresentatività politica e territoriale che sarebbero prodotti dal sistema elettorale vigente. Questo va quindi accantonato e di conseguenza va superata la legge n. 51 del 2019 che mirava a rendere applicabile l’attuale legge elettorale (Rosatellum) a un Parlamento numericamente più ridotto, sostituendo al numero fisso di collegi uninominali della Camera e del Senato, un rapporto numerico, ossia i tre ottavi del totale dei seggi da eleggere nelle circoscrizioni elettorali.

L’accordo concluso tra i Capigruppo della maggioranza prevede una legge elettorale che garantisca «più efficacemente il pluralismo politico e territoriale, la parità di genere e il rigoroso rispetto dei principi della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia elettorale e di tutela delle minoranze linguistiche». Di conseguenza viene escluso sia il ricorso a sistemi maggioritari (dannosi per i partiti minori), a un turno o a due turni, sia l’adozione di sistemi misti o fondati su un premio di maggioranza come quelli sperimentati dal 1993 in poi.

Infatti i suddetti sistemi non hanno ridotto la frammentazione politica e l’instabilità dell’azione di Governo, promuovendo (necessariamente) coalizioni (per superare la soglia di sbarramento) coattive ed eterogenee e quindi attraversate da una forte conflittualità interna e non adatte a governare. Ciò dovrebbe consigliare l’abbandono della retorica della scelta del Governo da parte degli elettori e della sua formazione la sera stessa del voto.

Infatti in una forma di governo parlamentare l’indicazione (ma non l’elezione) di un Governo in sede elettorale è possibile con sistemi politici bipartitici o fondati su due coalizioni omogenee. Ma ciò si può supporre, dal momento che con la crisi dei partiti il modello Westminister[1] è recessivo in Europa continentale.

Alla luce di tale situazione è stata presentata lo scorso gennaio, una proposta di legge in materia elettorale, che prevede un sistema proporzionale per liste concorrenti in circoscrizioni plurinominali con la soppressione dei collegi uninominali e della possibilità per le liste di dare vita a una coalizione. Un punto critico riguarda, tuttavia, la riproposizione delle liste bloccate, che è stata una costante delle leggi elettorali dal 1993 in poi e dichiarata incostituzionale dalla Consulta con riferimento alla legge n. 270 del 2005 (Porcellum).

Ne deriva che la libertà dell’elettore verrebbe ad essere sacrificata per tutti i candidati e si perpetuerebbe così una situazione nella quale sono i vertici o direttamente il leader del partito a scegliere i candidati, collocando in una posizione più sicura quelli fedeli alla propria linea, o sono il frutto di una scelta, spesso casuale, di ristretti gruppi di militanti. Ciò va a scapito della qualità della rappresentanza, costituendo uno dei fattori che in passato hanno più contribuito ad accentuare il distacco tra elettori ed eletti.

Infine, un altro aspetto critico riguarda la previsione delle candidature in più collegi uninominali (fino a un massimo di cinque), che possono essere utilizzate non solo per garantire l’elezione dei dirigenti di partito, ma di chiunque sia gradito al leader di turno. Sarebbe quindi meglio escluderle, come avviene in Germania e in Spagna.

 

2. I progetti di revisione costituzionale

Le revisioni costituzionali collegate alla riduzione del numero dei parlamentari e che, come si è detto, sarebbe stato meglio seguissero un percorso almeno in parte parallelo, sono tre.

La prima propone la modifica dell’articolo 58 Costituzione con l’equiparazione dell’elettorato attivo e passivo per l’elezione del Senato a quelli previsti per la Camera. Varie sono le ragioni che giustificano la riforma che derivano dalla natura paritaria del bicameralismo: la necessità di rispettare il principio di eguaglianza del voto per Camere che esercitano le stesse funzioni.

