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Giurisprudenza ragionata della CEDU: casi recenti in materia di equo processo

Causa Bongiorno e altri c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 5 gennaio 2010 (ricorso n. 4514/07)

Diritto a un equo processo – sotto il profilo della pubblicità del procedimento ex art. 4, comma 6, della l. n. 1423 del 1956 – violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – sussiste.

Protezione della proprietà – ingerenza nel diritto al rispetto dei beni della persona fisica – violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU – non sussiste.

Nel caso di specie, la Corte constata la violazione dell’art. 6, par. 1, in relazione al procedimento svolto ai sensi dell’art. 4, comma sesto, della legge n. 1423 del 1956, in materia di applicazione di misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, cui provvede il tribunale in camera di consiglio, poiché, ai fini del diritto ad un equo processo, è essenziale che al soggetto interessato del procedimento venga almeno offerta la possibilità di sollecitare una pubblica udienza.

Fatto. Era stato disposto il sequestro di beni nella disponibilità di un soggetto indiziato di appartenere ad un’associazione a delinquere e sproporzionati rispetto alle sue fonti di reddito legittimamente dimostrabili, ai sensi dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965. Tale misura di prevenzione era stata disposta da sezione specializzata del tribunale con ordinanza adottata in camera di consiglio.

Sia la Corte d’appello che la Cassazione avevano rigettato i ricorsi promossi dai ricorrenti e confermato il provvedimento di confisca dei beni.

Veniva, quindi, proposto ricorso ai sensi dell’art. 6, par. 1, CEDU (diritto ad un equo processo), in relazione alla mancanza di pubblicità del procedimento di cui all’art. 4, comma sesto, della legge n. 1423 del 1956, integrata dalla legge n. 575 del 1965.

Diritto. La Corte ha ricordato di aver già esaminato la questione della compatibilità con l’art. 6 CEDU della procedura relativa all’applicazione delle misure di prevenzione nel caso Bocellari e Rizza, analogo a quello in oggetto. In tale occasione era stato affermato che lo svolgimento in camera di consiglio del procedimento di applicazione delle misure di prevenzione, previsto dall’art. 4 della legge n. 1423 del 1956, non aveva permesso ai ricorrenti di chiedere e di ottenere un’udienza pubblica.

Sebbene la Corte abbia riconosciuto l’elevato grado di tecnicismo che caratterizza la procedura, avendo come obiettivo il controllo delle finanze e dei movimenti di capitali, è stato rilevato che occorre anche tenere presente la posta in gioco nelle procedure di prevenzione, che mirano alla confisca di beni e capitali, nonché gli effetti che esse possono produrre sulle persone. A fronte di ciò, il controllo del pubblico costituisce una garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato.

Pertanto, poiché è essenziale che a coloro che sono soggetti ad un procedimento di applicazione di misure di sicurezza sia quanto meno offerta la possibilità di chiedere una pubblica udienza e i ricorrenti non avevano beneficiato di tale possibilità, la Corte ha constatato la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU.

La Corte ha viceversa respinto una doglianza in relazione alla pretesa violazione del diritto di proprietà, garantito dall’art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU, statuendo che la confisca ha sì determinato un’ingerenza nel godimento dei diritti dei ricorrenti al rispetto dei loro beni, ma lo ha fatto in ragione di uno scopo che corrisponde all’interesse generale e cioè impedire un uso illecito e pericoloso di beni la cui provenienza lecita non è stata dimostrata, nell’ambito di una politica criminale che mira a combattere il fenomeno della criminalità organizzata.

Infine la Corte ha respinto la richiesta di risarcimento dei danni materiali avanzata dai ricorrenti per mancanza del nesso di causalità, mentre a titolo di danno morale ha ritenuto che questo sia sufficientemente riparato dalla constatazione di violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU alla quale giunge.

Per le spese che si riferiscono alla presente procedura, la Corte ha giudicato eccessiva la domanda dei ricorrenti e ha deciso di concedere loro, congiuntamente, 3.000 euro a questo titolo.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, par. 1, CEDU – Diritto a un equo processo

Art. 1, Protocollo n. 1, CEDU – Protezione della proprietà

Art. 41 CEDU – Equa soddisfazione

L. n. 575 del 1965, come modificata dalla L. n. 646 del 1982

L. n. 1423 del 1956

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 6, par. 1, CEDU – relativamente alla possibilità per i ricorrenti di chiedere ed ottenere una pubblica udienza nella procedura riguardante l’applicazione delle misure di prevenzione: Bocellari e Rizza c. Italia (ricorso n. 399/02), Perre e altri c. Italia (ricorso n. 1905/05).

Art. 1, Protocollo n. 1, CEDU – l’uso dei beni in relazione all’interesse generale: Arcuri e altri c. Italia (ricorso n. 52024/99), Riela e altri c. Italia (ricorso n. 52439/99).

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Causa Atzei c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 16 marzo 2010 (ricorso n. 11978/03)

Diritto a un equo processo – in merito all’irragionevole durata del processo – violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – sussiste.

La Corte ha constatato la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU in quanto il procedimento di primo grado davanti alle autorità nazionali era durato sedici anni ed un mese e l’indennizzo concesso ai sensi della legge “Pinto” si era rivelato insufficiente.

Fatto. Il ricorrente, nato nel 1934 e residente ad Olbia, citò in giudizio il 15 ottobre 1986 i Sigg. F.C., C. G. e la società I innanzi al Tribunale di Tempio Pausania al fine di ottenere il pagamento di una somma dovutagli per l’espletamento dell’attività di mediatore nella vendita di un terreno.

Delle diciassette udienze fissate tra il 19 gennaio 1987 ed il 21 maggio 1992, quattro furono rinviate su richiesta delle parti, una su richiesta del ricorrente e tre d’ ufficio.

All’udienza del 17 dicembre 1992, il giudice decretò la sospensione del procedimento, non avendo la società I. più interesse ad agire.

Il 23 gennaio 1993, il ricorrente riprese il procedimento.

Delle sedici udienze fissate tra il 3 giugno 1993 ed il 13 giugno 2002, cinque furono rinviate su richiesta delle parti o in ragione della loro assenza ed una per il fatto che il Sig. Atzei aveva cambiato avvocato.

Con sentenze depositate rispettivamente il 19 agosto 2003 ed il 10 dicembre 2008,, il Tribunale e la Corte d’appello di Cagliari respinsero l’istanza del ricorrente.

Il 24 aprile 2009, il sig. Atzei ricorse in Cassazione.

Secondo le informazioni fornite dal ricorrente il 18 giugno 2009, il procedimento era ancora, in questa data, pendente dinnanzi alla Corte di cassazione.

Inoltre, il ricorrente investì il 6 settembre 2001 la Corte di appello di Palermo ai sensi della legge "Pinto", chiedendo 16.900 euro a titolo di danno morale per la durata eccessiva del procedimento.

Con una decisione del 14 novembre 2002, depositata il 23 novembre 2002 e divenuta definitiva in data 7 marzo 2004, la Corte di appello constatò il superamento della durata ragionevole del processo e concesse secondo equità 1.500 euro come risarcimento del danno morale e 995 euro per oneri e spese.

