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Filippo De Pisis

Filippo De Pisis
Filippo De Pisis

Quello che sarà il pittore più libero, estroso, addirittura disordinato, del nostro ‘900, inizia giovanissimo la propria attività nel campo metodico e rigoroso della scienza, come entomologo e naturalista in genere.

de Pisis
Filippo De Pisis

Poi prenderà la laurea in lettere all’Università di Bologna con una tesi sul Pascoli e inizierà a fare l’insegnante di scuola media e licei, scontato itinerario per chi, come il nostro, pensa a una carriera di scrittore. Ma le muse hanno predisposto diversamente, e se pure De Pisis continuerà nel tempo a proclamarsi scrittore: < Ohimè, io so di essere soprattutto uno scrittore, e allora di tanto in tanto” ritempro la penna...”> la pittura guadagnerà presto un suo spazio che sarà quasi esclusivo, almeno nell’ordine della notorietà. Il caso, che spesso sembra sapientemente guidato, conduce a Ferrara, e proprio davanti alla casa di De Pisis, prima i due fratelli De Chirico, poi Carlo Carrà e perfino, di passaggio, il già ben noto e stimato Ardengo Soffici.                

Di De Pisis, Soffici aveva avuto notizie contrastanti da De Chirico: < De Chirico mi aveva scritto variamente di lui, che era un “fesso”, che era “un essere strano: ottuso e sensibile, ardente e oscuro”, che era “un giovane intelligente”, per concludere al fine che lo stesso aveva scritto “una cosa buona tutta piena della nuova metafisica” (De Pisis era allora soltanto scrittore) e che io dovevo “amarlo e stimarlo perché se lo meritava”>. Il giudizio negativo, e assieme l’invito alla stima, espressi da De Chirico, sono comprensibili se pensiamo all’effetto che doveva produrre, su chi lo incontrava, questa specie di enfant prodige saputello e petulante, che acchiappa farfalle e raccoglie erbari, veste in maniera stravagante, eppur mostra cultura e una notevole sensibilità.

Natura morta

Natura morta

Per il giovanetto versatile, estetizzante, genietto precocissimo che si diletta anche di pittura, la compagnia offerta dal caso si dimostrerà decisiva per la scelta nei tempi lunghi mentre, per ora, le resistenze dello scrittore continuano a fargli vedere la pittura come un diversivo, un altro campo dove esercitare la sua poliedrica intelligenza e abilità manuale.  

Gli acquerelli di De Pisis del 1916, che è l’anno dei suoi incontri, spesso definiti collages per un paio di striscioline estranee appiccicate sopra, risultano esercitazioni discontinue, oscillanti tra un geometrico composito e l’insieme di elementi eterogenei, un po’ astrusi come vuole la regola del tempo.

Anche la natura morta L’ora fatale, ma siamo già al 1919, non va oltre il modesto omaggio a De Chirico, mentre nello stesso anno, la Natura morta accidentale rivela già un dato che caratterizzerà la futura pittura di De Pisis, quella ricerca di effetti immediati e squillanti che, nel caso, si riferiscono al vetro della bottiglia, con gli sprazzi di luce viva ottenuti con tocchi di biacca a rilievo che in seguito saranno struggenti punti focali disseminati nel quadro.

Così, la pittura a poco a poco lo conquista, e suo malgrado se ancora nel 1922 invia a Soffici un romanzo vagamente autobiografico, <Il signor Luigi B.> con questa dedica: < Il povero autore vorrebbe che Ardengo Soffici leggesse con cura questo libretto e lo vendicasse, della sciatta stampa e della imbecillità dei critici>.

Fin dai suoi inizi, si tratti di paesaggi o nature morte, De Pisis non ha scrupoli, nell’annettersi soggetti e moduli compositivi, appartenuti ad autori del passato, essendo in grado di farli suoi prepotentemente. Una natura morta posata su una spiaggia, o in un interno che degrada nel paesaggio, il piano di un tavolo colmo di frutta e verdura sul quale viene ad appoggiarsi la trasparenza del cielo o una striscia irregolare di mare; quando non addirittura due porri, uno sdraiato e l’altro appoggiato a un mobile-cabina, come fossero agavi giganti su una spiaggia sconfinata. Realtà e fantasia che si scambiano spesso i ruoli in queste improvvisazioni dall’emozione profonda.

Natura morta accidentale

Natura morta accidentale

De Pisis ha la necessità di iniziare e finire presto la propria opera, è come se avesse un’ispirazione breve e violenta che gl’impone di afferrare, decrittare e sublimare il soggetto nello spazio di poche ore. Si avverte che possiede il dono di una grande velocità esecutiva, in questo simile al suo concittadino Boldini il quale, però, solo raramente lascia come quadro compiuto il primo prorompente impeto creativo (questione di carattere e di gusto del tempo). Ma entrambi hanno questa caratteristica unita al gusto per l’effetto, il brillio, il luccichio insistito e qualche volta la stessa soluzione di far convergere disegno e colore a un effetto trompe-l’oeil, rivelatore di una sensualità acutissima, seppure di segno opposto, che trae godimento dal valore tattile, plastico e magari guizzante di un oggetto.