La conseguenza della riforma sarebbe quella di cancellare una delle poche differenze ancora rimaste di quelle previste in origine nella Costituzione e quindi di dare vita ad un sistema bicamerale “perfettissimo” o ad un monocameralismo di fatto, riaprendo, forse, il dibattito su una differenziazione delle funzioni tra le due Camere o sull’opzione più drastica del ricorso al monocameralismo con l’introduzione di un solido statuto delle opposizioni.

Le altre due riforme costituzionali riguardano l’articolo 57, comma 1 della Costituzione, con la sostituzione della base «circoscrizionale» a quella «regionale» prevista per l’elezione del Senato, e dell’articolo 83, comma 2 della Costituzione, con una riduzione da tre a due dei delegati regionali che partecipano all’elezione del Presidente della Repubblica.

Nella relazione alla proposta di legge la previsione della base circoscrizionale per l’elezione del Senato viene motivata sia dall’ampiezza abnorme dei collegi uninominali senatoriali sia dalla forte disparità tra le Regioni nel rapporto tra seggi e popolazione media, che si avrebbero «in assenza di ulteriori interventi legislativi e costituzionali».

Altrimenti detto, poiché con la riduzione del numero dei parlamentari «il sistema elettorale creerà un maggiore implicito effetto selettivo a causa delle circoscrizioni definite sulla base del territorio regionale, si ritiene preferibile eliminare questo vincolo, affinché il legislatore possa ridefinire le circoscrizioni con maggiore elasticità».

La diminuzione di un terzo del numero dei delegati regionali, da 58 a 39 (il 6,10% del collegio presidenziale fermo restando l’unico attribuito alla Valle d’Aosta) prevista per l’elezione del Presidente della Repubblica deriva dall’esigenza di evitare che il peso politico della componente regionale nel collegio dei “Grandi elettori” diventi più forte, passando dall’attuale 5,8% all’8,7%.

A fronte delle modifiche proposte, i Consigli regionali dovrebbero indicare un esponente della maggioranza e uno della minoranza (e noi più due della maggioranza e uno della minoranza), provocando l’ovvio rischio di sovra-rappresentanza delle minoranze stesse.

Tale preoccupazione può, tuttavia, essere attenuata dalla considerazione che maggioranze e minoranze sono variabili nelle diverse Regioni e dalla constatazione che i delegati regionali più che rappresentare i territori locali si adeguerebbero alle direttive di partito.

 

3. Le modifiche dei regolamenti parlamentari

Con la riduzione del numero dei deputati e dei senatori diventerebbe indispensabile la modificazione dei regolamenti parlamentari.

L’intervento riguarderebbe la ridefinizione di tutti i quorum previsti dai regolamenti per ciascuna votazione e la formazione e strutturazione delle Commissioni permanenti e dei Gruppi parlamentari (la cui disciplina è stata resa più rigorosa dal Regolamento del Senato in materia di mobilità).

Coerentemente alla riduzione dei parlamentari si dovrebbe procedere alla riduzione del numero minimo richiesto per i Gruppi parlamentari (attualmente di venti deputati e dieci senatori).

La modifica più delicata riguarda la costituzione delle Commissioni permanenti, il cuore dell’attività legislativa. L’attuale numero delle Commissioni (14 sia alla Camera che al Senato) pone vari problemi. Il primo è quello del bilanciamento tra principio della rappresentanza proporzionale previsto dall’articolo 72, comma 3[2] della Costituzione, e rappresentatività delle minoranze.

Mentre al Senato il nuovo articolo 21, comma 2 del Regolamento prevede che uno stesso senatore possa essere assegnato a tre Commissioni permanenti, cosicché la riduzione dei numeri parlamentari non comprometterà, potenzialmente, la presenza delle minoranze nelle Commissioni, alla Camera i deputati non possono essere designati, secondo il rispettivo Regolamento, per più di una Commissione, verificandosi così il rischio che le minoranze non possano partecipare a tutte le Commissioni permanenti, espletando le loro funzioni di caratteri ispettivo e di controllo. È evidente che la riduzione del numero dei senatori, e di quelli necessari per costituire un Gruppo renderebbe problematico il bilanciamento tra proporzionalità e rappresentatività.

