Principio di autosufficienza dei ricorsi: la relazione del Massimario della Corte di cassazione sui riflessi della sentenza Succi ed altri c. Italia della Corte EDU

Parigi, Europa
Parigi, Europa

Principio di autosufficienza; il 30 novembre 2021 l’ufficio del massimario della Corte di cassazione ha pubblicato la relazione tematica n. 116

1. Premessa

Il 30 novembre 2021 l’ufficio del massimario della Corte di cassazione ha pubblicato la relazione tematica n. 116 che pone a confronto i principi affermati dalla Corte di Strasburgo nella nota sentenza Succi ed altri c. Italia del 28 ottobre 2021 e l’attuale giurisprudenza nazionale di legittimità.

Non sfugge la straordinaria tempestività dell’analisi del Massimario che viene alla luce a distanza di un solo mese dalla sentenza. È certo un indizio dell’efficienza dell’ufficio ma potrebbe aver concorso anche una qualche preoccupazione sugli effetti potenzialmente a cascata della decisione dei giudici europei dei diritti umani.

La lettura della relazione, di cui si riporteranno ampi passaggi testuali evidenziati tra virgolette e in corsivo, conferma questa impressione come si evidenzierà nei prossimi paragrafi.

 

2. La questione posta a Strasburgo

Con sentenza pubblicata il 28 ottobre 2021 (Succi e altri c. Italia) la Corte di Strasburgo si è pronunciata su tre distinti ricorsi (nn. 55064/11, 37781/13 e 26049/14), tra loro riuniti, con i quali era stata denunciata la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (sotto il profilo del diritto di accesso ad un tribunale) da parte della nostra Corte di legittimità, per avere quest’ultima dichiarato inammissibili i rispettivi ricorsi per cassazione in base a ragioni diverse per ciascun caso ma tutte riconducibili al cd. “principio di autosufficienza”, il quale, secondo i ricorrenti, sarebbe stato applicato dalla Corte di cassazione italiana in modo eccessivamente formalistico nel valutare i criteri richiesti per la redazione dei ricorsi”.

 

3. I principi affermati dalla Corte EDU

La Corte EDU, alla luce della giurisprudenza nazionale, ha ritenuto che:

a) In linea generale ed astratta il principio di autosufficienza del ricorso dinanzi alla Corte di cassazione italiana persegue un fine legittimo, in quanto è destinato a semplificare l'attività del giudice di legittimità e allo stesso tempo a garantire la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte (§§ 74-75).

b) Nell’applicazione concreta, tuttavia, tale principio deve rispondere ad un criterio di proporzionalità della restrizione rispetto allo scopo, sicché non può giustificare una interpretazione troppo formale delle limitazioni imposte ai ricorsi, al punto da trasformarsi in uno strumento per limitare il diritto di accesso ad un organo giudiziario in modo o in misura tale da incidere sulla sostanza stessa di tale diritto (§ 81).

c) L'applicazione da parte della Corte di cassazione italiana del principio dell’autosufficienza del ricorso rivela, almeno fino alle sentenze nn. 5698 e 8077 del 2012, una tendenza a concentrarsi su aspetti formali esorbitanti rispetto alla legittimità dello scopo, in particolare “per quanto riguarda l’obbligo di trascrivere integralmente i documenti inclusi nei motivi di ricorso e il requisito della prevedibilità della restrizione dell’accesso alla Corte” (§ 82)”.