Il Sig. Atzei adiva la Corte EDU deducendo la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU per la durata irragionevole del procedimento e per l’insufficienza dell’indennizzo – peraltro versato in ritardo – concesso applicando la legge “Pinto”.

Diritto. La Corte, dopo avere esaminato l’insieme dei fatti della causa e gli argomenti delle parti, ha constatato l’insufficienza dell’indennizzo e che la somma stabilita non è stata versata nei sei mesi a partire dal momento in cui la decisione della Corte di appello diventò esecutiva.

Il ricorrente, quindi, può sempre definirsi “vittima” ai sensi dell’art. 34 CEDU.

In particolare, il procedimento di primo grado, instaurato il 15 ottobre 1986, era durato fino al 14 novembre 2002, data della decisione "Pinto" e cioè sedici anni ed un mese.

Inoltre, la somma concessa è stata versata il 16 settembre 2003, più di undici mesi dopo il deposito in cancelleria della sentenza della Corte di appello (23 novembre 2002).

La Corte ha concluso per la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, par. 1, CEDU – Diritto a un equo processo

L. n. 89/2001

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 6, par. 1, CEDU – in merito alla durata ragionevole del processo e al relativo indennizzo riconosciuto dalla L. n. 89/2001: Aragosa c. Italia (ricorso n. 20191/03); Simaldone c. Italia (ricorso n. 22644/03); Delle Cave e Corrado c. Italia (ricorso n. 14626/03); Cocchiarella c. Italia (ricorso n. 64886/01).

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Causa Mole c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 12 gennaio 2010 (ricorso n. 24421/03)

Diritto a un equo processo – sotto il profilo del diritto all’esame del merito dei ricorsi – violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – sussiste.

Proibizione della tortura – in merito al livello di sofferenza inerente la detenzione – violazione dell’art. 3 CEDU – non sussiste.

Diritto al rispetto della vita privata e familiare – in relazione alle restrizioni al diritto di visita dei familiari e al controllo della corrispondenza – violazioni dell’art. 8 CEDU – non sussistono.

La mancanza di qualsiasi decisione sul merito dei decreti ministeriali adottati ai sensi dell’art. 41-bis della legge n. 354 del 1975, annullando l’effetto del controllo giurisdizionale sui provvedimenti medesimi, costituisce violazione del diritto ad un equo processo, tutelato dall’art. 6, par. 1, CEDU.

Fatto. In data 16 dicembre 1997 il ricorrente, condannato all’ergastolo per omicidio e altri reati legati alle attività di un’associazione per delinquere di tipo mafioso, era stato sottoposto al regime di detenzione speciale previsto dall’art. 41-bis, comma 2, della l. n. 354/1975, prorogato più volte con reiterati decreti ministeriali della durata di sei mesi ciascuno fino al mese di dicembre 2004.

Il 19 giugno 2002 e il 30 dicembre 2002 il ricorrente aveva proposto reclamo avverso i provvedimenti del Ministro della giustizia rispettivamente del 17 giugno 2002 e del 28 dicembre 2002 dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Bologna, contestando l’applicazione del regime speciale e chiedendo che fossero soppresse le relative restrizioni.

Con decisione in data 21 marzo 2003 il magistrato di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile il reclamo avverso il decreto del 17 giugno 2002, in quanto il periodo di applicazione dello stesso era scaduto e respinto quello relativo al provvedimento del 28 dicembre 2002 poiché erano ancora sussistenti le condizioni per l’attuazione del regime di detenzione speciale alla luce delle informazioni raccolte dalla polizia e dalle autorità giudiziarie sul conto del ricorrente.

Quest’ultimo non aveva proposto ricorso per cassazione.

Il sig. Mole adiva successivamente la Corte EDU lamentando che il regime di detenzione speciale a cui era stato sottoposto si ponesse in contrasto con i diritti protetti dalla Convenzione di cui agli artt. 3 (proibizione della tortura), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 6, par. 1 (diritto a un equo processo) CEDU.

Diritto. Con riferimento alle doglianze del ricorrente fondate sull’art. 3 CEDU, la Corte ha ricordato che affinché un maltrattamento possa ricadere nell’ambito di applicazione dei trattamenti inumani vietati è necessario che presenti un minimo di gravità, il cui apprezzamento ha, di per sé, margini relativi e dipende da un insieme di fattori quali la durata del trattamento, gli effetti fisici e mentali, il sesso, l’età e lo stato di salute della vittima. Sebbene l’applicazione prolungata di certe restrizioni possa porre il detenuto in una situazione di trattamento disumano e degradante, ai sensi dell’art. 3 CEDU, il giudici hanno sostenuto che non è possibile fissare un termine massimo di sottoposizione a tale regime. Tuttavia, incombe sulla Corte l’onere di verificare se il rinnovo o la proroga delle restrizioni siano sorrette da idonea giustificazione. Nel caso di specie il collegio giudicante ha verificato che il Ministro della giustizia aveva richiamato, per giustificare la reiterazione dei precedenti decreti, la sussistenza delle condizioni che erano alla base della motivazione del primo provvedimento. Il ricorrente, d’altro canto, non aveva fornito elementi sufficienti da poter concludere che il prolungamento del regime speciale di detenzione previsto dall’art. 41-bis avesse causato degli effetti fisici o psichici che ricadano nell’art. 3 CEDU. Pertanto la Corte, confermando la sua consolidata giurisprudenza in materia, ha ritenuto che le sofferenze o l’umiliazione che il ricorrente ha subito non superassero quel livello che, inevitabilmente, comporta una specifica e legittima forma di trattamento o di pena.

In merito alla lamentata violazione dell’art. 8 CEDU, invocato sia in relazione alle restrizioni del diritto di visita dei familiari che al controllo della corrispondenza, la Corte, riguardo al primo profilo, ha affermato che il regime di cui all’art. 41-bis è volto a recidere i legami esistenti fra il detenuto e l’ambiente criminale d’origine per scongiurare il pericolo derivante da eventuali contatti.

Prima dell’introduzione di tale riforma del diritto penitenziario, infatti, molti detenuti riuscivano a mantenere la loro posizione all’interno dell’organizzazione criminale di appartenenza, ad organizzare e far eseguire dei reati, a scambiare informazioni con l’esterno e gli altri detenuti; soprattutto per i reati di mafia erano proprio le visite con i familiari che rendevano possibile la trasmissione degli ordini e delle istruzioni dei detenuti verso l’esterno. La Corte ha ritenuto, quindi, che l’ingerenza dell’autorità nella vita familiare e privata sia stata in tal caso necessaria “per la pubblica sicurezza, la difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati in una società democratica” e pertanto ha respinto tale motivo di ricorso.

Quanto al controllo della corrispondenza del detenuto, la Corte ha constatato che il ricorrente ha prodotto delle note emesse dall’amministrazione penitenziaria al più tardi il 2 ottobre 2002; poiché il ricorso è stato presentato il 20 giugno 2003, l’organo giudicante ha osservato che l’interessato non ha rispettato il termine di sei mesi fissato dalla Convenzione e rigettato la relativa doglianza per la sua tardività.

In relazione all’addotta violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, la Corte ha statuito che l’assenza di decisioni sul merito svuota della sua sostanza il controllo esercitato dal giudice sui decreti del Ministro della giustizia ed accolto, quindi, la relativa doglianza.

