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Giorgio Ambrosoli: un uomo lasciato solo, ricordo e intervista al figlio Umberto

Giorgio Ambrosoli
Giorgio Ambrosoli

Giorgio Ambrosoli: un uomo lasciato solo, ricordo e intervista al figlio Umberto

Mentre rileggo “Un uomo solo” di Carlo Cassola, per quei strani voli mentali, che alle volte accadono, mi viene in mente Giorgio Ambrosoli.

Sono trascorsi 41 anni dal suo assassinio per mano del sicario mafioso, William J. Aricò, mandato dagli Stati Uniti su richiesta di Sindona. Nella afosa notte milanese tra l’11 e il 12 Luglio 1979, Giorgio Ambrosoli venne ucciso sotto il portone di casa.

Rifletto su quanto Ambrosoli possa aver combattuto nel suo animo per conciliare l’impegno professionale, scevro da qualsivoglia influenza, e i sentimenti per i propri cari. Nella solitudine della sua casa milanese lo immagino la sera angustiato ma fermo nelle sue convinzioni di legalità e dovere.

Nello splendido libro “Un eroe borghese”, Corrado Stajano lo definisce: “uomo libero e solo, eroe borghese che avrebbe potuto vivere tranquillo con le sue serene abitudini e invece, per la passione dell’onestà, si batté contro un ‘genio del male’, sorretto da forze potenti palesi e occulte, e fu sconfitto”.

Quando, tanti anni fa, finii di leggere il libro di Stajano mi colse una profonda amarezza e ancora oggi, nel pensare all’avvocato Ambrosoli mi coglie una velata malinconia per lui e i suoi familiari. Una malinconia dettata dalla vita di un uomo che è solo a combattere un intreccio di interessi inconfessabili, di politici, manager, giornalisti, alti gradi della Guardia di Finanza per uno Stato che si dimentica di esserci ai suoi funerali ad eccezione del Governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e i giudici di Milano Viola, Urbisci e Galati.

Un uomo solo insieme ad un altro uomo solo, il maresciallo Silvio Novembre che si congedò dalla Guardia di Finanza nel 1982, affermando che non avrebbe più lavorato per lo Stato che aveva lasciato solo un suo fedele servitore.

 

Ho chiesto ad Umberto Ambrosoli una breve intervista e lui, senza alcuna remora, si è concesso con gentilezza e estrema disponibilità, memore degli insegnamenti paterni che vengono enunciati in questa lettera (grassetti nostri):

… sono pronto per il deposito dello stato passivo della BPI, atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una bella fatica. Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che … e fatto stesso di dover trattare con gente di ogni colore e risma non tranquillizza affatto. È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica per fare qualcosa per il Paese.

Ricordo i giorni dell’UMI (Unione Monarchica Italiana), le speranze mai realizzate di far politica per il Paese e non per i partiti: ebbene, a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito … Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto. (…) Abbiano coscienza dei lori doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa.

Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro… Sarà per te una vita dura, ma sei una brava ragazza te la caverai ...”.

Sono questi alcuni dei passaggi più significativi della lettera-testamento, datata 25 Febbraio 1975, che l’avvocato Giorgio Ambrosoli, scrisse alla moglie Anna Lori, e che lei un giorno scoprì tra le sue carte.

Un testo in cui emerge una figura di uomo di Stato che è orgoglioso di aver fatto “politica in nome dello Stato e non per un partito ed ha l’estrema consapevolezza dei rischi che correva con il suo lavoro di commissario unico liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, oberata di debiti.

Questa lettera è stata scritta 45 anni fa ed oggi il figlio Umberto ci ha rilasciato una breve intervista.

D. Sono trascorsi 41 anni e senza retorica le chiedo, se il sacrificio di suo padre ha lasciato un seme nella coscienza del nostro Paese?

R. Penso di sì, così come quella di tante altre persone che hanno offerto esempi di vita affini a quello di papà. Chi ha incontrato la storia di papà, umanamente ci si è confrontato, con ciò mettendo un mattoncino della propria coscienza. Per alcuni quel mattoncino riporta la scritta “non fare come lui”, per altri è un punto fermo al quale ricorrere nelle difficoltà delle proprie scelte per dire “È possibile vivere come lui!”

D. Ogni volta che leggo la lettera del 25.02.1975 che suo padre scrisse a sua madre, mi vengono i brividi nel constatare la consapevolezza del pericolo e nel contempo la grande dignità e speranza nelle sue parole. Lei che era bambino quali ricordi ha conservato di quegli anni?

R. I 41 anni sono passati anche per me e confesso che non riesco più a ricordarmi “bambino” rispetto a quella vicenda: i ricordi si sono in parte confusi con i significati e con le elaborazioni, nonché con racconti di mia madre e degli amici di papà. Tuttavia ho ben presente la sua serenità, la voglia di fare, la normalità. Ricordo anche gli scherzi che gli piaceva realizzare, sempre fantasiosi ed elaborati. Talvolta micidiali. Sorrido pensando a taluni di questi e al loro contrasto con l’immagine di persona ombrosa e sempre seria che è attribuita a lui in ragione della gravosità delle sue scelte e della tragicità della sua morte.

D. Suo padre riusciva a tenere indenne la famiglia dalle preoccupazioni e timori che aveva?

R. Per quello che mi riguarda, assolutamente sì. Certo, mia madre aveva consapevolezze maggiori che determinavano in lei preoccupazioni più grandi. Ma parlando generalmente del piano familiare, direi che il tempo che abbiamo vissuto con lui è stato caratterizzato non da paura, non da tensioni, ma da serenità. Anche quando, per un accidente del caso, ho udito di nascosto una delle telefonate minatorie delle quali era stato destinatario, papà – una volta realizzato che io avevo ascoltato – ha saputo tranquillizzarmi trasmettendo la serenità che lo animava. Soprattutto ha saputo trattarmi “da grande”: non minimizzare, ma affrontando con me la verità delle minacce e le ragioni della sua tranquillità.

D. Oggi quali valori dobbiamo ricordare dell’avv. Giorgio Ambrosoli?

R. Integrità, professionalità e responsabilità, che sono anche i valori che vengono premiati con una delle iniziative che promuovono la memoria dell’esempio di papà. Mi riferisco al Premio Giorgio Ambrosoli il quale, in occasione della sua ultima edizione, ha visto l’intervento fortificante a Milano del Presidente della Repubblica.

Integrità è la capacità di vivere la propria vita, non quella che altri – con il loro potere e attraverso blandizie, corruzioni o minacce – vogliono per te. Professionalità è aver chiaro il senso – anche pubblico – del proprio ruolo, il proprio mandato, ed agire nel suo rispetto attraverso la propria preparazione tecnica e deontologica.

Responsabilità è essere consapevoli degli impatti del proprio agire sugli altri: determinati e indeterminati. Non chiudere gli occhi, non pensare che ciò che accade non dipenda da noi.

Papà, con le sue scelte, anche con quelle più drammatiche, ha interpretato concretamente le ragioni della vita: non ha abdicato, né deragliato. Come uomo, marito, padre, cittadino e avvocato lui ha vissuto.

 

Per Ambrosoli non è stato un “sacrifico” servire il suo Paese ma un “modo di vivere”.

Come dice Umberto: “Papà ha vissuto la sua vita e non quella che altri avrebbero voluto per lui, cioè una vita in cui lui avrebbe dovuto rinunciare a un pezzo della sua identità e della sua libertà, in cui avrebbe dovuto rinunciare alla sua responsabilità”.