 

4. La decisione della Corte EDU sui tre ricorsi riuniti

a) RICORSO n. 55064/11 (§§ 86-95)

E’ affetta da eccessivo formalismo, e pertanto viola l’art. 6 § 1 della Convenzione, una applicazione del principio di autosufficienza che porti alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso qualora la sua lettura, con l'aiuto dei riferimenti ai passaggi della sentenza del giudice di appello e ai documenti rilevanti citati nel ricorso, permetta di comprendere l'oggetto e lo svolgimento del procedimento nei gradi di merito, nonché la portata dei motivi svolti, sia per

quanto riguarda il loro fondamento giuridico (i.e.: il tipo di censura proposta fra quelle previste dall'articolo 360 del c.p.c.) sia il loro contenuto. (Nella specie, la Corte EDU ha accertato che, contrariamente a quanto affermato nella sentenza della Corte di cassazione, ciascun motivo recava nell'intestazione sia il tipo di censura proposta sia le disposizioni invocate; inoltre, i punti criticati nella sentenza della Corte d'appello risultavano riprodotti nell'esposizione dei fatti e, quanto, ai documenti, erano stati trascritti i brevi passaggi rilevanti ed era stato fatto riferimento al documento originale, rendendo così possibile la sua identificazione tra i documenti depositati con il ricorso).

b) RICORSO n. 37781/13 (§§ 96-106)

Il meccanismo processuale all’epoca previsto dall’art. 366 bis c.p.c. (abrogato dalla normativa interna nel 2009), era compatibile con l’art. 6 della Convenzione (§§ 96-100).

Non è affetta da eccessivo formalismo una applicazione del principio di autosufficienza che dichiari inammissibili i motivi di ricorso nel caso in cui, facendo riferimento ad atti o documenti del procedimento di merito, non contengano i riferimenti ai documenti originali nei fascicoli depositati, in modo da consentire al giudice di verificarne prontamente la portata e il contenuto, fermo restando che deve ritenersi invece eccessivamente formalistico l’ulteriore obbligo di riproduzione degli stessi, interpretato come un obbligo di trascrizione integrale dei documenti. (§§101-106).

c) RICORSO n. 26049/2014 (§§ 107-115)

Non viola l’art. 6§1 della Convenzione una applicazione del principio di autosufficienza che, con riguardo alla esposizione dei fatti di causa (art. 366 n. 3 c.p.c.), richieda un'attività di sintesi e chiarezza, la quale implica uno sforzo da parte dell’avvocato di selezionare i fatti alla luce delle censure che si intendono svolgere, riassumendo gli aspetti rilevanti del procedimento di merito. (Nella specie nel ricorso erano stati solo trascritti gran parte dell'esposizione dei fatti della sentenza della Corte d'appello, le osservazioni dei ricorrenti in appello, parte del ricorso e la motivazione e il dispositivo della sentenza impugnata, e ciò nonostante che l’'avvocato dei ricorrenti fosse in grado di conoscere i suoi obblighi al riguardo, sulla base del testo dell'articolo 366 c.p.c. e con l'aiuto dell'interpretazione della Corte di cassazione, che già all’epoca era sufficientemente chiara e coerente sul punto)”.

 

5. Fondamento della violazione dell’art. 6 § 1 della CEDU

La Corte EDU, rispondendo all’argomento speso dal Governo italiano in ordine alla esigenza di far fronte all’imponente arretrato che grava sulla Corte di cassazione, ha chiarito che, anche a fronte di un carico di lavoro suscettibile di causare difficoltà nel funzionamento ordinario del trattamento dei ricorsi, deve comunque ritenersi troppo formalista ogni interpretazione che, sviando dallo scopo legittimo sopra individuato, in realtà persegua il (diverso) scopo di limitare il diritto di accesso alla giustizia in modo tale o in misura tale da incidere sulla sostanza stessa di tale diritto”.

 