In merito all’applicazione dell’art. 41 CEDU, il ricorrente non ha presentato domande di equa soddisfazione; di conseguenza, la Corte non ha ritenuto opportuno liquidare alcuna somma a questo titolo.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, par. 1, CEDU – Diritto a un equo processo

Art. 3 CEDU – Proibizione della tortura

Art. 8 CEDU – Diritto al rispetto della vita privata e familiare

L. n. 354 del 1975, come modificata dalla L. n. 356 del 1992, dalla L. n. 279 del 2002 e dalla L. n. 95 del 2004.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 6, par. 1, CEDU – relativamente al diritto all’esame del merito dei ricorsi: Enea c. Italia (ricorso n. 74912/01).

Art. 3 CEDU – in merito ai trattamenti inumani o degradanti: Labita c. Italia (ricorso n. 26772/95), Bastone c. Italia (ricorso n. 59638/00).

Art. 8 CEDU – sotto il profilo delle restrizioni al diritto di visita dei familiari e al controllo della corrispondenza: Enea c. Italia (ricorso n. 74912/01), Gelsomino c. Italia (ricorso n. 2005/03).

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Causa Ogaristi c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 18 maggio 2010 (ricorso n. 231/07)

Diritto a un equo processo – in merito all’opportunità di esaminare o far esaminare in contraddittorio il testimone a carico dell’imputato – violazione dell’art. 6, §§ 1 e 3, lett.d), CEDU – sussiste.

Divieto di discriminazione – sulla presunta disparità di trattamento fra coimputati – violazione dell’art. 14 CEDU – non sussiste.

Proibizione della tortura – in relazione all’impossibilità di ottenere l’audizione del teste –violazione dell’art. 3 CEDU – non sussiste.

La Corte constata la violazione dell’art. 6, §§ 1 e 3, lett. d), CEDU poiché, ai fini del diritto ad un equo processo, è essenziale che all’imputato venga data concretamente la possibilità di procedere ad un confronto diretto con il testimone a suo carico al fine di garantire il contraddittorio su un mezzo di prova decisivo per la condanna del ricorrente.

Fatto. Il ricorrente, attualmente detenuto presso il carcere penitenziario romano di Rebibbia, all’epoca dei fatti fu accusato di aver fatto parte del commando, che il 18 febbraio 2002, a Casal di Principe, uccise un cittadino italiano e ferì gravemente il cognato della vittima, un cittadino albanese ed arrestato a seguito della testimonianza di quest’ultimo, che sulla base di alcune foto segnaletiche dei carabinieri indicò il killer proprio nel sig. Ogaristi.

Il 23 settembre 2002, il ricorrente chiese la fissazione di un’udienza ad hoc dinanzi al giudice per le indagini preliminari in presenza degli avvocati difensori al fine di procedere all’audizione del testimone, che aveva manifestato più volte la volontà di tornare in Albania ed alla ricognizione personale.

Tale richiesta fu rigettata e, nel frattempo, il testimone, recatosi in Albania per un periodo di vacanze, si rese irreperibile.

Rinviato a giudizio dinanzi alla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere per omicidio, tentato omicidio e porto abusivo di armi, con l’aggravante di aver agito per favorire un’organizzazione criminale di tipo mafioso, il ricorrente fu assolto per non aver commesso il fatto con sentenza dell’8 marzo 2004.

In applicazione degli artt. 111 Cost. e 526 c.p.p., la Corte d’Assise valutò inutilizzabili le dichiarazioni del testimone acquisite durante le indagini preliminari in quanto il cittadino albanese si era volontariamente sottratto all’esame degli imputati e dei loro difensori.

Con sentenza del 3 novembre 2005, invece, la Corte d’Assise d’Appello condannò il sig. Ogaristi all’ergastolo in quanto non era stata provata la volontà del teste di sottrarsi all’esame, le dichiarazioni dei testimoni a discarico erano contraddittorie e l’alibi fornito dal ricorrente non era nè coerente, nè convincente.

Con sentenza del 20 giugno 2006, depositata in cancelleria il 6 luglio 2006, la Corte di cassazione, ritenendo che la Corte d’Assise d’Appello avesse motivato in modo logico e corretto tutti i punti contestati, rigettò il ricorso del sig. Ogaristi.

Il 18 dicembre 2006, il ricorrente adiva la Corte EDU, deducendo la violazione dell’art. 6, §§ 1 e 3, lett. d), CEDU (Diritto ad un equo processo) per non aver avuto l’opportunità di esaminare o far esaminare il teste a suo carico, dell’art. 14 CEDU (Divieto di discriminazione) per la presunta disparità di trattamento rispetto al coimputato e dell’art. 3 CEDU (Proibizione della tortura) per l’impossibilità di ottenere l’audizione del testimone.

In data 5 febbraio 2008, un collaboratore di giustizia rendeva dichiarazioni spontanee riguardanti l’agguato del 18 febbraio 2002 - confermate successivamente da altri due collaboratori di giustizia – tali da condurre all’assoluzione del sig. Ogaristi.

Con ordinanza del 26 maggio 2009, la Corte d’Appello di Perugia riteneva che le dichiarazioni in questione potessero in linea di principio condurre alla revisione della sentenza di condanna a carico del ricorrente.

Tuttavia, l’assoluzione di quest’ultimo dipendeva dal definitivo accertamento della responsabilità penale di un individuo appartenente alla criminalità organizzata, il cui processo era ancora pendente.

Pertanto, la Corte d’Appello dichiarava inammissibile allo stato la richiesta di revisione.

Diritto. La Corte ha premesso di non essere competente a pronunciarsi sull’ammissione di dichiarazioni testimoniali come prove ovvero sulla colpevolezza del ricorrente, ma sull’equità del procedimento, incluse le modalità di presentazione dei mezzi di prova e sul conseguente rispetto dei diritti di difesa.

Se l’imputato ha avuto occasione adeguata e sufficiente di contestare dette deposizioni, nel momento in cui sono state rese o in seguito, il loro utilizzo non è di per sé contrario all’articolo 6 §§ 1 e 3 d).

Tuttavia, i diritti della difesa risultano limitati in modo incompatibile con le garanzie dell’articolo 6, nel caso in cui una condanna si basi, unicamente o in misura determinante, su dichiarazioni rese da una persona che l’imputato non ha potuto esaminare o far esaminare, né durante le indagini preliminari, né in dibattimento.

La Corte ha rilevato che la possibilità di utilizzare le dichiarazioni rese prima del dibattimento da testimoni divenuti irreperibili era prevista dall’articolo 512 c.p.p., nella versione in vigore all’epoca dei fatti.

Tale circostanza, però, non può privare l’imputato del diritto, riconosciuto dall’articolo 6 § 3 d), ad esaminare o far esaminare in contraddittorio ogni elemento di prova sostanziale a suo carico.

Nel caso di specie, è stata rigettata la richiesta del sig. Ogaristi di fissare un incidente probatorio dinanzi al giudice per le indagini preliminari, in presenza degli avvocati della difesa, al fine di interrogare il teste e procedere ad una ricognizione personale.

La Corte ha ritenuto che la motivazione della condanna all’ergastolo fosse fondata esclusivamente o almeno in misura determinante sulle dichiarazioni rese dal testimone prima del processo.

