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Giorgio Caproni: Alba, una poesia struggente

da Il «Terzo libro» e altre cose, Einaudi, 1968
alba ghiacciata
Ph. Giorgia Pavani / alba ghiacciata

Oggi ricordiamo Giorgio Caproni (1912 – 1990) , il grande poeta livornese, del quale, il prossimo anno, ricorreranno i 110 anni dalla nascita.

Per introdurvi alla sua poetica, abbiamo scelto una struggente poesia, "Alba", tratta dalla raccolta

Riportiamo il commento alla poesia a cura di Giuseppe Barreca e tratto dal blog "Poesia e scrittura".

Lo stile è malinconico, la scrittura di versi fitta, senza pause, come se l’autore volesse dire in fretta quel che ha nell’animo, prima che la morte giunga o che tutto finisca. In questa poesia è presente la sua idea di sonetto “monoblocco”, mentre la fluidità del verseggiare è resa utilizzando ampiamente gli enjambement.

Il senso della fine incombente appare spesso nelle poesie di Caproni. La morte si palesa prima nella figura della fidanzata scoparsa precocemente, Olga Franzoni; più tardi, negli anni ’50, sarà presente la madre, Anna Picchi, cui Caproni dedicherà gli splendidi Versi livornesi presenti ne Il seme del piangere. Sarà un ricordo privo di retorica, affatto melodrammatico, eppure vivido, non occultato dietro forme ermetiche o, peggio, dietro un inutile pudore.

Nella poesia qui riportata l’alba è livida e invernale, mentre il poeta è immerso nei profumi mattutini di un bar dai vetri appannati. L’amore atteso non arriva; c’è solo il rumore di un tram solitario. Si noti l’impiego di un vocabolo aulico, leopardiano, come “ermo”, unito al termine “rumore”, connesso con l’immagine prosaica di un tram. In questo modo l’autore mostra di possedere notevoli capacità poetiche, ma di essere anche cosciente della necessità di adattare il verso alla situazione vissuta o figurata. In altre parole, Caproni è aulico non nei termini che impiega, bensì nei temi che tocca. La sua esperienza individuale diventa certamente universale, ma egli non si erge a moralista, né a modello di comportamento, né a filosofo.Egli non è un retore: non insegna nulla, indica solo una viuzza, una stradina, un pertugio nelle nebbie del mistero. Forse vorrebbe rendere più tangibile la celebre “maglia rotta nella rete” di Eugenio Montale. 

In Alba il terrore della morte non urla, né crea una retorica del dolore. Il poeta appare quieto, quasi rassegnato, per nulla solenne sulla soglia del momento supremo (si pensi ai toni di Stanze della funicolare); egli tratta un tema universale, a tutti familiare, con delicatezza e attenzione.

Negli anni ’50 Caproni è già oltre l’ermetismo e, nei suoi versi, egli non è ossessionato dallo sperimentalismo, dall’avanguardia, bensì è curioso dell’esistenza: la vorrebbe conoscere sin nei dettagli, benché s’accorga che il senso del vivere sfugga inevitabilmente: “Di questo, sono certo: io/son giunto alla disperazione/ calma, senza sgomento./ Scendo. Buon proseguimento” (Congedo del viaggiatore cerimonioso).

Alba

Giorgio Caproni

Amore mio, nei vapori d’un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rinfresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dormi, ora che in vece la tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo la morte.

da Il«Terzo libro» e altre cose, Torino, Einaudi,1968