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Fondamentale il deposito tempestivo del ricorso: nota a sentenza della Corte di Cassazione n. 22763 del 06.11.2015

Fondamentale il deposito tempestivo del ricorso: nota a sentenza della Corte di Cassazione n. 22763 del 06.11.2015
Fondamentale il deposito tempestivo del ricorso: nota a sentenza della Corte di Cassazione n. 22763 del 06.11.2015

Abstract 

Con la Sentenza n. 22763 del 06.11.2015, la Suprema Corte torna a pronunciarsi in un contesto che ha come sfondo, ancora una volta, l’annosa problematica dell’equa riparazione per irragionevole durata del processo. Orbene, al fine dell’osservanza del termine di proponibilità della domanda è sufficiente il deposito del ricorso, giacché la consegna degli atti può avvenire fino alla decisione del giudice, o comunque nel rispetto del termine da lui espressamente concesso.

La Legge Costituzionale 23.11.1999 ha corredato l’articolo 111 della Costituzione di cinque nuovi commi, sancendo in tal modo quelli che sono i principi fondamentali del cd. “giusto processo”. Tra questi, la ragionevole durata del processo che dev’essere garantita dalla legge. In realtà, tale garanzia è rinvenibile all’articolo 47, comma 2, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e, ancor prima, all’articolo 6, comma 1, della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre del 1950. In entrambi i casi si parla di “termine ragionevole”. Così, dando seguito al dettato sopranazionale, l’Italia è intervenuta attraverso il testo della Legge 24.03.2001, n. 89, meglio nota come Legge Pinto. Un tentativo di risolvere il problema insito nella natura delle cause ultradecennali che intasano il sistema della giustizia italiana. È stato un intervento conseguenza delle reiterate sanzioni che ha subito il nostro Paese da parte della giurisprudenza della Corte Europea. Veniva espressamente riconosciuto il diritto ad un’equa riparazione, un risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, in caso di violazione del termine ragionevole del giudizio e la competenza assegnata alle Corti d’Appello. Il Decreto Legge n. 83 del 2012, convertito con modifiche in Legge n. 134 del 2012 ha fissato l’entità del risarcimento, compreso tra 500 e 1500 Euro per ogni anno eccedente il limite di sei anni, nello specifico: tre anni per il giudizio di primo grado, due in appello ed un anno per quello di legittimità in Cassazione. Anche lo stesso procedimento indirizzato ad ottenere l’equa riparazione non può, a sua volta, eccedere improrogabilmente la durata di due anni.La Legge Pinto offre si una tutela in più, ma resta un rimedio insufficiente. Il problema permane ed ogni giorno si fanno i conti con i famosi processi lumaca.  

Volendo soffermarsi brevemente sulla disamina in fatto della più recente pronuncia della Sesta Sezione della Corte di Cassazione riguardante il tema della irragionevole durata del processo, nel caso di specie la parte attrice adiva la Corte d’Appello di Messina per ottenere la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento di un equo indennizzo, individuato proprio ai sensi della Legge n. 89 del 2001. Il Giudice di secondo grado dichiarava inammissibile la domanda per un motivo particolare: l’incompletezza della documentazione depositata. Stando a quanto sostenuto dalla Corte d’ Appello, sussisteva l’ impossibilità di assegnare all’attore un termine per integrare le produzioni documentali. La parte che aveva dato corso al giudizio avrebbe dovuto, dunque, rispettare il termine perentorio prescritto dall’articolo 4 della Legge 89/2001, anche con riguardo all’ integrazione della domanda con l’allegazione dei documenti prescritti per legge. Non era quindi possibile attribuire all’attore un termine ulteriore ai sensi dell’articolo 3, comma 4 della citata Legge. Per la cassazione di questa decisione, il ricorrente proponeva Ricorso in Cassazione.