Il ricorrente, quindi, non ha beneficiato di un equo processo; di conseguenza, vi è stata violazione dell’art. 6, §§ 1 e 3, lett. d), CEDU.

In merito alla presunta violazione dell’art. 14 CEDU, la Corte ha osservato che la disparità di trattamento non può essere riconosciuta solo per il semplice fatto che, nello stesso procedimento penale o in quelli connessi, alcuni imputati sono stati assolti ed altri condannati.

Del resto, lo stesso ricorrente non ha dimostrato che la sua situazione era simile a quella del coimputato.

Quanto all’allegata violazione dell’art. 3 CEDU, la Corte ha concluso che l’impossibilità di esaminare il testimone a carico non potesse costituire un trattamento tale da raggiungere il livello di gravità minima richiesto ai fini dell’applicazione della disposizione in esame.

Infine la Corte, constatata la sussistenza di un danno morale certo, ha concesso secondo equità la somma di 15,000 euro all’interessato, pur ribadendo che la riparazione più adeguata dovrebbe consistere in un nuovo giudizio del ricorrente, promosso su richiesta del medesimo, in tempo utile e nel rispetto dell’art. 6 CEDU.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, paragrafi 1 e 3, lett. d), CEDU – Diritto a un equo processo

Art. 14 CEDU – Divieto di discriminazione

Art. 3 CEDU – Proibizione della tortura

Art. 111 Cost.

Artt. 512 e 526 c.p.p.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 6, §§ 1 e 3, lett. d), CEDU – relativamente al rispetto dei diritti della difesa e del principio del contraddittorio: De Lorenzo c. Italia (ricorso n. 69264/01); Isgrò c. Italia, sentenza del 19 febbraio 1991, serie A no 194-A, p. 12, § 34; Craxi c. Italia, (ricorso n. 34896/97); Jerinò c. Italia (ricorso n. 27549/02); Bracci c. Italia (ricorso n. 36822/02).

Art. 14 CEDU – sulla disparità di trattamento: Odièvre c. Francia [GC], no 42326/98, § 55, CEDU 2003-III; Salgueiro da Silva Mouta c. Portogallo, no 33290/96, § 26, CEDU 1999-IX; De Lorenzo c. Italia (ricorso n. 69264/01).

Art. 3 CEDU – in merito al raggiungimento del livello minimo di gravità richiesto dalla disposizione: Guzzardi c. Italia, sentenza del 6 novembre 1980, serie A no 39, p. 40, § 107.

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Causa Udorovic c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 18 maggio 2010 (ricorso n. 38532/02)

Diritto a un equo processo – in relazione alla mancanza di pubblicità delle udienze – violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – non sussiste.

Diritto a un equo processo – in merito all’inesatta valutazione di alcuni fatti importanti da parte della Corte d’appello – violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – sussiste.

La mancanza di pubblicità delle udienze può essere giustificata in casi eccezionali alla luce degli obiettivi di efficacia e di rapidità di cui al procedimento controverso e non costituisce violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU qualora siano rispettate le altre garanzie procedurali previste da quest’ultima disposizione.

La Corte, invece, riconosce la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, che sancisce l’obbligo di eseguire un effettivo esame dei mezzi, delle argomentazioni e delle prove offerte dalle parti, salvo poi valutarne la pertinenza.

Fatto. Il ricorrente è un cittadino italiano appartenente alla comunità tzigana dei Sinti che nel 1995 risiedeva nel campo nomadi “Nono” di Roma, autorizzato dal Comune.

All’epoca dei fatti, la polizia municipale effettuò dei controlli e, con decisione del 23 gennaio 1996, il sindaco di Roma stilò un elenco delle strutture ritenute conformi ai criteri previsti dalla legge, fra le quali era stato inserito anche il campo “Nono”.

Inoltre, l’autorità municipale affermò che, per quanto riguardava le famiglie Rom e Sinti, soltanto quelle con bambini in età scolastica che seguivano realmente la scuola dell’obbligo avevano il diritto di risiedere nei campi allestiti dal Comune, aggiungendo che questi criteri personali sarebbero stati verificati dall’amministrazione in occasione di un prossimo censimento.

Successivamente, il sindaco di Roma, con provvedimento del 4 novembre 2009, ordinò lo sgombero del campo, sostenendo che lo stesso non era fornito di acqua potabile e non era dotato di fognature.

Contro i provvedimenti del Comune, il ricorrente promosse due procedure, una davanti all’autorità giudiziaria amministrativa e l’altra davanti all’autorità giudiziaria ordinaria.

Un primo ricorso fu infatti presentato al T.A.R. del Lazio, che in data 19 gennaio 2000 accolse l’istanza di sospensiva del provvedimento emanato in data 4 novembre 2009.

Il Comune di Roma fece appello al Consiglio di Stato, che in data 20 marzo 2000 respinse l’opposizione, confermando la decisione del T.A.R.

Il ricorrente iniziò anche una procedura per atti discriminatori davanti al Tribunale civile di Roma, ai sensi degli articoli 43 e 44 del decreto legislativo n. 286 del 1998 in relazione alle decisioni prese dal sindaco nel 1996 e nel 1999.

Secondo le disposizioni di legge citate, la procedura si svolse in camera di consiglio.

Con ordinanza del 12 marzo 2001, il Tribunale respinse il ricorso affermando che i provvedimenti impugnati non erano discriminatori dato che avevano lo scopo di garantire la salute pubblica dei cittadini residenti vicino al campo nonché quella degli occupanti dello campo stesso.

Il ricorrente fece opposizione, presentando reclamo alla Corte d’appello di Roma.

In particolare, il sig. Udorovic lamentò il carattere discriminatorio della decisione comunale del 1996.

Anche tale procedura si tenne in camera di consiglio, in conformità di legge.

La Corte d’appello di Roma respinse il reclamo in merito alla decisione del 1999, poiché tale provvedimento non era motivato dall’intenzione di nuocere agli occupanti del campo in ragione della loro appartenenza etnica e non si pronunciò sulla legittimità della decisione del 1996, osservando nella sua ordinanza che “nel reclamo del ricorrente non sono reiterate le sue allegazioni riguardanti questa decisione”.

Il sig. Udorovic proponeva, quindi, ricorso ai sensi dell’art. 6, par. 1, CEDU (diritto ad un equo processo), sostenendo che la sua causa non era stata esaminata pubblicamente davanti all’autorità giudiziaria ordinaria.

Diritto. La Corte ha ricordato che spetta in primo luogo alle autorità nazionali, in particolare ai tribunali, interpretare il diritto interno e che nella fattispecie le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato la natura cautelare del procedimento contro la discriminazione ed il carattere provvisorio delle decisioni prese nell’ambito di quest’ultimo.

Lo scopo della domanda era quello di dimostrare la portata discriminatoria delle decisioni del Comune di Roma di evacuazione del campo, dove il ricorrente risiedeva con la sua famiglia, di ottenerne l’annullamento e di liquidare un risarcimento per il danno subito.

In questo contesto, la Corte ha sancito l’applicabilità dell’art. 6 CEDU al procedimento controverso, determinante per la tutela di “diritti di carattere civile”.