Questo di De Pisis è un mondo di dichiarata e perfino ostentata intimità; sembra che non desideri altro che di esternare la dolcezza della propria solitudine, che spesso è immensa. La tela diviene per lui una spalla amica sulla quale sfogare il perenne alternarsi dell’ebbrezza allo sconforto, oscillazioni che diverranno nel tempo un solo balbettio fatto di piccoli tocchi di colore, quasi monocromo, che lasciano la tela pressoché scoperta, come parola di un discorso fatto a chi già ne conosce il contenuto-confessione: <In me c’è la russa isterica, il sensuale arrabbiato, l’animale, l’angelo, l’apatico, il fervente, il mistico, lo scettico, il pessimista, l’entusiasta, il vecchio antiquario, la beghina, la normalista, l’accattone, la demi vierge>.

Per rintracciare maestri, provenienze e affinità nella pittura di De Pisis, possiamo scomodare i grandi veneti, Delacroix, l’impressionismo e il postimpressionismo, ma al fondo resta sempre lui, il solitario lirico, con la sua raccolta di tanti preziosi frammenti d’eternità, legati dal filo sottile e sottilissimo dello stile.

Il suo lavoro pittorico è un vivere alla giornata, quadro dopo quadro, senza programmi o traguardi da raggiungere. Si ritrova l’animo colmo di poesia e deve convenire che la tela raccoglie meglio del foglio di carta l’irruenza disordinata della propria necessità espressiva.

Nei suoi quadri, certi angoli di Parigi, con le case dai toni plumbei e profilate in nero, scorci di piazze con l’arcata bianca di un ponte e la sagoma nera di un monumento equestre stagliata contro il verde tenero degli alberi, sono poemi di classica compostezza. Così come i fiori, che vengono rappresentati come un tripudio di forme sminuzzate e leggere nella gioia del colore mattinale, e qualche volta, un fiore, come nel Gladiolo fulminato, si fa carne palpitante di una vita effimera in una forma conclusa di bellezza.       

Nella natura morta è il letterato che riemerge e sceglie gli oggetti delle proprie manie, ce ne fornisce l’inventario il suo amico e corrispondente Demetrio Bonuglia: <Clessidre, scatole, vecchi compassi, occhiali, pezzi di scavo, conchiglie, cuori di cera, ecc. trovate dai rigattieri>. Qualche volta, la struggente malinconia e il sapore crepuscolare dei vecchi oggetti, viene sostituita da un solo pezzo imponente, si pensi alla Grande conchiglia, monumento giottesco innalzato a un Dio ignoto.

La grande conchiglia

La grande conchiglia

Accanto ai De Chirico, a Carrà e Soffici, tutti maggiori di lui dagli otto ai diciassette anni De Pisis, scrive Augusta Monferini, rappresenta < la generazione intermedia [...] artisti che, quasi fratelli ‘minori’ ed esclusi dai grandi giochi dei ‘maggiori’, o furono epigoni del futurismo o cercarono[...] una collocazione del tutto indipendente, distaccata dai gruppi>. 

In effetti, se un giovane pittore, abitante in provincia, poteva nel 1916 considerare ancora aperta la voce futurismo per una esperienza ineludibile, questo diveniva pressoché impossibile per De Pisis, entrato in rapporto con i protagonisti quando già ritenevano conclusa questa esperienza. Restava aperta e tutta da percorrere la via della “metafisica”, ma accanto a un De Chirico rimaneva ben poco spazio, lo comprenderà di lì a poco, lo stesso Carrà.                                               

Inoltre, conclusa la guerra, il “richiamo all’ordine”, scritto da Soffici ma avvertito nell’intera Europa, sta bussando alla porta di tutti. Purtroppo, per chi non ha fatto esperienza nelle file dell’avanguardia, e per De Pisis quel suo essere “fuori fase”, come rileva la Monferini, sarà tanto più difficile un inserimento nel flusso degli interessi internazionali, e di questo il nostro ha particolarmente sofferto.

Le avanguardie, con le loro divisioni in scuole e correnti, con il loro bagaglio di teorie, spesso ideologizzate, allettano la critica sempre in cerca di elementi sui quali poter dissertare senza remore, poco comprendendo, e meno curando, la sola qualità, sulla quale è tanto più difficile la tela rada e sfilacciata di una pseudo letteratura ciarlatanesca, spesso assurda sempre inutile.                      

Diviso tra la letteratura che si rifiuta di riconoscerlo, e la pittura che invece lo assume a tempo pieno, De Pisis percorre una via tutta sua, di pittore che scrive, tiene conferenze, incontra personaggi e si fa amici illustri; uomo colto e di grande sensibilità consuma velocemente la propria vita in un dramma esistenziale che sta, come ha scritto lui stesso, tra “il sensuale arrabbiato, l’animale e l’angelo”. 

Quando nel 1953, la commissione fiorentina de “Il Fiorino”, guidata dallo scrittore Nicola Lisi, va per consegnargli il premio che gli è stato assegnato, lo trova nella stanza disadorna di una casa di cura per malattie mentali. Sperando in qualche modo di ridestarne lo spirito, o almeno scuoterne l’apatia, con parole forzatamente festose gli consegna il premio; De Pisis osserva i fiorini d’oro, eppoi si mette a distribuirli in terra per la stanza, quasi simulando un gioco, ma gli amici, venuti con l’intento di festeggiarlo, restano dolorosamente colpiti dalla fissità da statua di Egina del suo sorriso, una fissità che lo rivela già tra le spire della malattia che lo condurrà alla morte di lì a tre anni.

Ha già trovato nell’obnubilamento una sua pace? Chissà, certo che ha logorato se stesso con una insistenza autolesionistica, che ha della tragedia e suscita pietà.

L'ora fatale

"L’Indipendente” Milano 23 febbraio1993