6. L’autosufficienza va valutata caso per caso

La circostanza che, in questo caso, la Corte EDU non abbia espresso un giudizio diretto su una determinata regola o su un determinato orientamento giurisprudenziale non deve però indurre a concludere che anche da tale parte della decisione non siano desumibili importanti indicazioni ai fini della valutazione di compatibilità delle pronunce della nostra Corte di legittimità con l’art. 6 della Convenzione La prima indicazione, apparentemente ovvia ma fondamentale, depone nel senso che l’esame sulla ammissibilità del ricorso non può fondarsi sulla mera e “seriale” applicazione di regole e principi già elaborati, quand’anche con giurisprudenza consolidata e pertanto prevedibile, ma deve essere condotta caso per caso, poiché ogni ricorso ha la sua specificità. La seconda indicazione, di squisita matrice convenzionale, valorizza il “right of access to a court” ricordando che le regole procedurali che limitano l’ammissibilità del ricorso devono essere interpretate (rectius: applicate) nel rispetto del canone della proporzionalità, vale a dire prediligendo soluzioni orientate a permettere al processo di giungere al suo esito naturale tutte le volte in cui, prescindendo dal rigore formalistico, il motivo sia in comunque in grado di assicurare il raggiungimento dello scopo suo proprio, che è quello di consentire al giudice di legittimità di comprendere l’oggetto e lo svolgimento della controversia nei gradi di merito, così come il tipo di censura che viene mossa secondo lo schema dell’art. 360 c.p.c. ed il suo contenuto specifico, con l’ausilio degli atti e dei documenti opportunamente indicati e con i riferimenti necessari per una loro agevole reperibilità. È questo un canone che potremmo definire “di chiusura” dei criteri di compatibilità convenzionali indicati dai giudici di Strasburgo, il quale, come il precedente, impone una verifica caso per caso”.

 

7. La matrice giurisprudenziale del principio di autosufficienza

È opportuno premettere che nessuna norma del codice di rito enuncia espressamente il concetto di “autosufficienza” tra i requisiti di ammissibilità del ricorso per cassazione.

Il principio, invero, ha origini prettamente giurisprudenziali e si trova esplicitamente menzionato per la prima volta in una sentenza della Corte di cassazione del 1986”.

 

8. Conseguenze della declaratoria di inammissibilità per violazione del principio di autosufficienza

Dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso per violazione dei requisiti richiesti per la sua redazione possono derivare “a cascata” ulteriori conseguenze penalizzanti per la parte.

Una prima conseguenza, desumibile da una giurisprudenza uniforme sul punto, è la circostanza che la proposizione di un ricorso per cassazione in palese violazione dell'art. 366 c.p.c., tale da concretare un errore grossolano del difensore nella redazione dell'atto, giustifica la condanna della parte (che risponde delle condotte del proprio avvocato ex art. 2049 c.c.) al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. (così Cass. Sez. 5, 23/05/2019, n. 14035, Rv. 654111 – 01; conf. Cass. Sez. 6-1 17/7/2020, n. 15333, Rv. 658367 – 01) ; in tali ipotesi, infatti, si determina uno sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali ed un ingiustificato aumento del contenzioso che ostacolano la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione (cfr. Cass. Sez. 3, 30/4/2018, n. 10327, Rv. 648432 – 01 ; conf. Cass. Sez. 3, 27/2/2019, n. 5725, Rv. 652838 – 02, con riferimento, più in generale, ai ricorsi “basati su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata o completamente privi di autosufficienza oppure contenenti una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia o, ancora, fondati sulla deduzione del vizio di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ove sia applicabile, "ratione temporis", l'art. 348-ter, comma 5, c.p.c., che ne esclude la invocabilità”).

Altra non trascurabile conseguenza, anch’essa enucleabile da una giurisprudenza univoca, risiede nella impossibilità di configurare un errore revocatorio nel giudizio espresso dalla sentenza di legittimità impugnata sulla violazione del principio di autosufficienza in ordine a uno dei motivi di ricorso, per omessa indicazione e trascrizione dei documenti non ammessi dal giudice d'appello (cfr. Cass. Sez. 2, 22/6/2007, n. 14608, Rv. 598146 – 01; Cass. Sez. 6-5, 31/08/2017, n. 20635, Rv. 645048 – 01).

Questo aspetto sembra di particolare interesse in questa sede perché la configurabilità di un errore revocatorio è stato da alcuni prospettato come possibile rimedio interno rispetto all’ipotesi di inammissibilità che ha determinato i giudici di Strasburgo a condannare l’Italia per violazione dell’art. 6 della Convenzione nel ricorso n. 55064/11 (sul quale v. § 5.3, per la configurabilità della revocatoria, v. in particolare nt. 61)”.