Nel caso in esame, l’esclusione del pubblico dalla sala d’udienza è espressamente richiamata dal D. Lgs. n. 286 del 1998, che rinvia alle norme del codice di procedura civile relative ai procedimenti in camera di consiglio.

La Corte ha più volte affermato che, instaurato un procedimento cautelare, in casi eccezionali – ad esempio quando l’effettività della misura richiesta dipende dalla rapidità del processo decisionale – può risultare impossibile rispettare nell’immediato tutte le esigenze previste dall’art. 6 CEDU.

La Corte ha osservato che le autorità nazionali hanno tenuto conto degli imperativi di efficacia e rapidità e che garantire sistematicamente la pubblicità delle udienze avrebbe potuto costituire un ostacolo alla diligenza dell’intervento auspicato dal richiedente.

D’altronde, il ricorrente, assistito da un avvocato di fiducia, ha avuto la possibilità di essere presente alle udienze e di partecipare al procedimento depositando memorie e documenti, nel rispetto delle altre garanzie procedurali previste dall’art. 6 CEDU.

Pertanto, secondo la Corte, la mancanza di pubblicità delle udienze è giustificata alla luce degli obiettivi di cui al procedimento controverso e non determina la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU.

In relazione al presunto errore manifesto della Corte di appello di Roma dato che non è stato esaminato il mezzo d’appello riguardante l’illegittimità della decisione del Comune di Roma del 23 gennaio 1996, la Corte riconosce la violazione del diritto ad un equo processo, ai sensi dell’art. 6, par. 1, CEDU.

In effetti, quest’ultima disposizione implica, soprattutto a carico del “tribunale”, l’obbligo di eseguire un effettivo esame dei mezzi, delle argomentazioni e delle prove offerte dalle parti, salvo poi valutarne la pertinenza.

La Corte ha rilevato che l’analisi del reclamo depositato dal ricorrente in Corte d’appello permetteva di constatare che uno dei mezzi formulati dall’interessato riguardava in maniera esplicita tale decisione amministrativa e ne metteva in discussione il carattere discriminatorio.

Da tale elemento si può constatare che l’ordinanza della Corte di appello sia viziata da una valutazione innegabilmente inesatta di alcuni fatti importanti.

La Corte, ritenendo sussistente un danno morale incontestabile, non sufficientemente riparato dalla constatazione di una violazione, ha assegnato, secondo equità, al ricorrente la somma di 5.000 euro.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, par. 1, CEDU – Diritto a un equo processo

Artt. 43 e 44 del Decreto Legislativo n. 286 del 1998

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 6, par. 1, CEDU – relativamente alla pubblicità delle procedure degli organi giudiziari: Tierce e altri contro San Marino, (nn. 24954/94, 24971/94 e 24972/94, § 92, CEDH 2000-IX).

Art. 6, par. 1, CEDU – in merito all’obbligo di eseguire un effettivo esame dei mezzi, delle argomentazioni e delle prove offerte dalle parti: Artico c. Italia del 13 maggio 1980, serie A no 37, p. 16, § 33.

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Causa Leone c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 2 febbraio 2010 (ricorso n. 30506/07)

Diritto a un equo processo – sotto il profilo della pubblicità del procedimento ex art. 4, comma 6, della l. n. 1423 del 1956, integrata dalla legge n. 575 del 1965 – violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – sussiste.

Nel caso di specie, la Corte constata la violazione dell’art. 6, par. 1, in relazione al procedimento svolto ai sensi dell’art. 4, comma sesto, della legge n. 1423 del 1956, in materia di applicazione di misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, cui provvede il tribunale in camera di consiglio, poiché, ai fini del diritto ad un equo processo, è essenziale che al soggetto interessato del procedimento venga almeno offerta la possibilità di sollecitare una pubblica udienza.

Fatto. Era stato disposto il sequestro di beni nella disponibilità di un soggetto – genero del primo ricorrente e della terza ricorrente e cognato del secondo ricorrente – indiziato di appartenere ad un’organizzazione criminale finalizzata al traffico illecito di stupefacenti in quanto sproporzionati rispetto alle sue fonti di reddito legittimamente dimostrabili, ai sensi dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965.

Tale misura di prevenzione era stata disposta da sezione specializzata del Tribunale di Taranto con ordinanza del 12 giugno 2002 adottata in camera di consiglio.

Con lo stesso provvedimento il Tribunale aveva applicato nei confronti di uno solo dei ricorrenti la misura personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per la durata di 3 anni.

Nell’elenco dei beni sequestrati figuravano edifici, diverse automobili ed un conto bancario appartenente ai ricorrenti.

Quanto alla specifica posizione di questi ultimi, il Tribunale aveva sostenuto che le attività esercitate ed i redditi dichiarati, verificati mediante una consulenza tecnica, non potevano giustificare l’acquisizione di beni di cui erano proprietari.

Sia la Corte d’appello di Lecce con ordinanza del 3 ottobre 2005 che la Cassazione con sentenza del 16 gennaio 2007, depositata in cancelleria il 7 febbraio 2007, avevano rigettato i ricorsi promossi dai ricorrenti e confermato il provvedimento di confisca dei beni.

Veniva, quindi, proposto ricorso ai sensi dell’art. 6, par. 1, CEDU (diritto ad un equo processo), in relazione alla mancanza di pubblicità del procedimento di cui all’art. 4, comma sesto, della legge n. 1423 del 1956, integrata dalla legge n. 575 del 1965.

Diritto. La Corte ha ricordato di aver già esaminato la questione della compatibilità con l’art. 6 CEDU della procedura relativa all’applicazione delle misure di prevenzione nel caso Bocellari e Rizza, analogo a quello in oggetto. In tale occasione era stato affermato che lo svolgimento in camera di consiglio del procedimento di applicazione delle misure di prevenzione, previsto dall’art. 4 della legge n. 1423 del 1956, non aveva permesso ai ricorrenti di chiedere e di ottenere un’udienza pubblica.

Pur ammettendo che in questo genere di procedura possano talvolta entrare in gioco interessi superiori e un elevato grado di tecnicità, la Corte ha giudicato fondamentale, tenuto conto in particolare della posta in gioco delle procedure per l’applicazione delle misure di prevenzione e degli effetti che esse possono produrre sulla situazione personale delle persone coinvolte, che le parti in causa si vedano offrire per lo meno la possibilità di chiedere una pubblica udienza dinanzi alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello.

La Corte ha constatato, quindi, la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU in quanto il controllo del pubblico costituisce una garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato.

In merito alla presunta iniquità della procedura conclusasi con la confisca dei beni dei ricorrenti in assenza di condanna nei loro confronti, la Corte ha rammentato innanzitutto che l’articolo 6 CEDU si applica alle procedure per l’applicazione delle misure di prevenzione nella sua parte civile, tenuto conto in particolare del loro oggetto « patrimoniale » [Arcuri c/Italia (ricorso n. 52024/99); Riela ed altri c/Italia (ricorso n. 52439/99); Bocellari e Rizza c/Italia (ricorso n. 399/02)].

Nel caso si specie, i ricorrenti, rappresentati da un avvocato di fiducia, hanno partecipato alla procedura ed avuto la possibilità di presentare le memorie e i mezzi di prova da essi ritenuti necessari per tutelare i loro interessi.