Ferma restando l osservanza, ex articolo 4 della Legge 81/2001, del termine di decadenza entro il quale era stata proposta la domanda intesa ad ottenere la riparazione del danno, cioè nel previsto intervallo di sei mesi dal momento in cui la decisione che aveva concluso il procedimento sarebbe divenuta definitiva, la Suprema Corte rileva che a norma dell’articolo 3, comma 3, della Legge n. 89 del 2001, così come novellato dalla Legge n. 134 del 2012, la consegna degli atti può sopravvenire fino alla decisione del giudice o nel termine da lui appositamente concesso. Precisamente, unitamente al ricorso devono essere depositati: la copia autentica dell’ atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relative al procedimento nel cui ambito la  violazione si assume verificata; l'atto; i verbali di causa e i provvedimenti del giudice; il provvedimento che ha definito il giudizio,  ove  questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili. Secondo l’ orientamento della Corte di Cassazione non è possibile propendere nel senso di ritenere invalido il ricorso privo di uno o più atti o documenti da allegare allo stesso, e la cui produzione non è prevista quale condizione di ammissibilità della domanda d’ equa riparazione.

Giova riprendere un estratto delle asserzioni della Suprema Corte : “Sotto il profilo sistematico deve rilevarsi che i requisiti di forma-contenuto che governano la validità degli atti processuali e la produzione dei relativi effetti in maniera non potenzialmente caduca, sono per definizione interni all’ atto stesso, come si ricava dall’ articolo 156 del Codice di Procedura Civile. Con la conseguenza che essi non possono farsi dipendere da un’attività di produzione, la quale non soggiace a requisiti formali diversi dalla certificazione del suo compimento, ai sensi dell’articolo 87 delle Disposizioni di Attuazione del Codice di Procedura Civile”.

Anche l’articolo 125 del Codice di Procedura Civile, tra l’altro richiamato dal primo comma dell’articolo 3 della Legge n. 89 del 2011, nel disciplinare in contenuto degli atti di parte non annovera tra i requisiti di validità le produzioni documentali. La Suprema Corte, pertanto, ritiene ininfluenti queste allegazioni al fine dell’ efficace instaurazione del giudizio. Necessaria, in questo senso, è soltanto la corretta proposizione della domanda giudiziale. Il deposito degli atti non è da etichettare neppure come attività perfezionativa della costituzione in giudizio del ricorrente.

Al termine perentorio stabilito dall’articolo 4 della Legge 89/2001 soggiace esclusivamente il deposito del ricorso nella cancelleria della Corte d’Appello adita.

La Sentenza in commento si chiude con la decisione della Sesta Sezione Civile della Corte di cassare il Decreto impugnato con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Messina.

Abstract 

Con la Sentenza n. 22763 del 06.11.2015, la Suprema Corte torna a pronunciarsi in un contesto che ha come sfondo, ancora una volta, l’annosa problematica dell’equa riparazione per irragionevole durata del processo. Orbene, al fine dell’osservanza del termine di proponibilità della domanda è sufficiente il deposito del ricorso, giacché la consegna degli atti può avvenire fino alla decisione del giudice, o comunque nel rispetto del termine da lui espressamente concesso.

La Legge Costituzionale 23.11.1999 ha corredato l’articolo 111 della Costituzione di cinque nuovi commi, sancendo in tal modo quelli che sono i principi fondamentali del cd. “giusto processo”. Tra questi, la ragionevole durata del processo che dev’essere garantita dalla legge. In realtà, tale garanzia è rinvenibile all’articolo 47, comma 2, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e, ancor prima, all’articolo 6, comma 1, della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre del 1950. In entrambi i casi si parla di “termine ragionevole”. Così, dando seguito al dettato sopranazionale, l’Italia è intervenuta attraverso il testo della Legge 24.03.2001, n. 89, meglio nota come Legge Pinto. Un tentativo di risolvere il problema insito nella natura delle cause ultradecennali che intasano il sistema della giustizia italiana. È stato un intervento conseguenza delle reiterate sanzioni che ha subito il nostro Paese da parte della giurisprudenza della Corte Europea. Veniva espressamente riconosciuto il diritto ad un’equa riparazione, un risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, in caso di violazione del termine ragionevole del giudizio e la competenza assegnata alle Corti d’Appello. Il Decreto Legge n. 83 del 2012, convertito con modifiche in Legge n. 134 del 2012 ha fissato l’entità del risarcimento, compreso tra 500 e 1500 Euro per ogni anno eccedente il limite di sei anni, nello specifico: tre anni per il giudizio di primo grado, due in appello ed un anno per quello di legittimità in Cassazione. Anche lo stesso procedimento indirizzato ad ottenere l’equa riparazione non può, a sua volta, eccedere improrogabilmente la durata di due anni.La Legge Pinto offre si una tutela in più, ma resta un rimedio insufficiente. Il problema permane ed ogni giorno si fanno i conti con i famosi processi lumaca.  