 

9. Comparazione conclusiva tra la giurisprudenza nazionale di legittimità e i principi della sentenza Succi c. Italia

a) Viola l’art. 6 della Convenzione, in quanto affetto da eccessivo formalismo e non prevedibile, quell’orientamento di una parte della giurisprudenza di legittimità che impone l’onere della integrale trascrizione degli atti o documenti di causa su cui il motivo si fonda.

b) Non viola l’art. 6 della Convenzione l’interpretazione giurisprudenziale, univoca sul punto, che attribuisce al ricorrente l’onere di “localizzare” gli atti ed i documenti su cui il motivo si fonda, inteso come onere di allegazione e indicazione dei riferimenti utili al reperimento del documento originale nei fascicoli del processo di merito.

c) Non viola l’art. 6 della Convenzione l’interpretazione giurisprudenziale, univoca sul punto, che attribuisce al ricorrente l’onere della esposizione sommaria dei fatti, intesa come un’attività di sintesi e chiarezza, la quale implica uno sforzo da parte dell’avvocato di selezionare i fatti alla luce delle censure che intende svolgere.

d) Non viola l’art. 6 della Convenzione la giurisprudenza di legittimità sul cd. “assemblaggio”, in particolare nel suo orientamento più recente, il quale sembra essersi stabilizzato nel senso di dichiarare l’inammissibilità del ricorso in cui siano stati “assemblati” atti o documenti solo quando il motivo non possa essere ricondotto al canone di sinteticità, nel rispetto del principio di autosufficienza, inteso nel suo scopo legittimo.

f) Non violano l’art. 6 della Convenzione quelle interpretazioni giurisprudenziali delle regole redazionali dei ricorsi per cassazione che, prescindendo dal rigore formalistico, portano a ritenere ammissibile il motivo nei casi in cui esso sia comunque in grado di consentire il raggiungimento dello scopo suo proprio, consistente nell'identificazione della violazione che si assume viziare la sentenza e che fonda la richiesta di annullamento.

e) Meritano una riflessione alla luce della sentenza Succi e altri c/Italia, sotto il profilo della loro compatibilità con i criteri di prevedibilità e di proporzionalità rispetto alla inammissibilità che ne può conseguire, le disomogeneità della giurisprudenza interna, come sopra evidenziate, in tema di: 1) ammissibilità o meno della esposizione sommaria dei fatti insieme ai motivi; 2) necessità o meno della esplicita indicazione delle norme di legge violate; 3) ammissibilità o meno dei motivi cd. “misti”.

 

10. Qualche riflessione finale

La sentenza Succi ed altri c. Italia è l’ennesimo esempio di quanto bisogno abbiamo di un  giudice europeo che ci ricordi a cosa servono il diritto e la giurisdizione.

È bastata questa sola decisione per ricordarci ciò che avevamo dimenticato e cioè:

  • le regole e i principi non devono essere intesi come barriere tra chi ricorre alla giustizia e il suo giudice;
  • è legittimo pretendere ordine e chiarezza da chi ricorre, non lo è addossargli oneri la cui unica ragion d’essere è un formalismo fine a se stesso;
  • i carichi di lavoro del giudice non costituiscono un alibi accettabile per l’adozione di criteri interpretativi ed applicativi tali da limitare illegittimamente il diritto di accesso alla giustizia;
  • la risposta ai ricorsi non può risolversi in litanie di precedenti giurisprudenziali ma deve essere individualizzata e tale da tener conto adeguatamente delle specifiche circostanze del caso oggetto del ricorso;
  • bisogna porre massima e costante attenzione alle conseguenze negative di prassi sbrigative e perplesse, tanto più se siano il frutto di irrisolti conflitti giurisprudenziali il cui costo non può essere addossato a chi si rivolge alla giustizia per ottenere risposte chiare e plausibili a problemi concreti.

Che altro dire? Meno male che Strasburgo c’è.