La Corte ha osservato, inoltre, che i giudici nazionali dovevano accertare e valutare oggettivamente i fatti esposti dalle parti e che niente nel fascicolo lasciava pensare ad una valutazione arbitraria degli elementi sottoposti alla loro attenzione.

Pertanto, la Corte ha rigettato questa doglianza come manifestamente infondata, in applicazione degli artt. 35, §§ 3 e 4, CEDU.

Per le spese che si riferiscono alla presente procedura, la Corte ha giudicato eccessiva la domanda dei ricorrenti e ha deciso di concedere loro, congiuntamente, 3.000 euro a questo titolo.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, par. 1, CEDU – Diritto a un equo processo

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 6, par. 1, CEDU – relativamente alla possibilità per i ricorrenti di chiedere ed ottenere una pubblica udienza nella procedura riguardante l’applicazione delle misure di prevenzione: Bocellari e Rizza c. Italia (ricorso n. 399/02), Perre e altri c. Italia (ricorso n. 1905/05).

Causa Bongiorno e altri c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 5 gennaio 2010 (ricorso n. 4514/07)

Diritto a un equo processo – sotto il profilo della pubblicità del procedimento ex art. 4, comma 6, della l. n. 1423 del 1956 – violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – sussiste.

Protezione della proprietà – ingerenza nel diritto al rispetto dei beni della persona fisica – violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU – non sussiste.

Nel caso di specie, la Corte constata la violazione dell’art. 6, par. 1, in relazione al procedimento svolto ai sensi dell’art. 4, comma sesto, della legge n. 1423 del 1956, in materia di applicazione di misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, cui provvede il tribunale in camera di consiglio, poiché, ai fini del diritto ad un equo processo, è essenziale che al soggetto interessato del procedimento venga almeno offerta la possibilità di sollecitare una pubblica udienza.

Fatto. Era stato disposto il sequestro di beni nella disponibilità di un soggetto indiziato di appartenere ad un’associazione a delinquere e sproporzionati rispetto alle sue fonti di reddito legittimamente dimostrabili, ai sensi dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965. Tale misura di prevenzione era stata disposta da sezione specializzata del tribunale con ordinanza adottata in camera di consiglio.

Sia la Corte d’appello che la Cassazione avevano rigettato i ricorsi promossi dai ricorrenti e confermato il provvedimento di confisca dei beni.

Veniva, quindi, proposto ricorso ai sensi dell’art. 6, par. 1, CEDU (diritto ad un equo processo), in relazione alla mancanza di pubblicità del procedimento di cui all’art. 4, comma sesto, della legge n. 1423 del 1956, integrata dalla legge n. 575 del 1965.

Diritto. La Corte ha ricordato di aver già esaminato la questione della compatibilità con l’art. 6 CEDU della procedura relativa all’applicazione delle misure di prevenzione nel caso Bocellari e Rizza, analogo a quello in oggetto. In tale occasione era stato affermato che lo svolgimento in camera di consiglio del procedimento di applicazione delle misure di prevenzione, previsto dall’art. 4 della legge n. 1423 del 1956, non aveva permesso ai ricorrenti di chiedere e di ottenere un’udienza pubblica.

Sebbene la Corte abbia riconosciuto l’elevato grado di tecnicismo che caratterizza la procedura, avendo come obiettivo il controllo delle finanze e dei movimenti di capitali, è stato rilevato che occorre anche tenere presente la posta in gioco nelle procedure di prevenzione, che mirano alla confisca di beni e capitali, nonché gli effetti che esse possono produrre sulle persone. A fronte di ciò, il controllo del pubblico costituisce una garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato.

Pertanto, poiché è essenziale che a coloro che sono soggetti ad un procedimento di applicazione di misure di sicurezza sia quanto meno offerta la possibilità di chiedere una pubblica udienza e i ricorrenti non avevano beneficiato di tale possibilità, la Corte ha constatato la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU.

La Corte ha viceversa respinto una doglianza in relazione alla pretesa violazione del diritto di proprietà, garantito dall’art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU, statuendo che la confisca ha sì determinato un’ingerenza nel godimento dei diritti dei ricorrenti al rispetto dei loro beni, ma lo ha fatto in ragione di uno scopo che corrisponde all’interesse generale e cioè impedire un uso illecito e pericoloso di beni la cui provenienza lecita non è stata dimostrata, nell’ambito di una politica criminale che mira a combattere il fenomeno della criminalità organizzata.

Infine la Corte ha respinto la richiesta di risarcimento dei danni materiali avanzata dai ricorrenti per mancanza del nesso di causalità, mentre a titolo di danno morale ha ritenuto che questo sia sufficientemente riparato dalla constatazione di violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU alla quale giunge.

Per le spese che si riferiscono alla presente procedura, la Corte ha giudicato eccessiva la domanda dei ricorrenti e ha deciso di concedere loro, congiuntamente, 3.000 euro a questo titolo.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, par. 1, CEDU – Diritto a un equo processo

Art. 1, Protocollo n. 1, CEDU – Protezione della proprietà

Art. 41 CEDU – Equa soddisfazione

L. n. 575 del 1965, come modificata dalla L. n. 646 del 1982

L. n. 1423 del 1956

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 6, par. 1, CEDU – relativamente alla possibilità per i ricorrenti di chiedere ed ottenere una pubblica udienza nella procedura riguardante l’applicazione delle misure di prevenzione: Bocellari e Rizza c. Italia (ricorso n. 399/02), Perre e altri c. Italia (ricorso n. 1905/05).

Art. 1, Protocollo n. 1, CEDU – l’uso dei beni in relazione all’interesse generale: Arcuri e altri c. Italia (ricorso n. 52024/99), Riela e altri c. Italia (ricorso n. 52439/99).

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Causa Atzei c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 16 marzo 2010 (ricorso n. 11978/03)

Diritto a un equo processo – in merito all’irragionevole durata del processo – violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – sussiste.

La Corte ha constatato la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU in quanto il procedimento di primo grado davanti alle autorità nazionali era durato sedici anni ed un mese e l’indennizzo concesso ai sensi della legge “Pinto” si era rivelato insufficiente.

Fatto. Il ricorrente, nato nel 1934 e residente ad Olbia, citò in giudizio il 15 ottobre 1986 i Sigg. F.C., C. G. e la società I innanzi al Tribunale di Tempio Pausania al fine di ottenere il pagamento di una somma dovutagli per l’espletamento dell’attività di mediatore nella vendita di un terreno.

Delle diciassette udienze fissate tra il 19 gennaio 1987 ed il 21 maggio 1992, quattro furono rinviate su richiesta delle parti, una su richiesta del ricorrente e tre d’ ufficio.

All’udienza del 17 dicembre 1992, il giudice decretò la sospensione del procedimento, non avendo la società I. più interesse ad agire.

Il 23 gennaio 1993, il ricorrente riprese il procedimento.

Delle sedici udienze fissate tra il 3 giugno 1993 ed il 13 giugno 2002, cinque furono rinviate su richiesta delle parti o in ragione della loro assenza ed una per il fatto che il Sig. Atzei aveva cambiato avvocato.

Con sentenze depositate rispettivamente il 19 agosto 2003 ed il 10 dicembre 2008,, il Tribunale e la Corte d’appello di Cagliari respinsero l’istanza del ricorrente.