Volendo soffermarsi brevemente sulla disamina in fatto della più recente pronuncia della Sesta Sezione della Corte di Cassazione riguardante il tema della irragionevole durata del processo, nel caso di specie la parte attrice adiva la Corte d’Appello di Messina per ottenere la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento di un equo indennizzo, individuato proprio ai sensi della Legge n. 89 del 2001. Il Giudice di secondo grado dichiarava inammissibile la domanda per un motivo particolare: l’incompletezza della documentazione depositata. Stando a quanto sostenuto dalla Corte d’ Appello, sussisteva l’ impossibilità di assegnare all’attore un termine per integrare le produzioni documentali. La parte che aveva dato corso al giudizio avrebbe dovuto, dunque, rispettare il termine perentorio prescritto dall’articolo 4 della Legge 89/2001, anche con riguardo all’ integrazione della domanda con l’allegazione dei documenti prescritti per legge. Non era quindi possibile attribuire all’attore un termine ulteriore ai sensi dell’articolo 3, comma 4 della citata Legge. Per la cassazione di questa decisione, il ricorrente proponeva Ricorso in Cassazione.

Ferma restando l osservanza, ex articolo 4 della Legge 81/2001, del termine di decadenza entro il quale era stata proposta la domanda intesa ad ottenere la riparazione del danno, cioè nel previsto intervallo di sei mesi dal momento in cui la decisione che aveva concluso il procedimento sarebbe divenuta definitiva, la Suprema Corte rileva che a norma dell’articolo 3, comma 3, della Legge n. 89 del 2001, così come novellato dalla Legge n. 134 del 2012, la consegna degli atti può sopravvenire fino alla decisione del giudice o nel termine da lui appositamente concesso. Precisamente, unitamente al ricorso devono essere depositati: la copia autentica dell’ atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relative al procedimento nel cui ambito la  violazione si assume verificata; l'atto; i verbali di causa e i provvedimenti del giudice; il provvedimento che ha definito il giudizio,  ove  questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili. Secondo l’ orientamento della Corte di Cassazione non è possibile propendere nel senso di ritenere invalido il ricorso privo di uno o più atti o documenti da allegare allo stesso, e la cui produzione non è prevista quale condizione di ammissibilità della domanda d’ equa riparazione.

Giova riprendere un estratto delle asserzioni della Suprema Corte : “Sotto il profilo sistematico deve rilevarsi che i requisiti di forma-contenuto che governano la validità degli atti processuali e la produzione dei relativi effetti in maniera non potenzialmente caduca, sono per definizione interni all’ atto stesso, come si ricava dall’ articolo 156 del Codice di Procedura Civile. Con la conseguenza che essi non possono farsi dipendere da un’attività di produzione, la quale non soggiace a requisiti formali diversi dalla certificazione del suo compimento, ai sensi dell’articolo 87 delle Disposizioni di Attuazione del Codice di Procedura Civile”.

Anche l’articolo 125 del Codice di Procedura Civile, tra l’altro richiamato dal primo comma dell’articolo 3 della Legge n. 89 del 2011, nel disciplinare in contenuto degli atti di parte non annovera tra i requisiti di validità le produzioni documentali. La Suprema Corte, pertanto, ritiene ininfluenti queste allegazioni al fine dell’ efficace instaurazione del giudizio. Necessaria, in questo senso, è soltanto la corretta proposizione della domanda giudiziale. Il deposito degli atti non è da etichettare neppure come attività perfezionativa della costituzione in giudizio del ricorrente.

Al termine perentorio stabilito dall’articolo 4 della Legge 89/2001 soggiace esclusivamente il deposito del ricorso nella cancelleria della Corte d’Appello adita.

La Sentenza in commento si chiude con la decisione della Sesta Sezione Civile della Corte di cassare il Decreto impugnato con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Messina.