Per il Senato, invece, il problema consiste nell’effetto abnorme che si produrrebbe per le Commissioni in sede deliberante[3] che con i numeri attuali potrebbe consentire a un numero esiguo di componenti di approvare una legge. Ciò sarebbe tanto più negativo dopo che la riforma del Regolamento del Senato ha stabilito che «I disegni di legge sono di regola assegnati in sede deliberante…o in sede redigente» (articolo 34, comma 1-bis).

Sarebbe, quindi, necessaria la riduzione del numero delle Commissioni mediante un accorpamento per materie affini, nonché cancellare la disposizione regolamentare del Senato che privilegia le Commissioni deliberanti, trasformando in regola quella che dovrebbe essere un’eccezione rispetto al procedimento legislativo normale previsto dall’articolo 72 della Costituzione.

Una revisione ai regolamenti andrebbe fatta anche in materia di strumenti antiostruzionistici riconosciuti alla maggioranza come il cd. “supercanguro”, consistente nella presentazione di un emendamento premissivo al primo articolo del progetto di legge che, nel riassumerne i contenuti essenziali, produce la decadenza della grande maggioranza degli emendamenti. O alla possibilità riconosciuta al Governo di porre la questione di fiducia (che prevede il voto per appello nominale) sulla legge elettorale alla Camera nonostante la previsione dell’articolo 49 del regolamento interno che su tale materia possa essere imposto il voto segreto su richiesta della opposizione.

La conseguenza è stata la compressione del dialogo tra maggioranza e opposizione dovuta a istituti maggioritari previsti nei regolamenti e alla riduzione della discussione (cd. contingentamento dei tempi). Ciò ha contribuito ad una subordinazione del Parlamento accentuata dall’uso abnorme da parte del Governo del ricorso alla decretazione di urgenza e alla questione di fiducia.

 

4. Quale futuro per il Parlamento?

In definitiva la revisione che riduce il numero dei parlamentari, al di là della sua approvazione o meno da parte del corpo elettorale, pone il problema del futuro della rappresentanza. Negli ultimi decenni in Italia si è avuto un ridimensionamento drastico del ruolo del Parlamento divenuto sempre più organo di mera ratifica della volontà del Governo.

Non è un caso: la crisi verticale dei partiti come corpi collettivi e la propaganda sulla “governabilità” come valore supremo che deve far premio sulla rappresentanza e sulla necessità dell’elezione popolare del Governo hanno suscitato l’idea che il Parlamento sia un organo inutile del quale in futuro si possa fare a meno.

Un’altra strada è possibile: quella della ricostruzione di un ruolo significativo di indirizzo politico e di controllo del Parlamento e quindi della ricostruzione di un equilibrio tra i poteri; una forma di governo parlamentare più razionalizzata.

Sotto questo punto di vista, è necessario che la riduzione del numero dei parlamentari venga accompagnata da riforme importanti di riequilibrio mentre sarà peggio se vedrà l’approvazione di riforme regressive, come quella presidenzialista. Certo, si tratta di una prospettiva non scontata e neppure facile, ma per la quale deve spendersi chi ha a cuore la sorte del Parlamento e con esso della democrazia costituzionale tout court.

 

[1] È il modello più significativo di sistema politico maggioritario e consiste in una forma di monocameralismo di fatto, governato da due soli partiti che si alternano alla guida dell'esecutivo.

[2] “[…] l’esame e l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti a commissioni, anche permanenti, composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari.”

[3] Quando una Commissione parlamentare è riunita in sede deliberante vuol dire che il dibattito e l’approvazione di un determinato disegno di legge esclude la necessità di coinvolgere l’Aula assembleare.