Il 24 aprile 2009, il sig. Atzei ricorse in Cassazione.

Secondo le informazioni fornite dal ricorrente il 18 giugno 2009, il procedimento era ancora, in questa data, pendente dinnanzi alla Corte di cassazione.

Inoltre, il ricorrente investì il 6 settembre 2001 la Corte di appello di Palermo ai sensi della legge "Pinto", chiedendo 16.900 euro a titolo di danno morale per la durata eccessiva del procedimento.

Con una decisione del 14 novembre 2002, depositata il 23 novembre 2002 e divenuta definitiva in data 7 marzo 2004, la Corte di appello constatò il superamento della durata ragionevole del processo e concesse secondo equità 1.500 euro come risarcimento del danno morale e 995 euro per oneri e spese.

Il Sig. Atzei adiva la Corte EDU deducendo la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU per la durata irragionevole del procedimento e per l’insufficienza dell’indennizzo – peraltro versato in ritardo – concesso applicando la legge “Pinto”.

Diritto. La Corte, dopo avere esaminato l’insieme dei fatti della causa e gli argomenti delle parti, ha constatato l’insufficienza dell’indennizzo e che la somma stabilita non è stata versata nei sei mesi a partire dal momento in cui la decisione della Corte di appello diventò esecutiva.

Il ricorrente, quindi, può sempre definirsi “vittima” ai sensi dell’art. 34 CEDU.

In particolare, il procedimento di primo grado, instaurato il 15 ottobre 1986, era durato fino al 14 novembre 2002, data della decisione "Pinto" e cioè sedici anni ed un mese.

Inoltre, la somma concessa è stata versata il 16 settembre 2003, più di undici mesi dopo il deposito in cancelleria della sentenza della Corte di appello (23 novembre 2002).

La Corte ha concluso per la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, par. 1, CEDU – Diritto a un equo processo

L. n. 89/2001

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 6, par. 1, CEDU – in merito alla durata ragionevole del processo e al relativo indennizzo riconosciuto dalla L. n. 89/2001: Aragosa c. Italia (ricorso n. 20191/03); Simaldone c. Italia (ricorso n. 22644/03); Delle Cave e Corrado c. Italia (ricorso n. 14626/03); Cocchiarella c. Italia (ricorso n. 64886/01).

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Causa Mole c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 12 gennaio 2010 (ricorso n. 24421/03)

Diritto a un equo processo – sotto il profilo del diritto all’esame del merito dei ricorsi – violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – sussiste.

Proibizione della tortura – in merito al livello di sofferenza inerente la detenzione – violazione dell’art. 3 CEDU – non sussiste.

Diritto al rispetto della vita privata e familiare – in relazione alle restrizioni al diritto di visita dei familiari e al controllo della corrispondenza – violazioni dell’art. 8 CEDU – non sussistono.

La mancanza di qualsiasi decisione sul merito dei decreti ministeriali adottati ai sensi dell’art. 41-bis della legge n. 354 del 1975, annullando l’effetto del controllo giurisdizionale sui provvedimenti medesimi, costituisce violazione del diritto ad un equo processo, tutelato dall’art. 6, par. 1, CEDU.

Fatto. In data 16 dicembre 1997 il ricorrente, condannato all’ergastolo per omicidio e altri reati legati alle attività di un’associazione per delinquere di tipo mafioso, era stato sottoposto al regime di detenzione speciale previsto dall’art. 41-bis, comma 2, della l. n. 354/1975, prorogato più volte con reiterati decreti ministeriali della durata di sei mesi ciascuno fino al mese di dicembre 2004.

Il 19 giugno 2002 e il 30 dicembre 2002 il ricorrente aveva proposto reclamo avverso i provvedimenti del Ministro della giustizia rispettivamente del 17 giugno 2002 e del 28 dicembre 2002 dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Bologna, contestando l’applicazione del regime speciale e chiedendo che fossero soppresse le relative restrizioni.

Con decisione in data 21 marzo 2003 il magistrato di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile il reclamo avverso il decreto del 17 giugno 2002, in quanto il periodo di applicazione dello stesso era scaduto e respinto quello relativo al provvedimento del 28 dicembre 2002 poiché erano ancora sussistenti le condizioni per l’attuazione del regime di detenzione speciale alla luce delle informazioni raccolte dalla polizia e dalle autorità giudiziarie sul conto del ricorrente.

Quest’ultimo non aveva proposto ricorso per cassazione.

Il sig. Mole adiva successivamente la Corte EDU lamentando che il regime di detenzione speciale a cui era stato sottoposto si ponesse in contrasto con i diritti protetti dalla Convenzione di cui agli artt. 3 (proibizione della tortura), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 6, par. 1 (diritto a un equo processo) CEDU.

Diritto. Con riferimento alle doglianze del ricorrente fondate sull’art. 3 CEDU, la Corte ha ricordato che affinché un maltrattamento possa ricadere nell’ambito di applicazione dei trattamenti inumani vietati è necessario che presenti un minimo di gravità, il cui apprezzamento ha, di per sé, margini relativi e dipende da un insieme di fattori quali la durata del trattamento, gli effetti fisici e mentali, il sesso, l’età e lo stato di salute della vittima. Sebbene l’applicazione prolungata di certe restrizioni possa porre il detenuto in una situazione di trattamento disumano e degradante, ai sensi dell’art. 3 CEDU, il giudici hanno sostenuto che non è possibile fissare un termine massimo di sottoposizione a tale regime. Tuttavia, incombe sulla Corte l’onere di verificare se il rinnovo o la proroga delle restrizioni siano sorrette da idonea giustificazione. Nel caso di specie il collegio giudicante ha verificato che il Ministro della giustizia aveva richiamato, per giustificare la reiterazione dei precedenti decreti, la sussistenza delle condizioni che erano alla base della motivazione del primo provvedimento. Il ricorrente, d’altro canto, non aveva fornito elementi sufficienti da poter concludere che il prolungamento del regime speciale di detenzione previsto dall’art. 41-bis avesse causato degli effetti fisici o psichici che ricadano nell’art. 3 CEDU. Pertanto la Corte, confermando la sua consolidata giurisprudenza in materia, ha ritenuto che le sofferenze o l’umiliazione che il ricorrente ha subito non superassero quel livello che, inevitabilmente, comporta una specifica e legittima forma di trattamento o di pena.

In merito alla lamentata violazione dell’art. 8 CEDU, invocato sia in relazione alle restrizioni del diritto di visita dei familiari che al controllo della corrispondenza, la Corte, riguardo al primo profilo, ha affermato che il regime di cui all’art. 41-bis è volto a recidere i legami esistenti fra il detenuto e l’ambiente criminale d’origine per scongiurare il pericolo derivante da eventuali contatti.

Prima dell’introduzione di tale riforma del diritto penitenziario, infatti, molti detenuti riuscivano a mantenere la loro posizione all’interno dell’organizzazione criminale di appartenenza, ad organizzare e far eseguire dei reati, a scambiare informazioni con l’esterno e gli altri detenuti; soprattutto per i reati di mafia erano proprio le visite con i familiari che rendevano possibile la trasmissione degli ordini e delle istruzioni dei detenuti verso l’esterno. La Corte ha ritenuto, quindi, che l’ingerenza dell’autorità nella vita familiare e privata sia stata in tal caso necessaria “per la pubblica sicurezza, la difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati in una società democratica” e pertanto ha respinto tale motivo di ricorso.

Quanto al controllo della corrispondenza del detenuto, la Corte ha constatato che il ricorrente ha prodotto delle note emesse dall’amministrazione penitenziaria al più tardi il 2 ottobre 2002; poiché il ricorso è stato presentato il 20 giugno 2003, l’organo giudicante ha osservato che l’interessato non ha rispettato il termine di sei mesi fissato dalla Convenzione e rigettato la relativa doglianza per la sua tardività.

In relazione all’addotta violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, la Corte ha statuito che l’assenza di decisioni sul merito svuota della sua sostanza il controllo esercitato dal giudice sui decreti del Ministro della giustizia ed accolto, quindi, la relativa doglianza.

In merito all’applicazione dell’art. 41 CEDU, il ricorrente non ha presentato domande di equa soddisfazione; di conseguenza, la Corte non ha ritenuto opportuno liquidare alcuna somma a questo titolo.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, par. 1, CEDU – Diritto a un equo processo

Art. 3 CEDU – Proibizione della tortura

Art. 8 CEDU – Diritto al rispetto della vita privata e familiare

L. n. 354 del 1975, come modificata dalla L. n. 356 del 1992, dalla L. n. 279 del 2002 e dalla L. n. 95 del 2004.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 6, par. 1, CEDU – relativamente al diritto all’esame del merito dei ricorsi: Enea c. Italia (ricorso n. 74912/01).

Art. 3 CEDU – in merito ai trattamenti inumani o degradanti: Labita c. Italia (ricorso n. 26772/95), Bastone c. Italia (ricorso n. 59638/00).

Art. 8 CEDU – sotto il profilo delle restrizioni al diritto di visita dei familiari e al controllo della corrispondenza: Enea c. Italia (ricorso n. 74912/01), Gelsomino c. Italia (ricorso n. 2005/03).

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Causa Ogaristi c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 18 maggio 2010 (ricorso n. 231/07)

Diritto a un equo processo – in merito all’opportunità di esaminare o far esaminare in contraddittorio il testimone a carico dell’imputato – violazione dell’art. 6, §§ 1 e 3, lett.d), CEDU – sussiste.

Divieto di discriminazione – sulla presunta disparità di trattamento fra coimputati – violazione dell’art. 14 CEDU – non sussiste.

Proibizione della tortura – in relazione all’impossibilità di ottenere l’audizione del teste –violazione dell’art. 3 CEDU – non sussiste.

La Corte constata la violazione dell’art. 6, §§ 1 e 3, lett. d), CEDU poiché, ai fini del diritto ad un equo processo, è essenziale che all’imputato venga data concretamente la possibilità di procedere ad un confronto diretto con il testimone a suo carico al fine di garantire il contraddittorio su un mezzo di prova decisivo per la condanna del ricorrente.

Fatto. Il ricorrente, attualmente detenuto presso il carcere penitenziario romano di Rebibbia, all’epoca dei fatti fu accusato di aver fatto parte del commando, che il 18 febbraio 2002, a Casal di Principe, uccise un cittadino italiano e ferì gravemente il cognato della vittima, un cittadino albanese ed arrestato a seguito della testimonianza di quest’ultimo, che sulla base di alcune foto segnaletiche dei carabinieri indicò il killer proprio nel sig. Ogaristi.

Il 23 settembre 2002, il ricorrente chiese la fissazione di un’udienza ad hoc dinanzi al giudice per le indagini preliminari in presenza degli avvocati difensori al fine di procedere all’audizione del testimone, che aveva manifestato più volte la volontà di tornare in Albania ed alla ricognizione personale.

Tale richiesta fu rigettata e, nel frattempo, il testimone, recatosi in Albania per un periodo di vacanze, si rese irreperibile.

Rinviato a giudizio dinanzi alla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere per omicidio, tentato omicidio e porto abusivo di armi, con l’aggravante di aver agito per favorire un’organizzazione criminale di tipo mafioso, il ricorrente fu assolto per non aver commesso il fatto con sentenza dell’8 marzo 2004.

In applicazione degli artt. 111 Cost. e 526 c.p.p., la Corte d’Assise valutò inutilizzabili le dichiarazioni del testimone acquisite durante le indagini preliminari in quanto il cittadino albanese si era volontariamente sottratto all’esame degli imputati e dei loro difensori.

Con sentenza del 3 novembre 2005, invece, la Corte d’Assise d’Appello condannò il sig. Ogaristi all’ergastolo in quanto non era stata provata la volontà del teste di sottrarsi all’esame, le dichiarazioni dei testimoni a discarico erano contraddittorie e l’alibi fornito dal ricorrente non era nè coerente, nè convincente.

Con sentenza del 20 giugno 2006, depositata in cancelleria il 6 luglio 2006, la Corte di cassazione, ritenendo che la Corte d’Assise d’Appello avesse motivato in modo logico e corretto tutti i punti contestati, rigettò il ricorso del sig. Ogaristi.

Il 18 dicembre 2006, il ricorrente adiva la Corte EDU, deducendo la violazione dell’art. 6, §§ 1 e 3, lett. d), CEDU (Diritto ad un equo processo) per non aver avuto l’opportunità di esaminare o far esaminare il teste a suo carico, dell’art. 14 CEDU (Divieto di discriminazione) per la presunta disparità di trattamento rispetto al coimputato e dell’art. 3 CEDU (Proibizione della tortura) per l’impossibilità di ottenere l’audizione del testimone.

In data 5 febbraio 2008, un collaboratore di giustizia rendeva dichiarazioni spontanee riguardanti l’agguato del 18 febbraio 2002 - confermate successivamente da altri due collaboratori di giustizia – tali da condurre all’assoluzione del sig. Ogaristi.

Con ordinanza del 26 maggio 2009, la Corte d’Appello di Perugia riteneva che le dichiarazioni in questione potessero in linea di principio condurre alla revisione della sentenza di condanna a carico del ricorrente.

Tuttavia, l’assoluzione di quest’ultimo dipendeva dal definitivo accertamento della responsabilità penale di un individuo appartenente alla criminalità organizzata, il cui processo era ancora pendente.

Pertanto, la Corte d’Appello dichiarava inammissibile allo stato la richiesta di revisione.

Diritto. La Corte ha premesso di non essere competente a pronunciarsi sull’ammissione di dichiarazioni testimoniali come prove ovvero sulla colpevolezza del ricorrente, ma sull’equità del procedimento, incluse le modalità di presentazione dei mezzi di prova e sul conseguente rispetto dei diritti di difesa.

Se l’imputato ha avuto occasione adeguata e sufficiente di contestare dette deposizioni, nel momento in cui sono state rese o in seguito, il loro utilizzo non è di per sé contrario all’articolo 6 §§ 1 e 3 d).

Tuttavia, i diritti della difesa risultano limitati in modo incompatibile con le garanzie dell’articolo 6, nel caso in cui una condanna si basi, unicamente o in misura determinante, su dichiarazioni rese da una persona che l’imputato non ha potuto esaminare o far esaminare, né durante le indagini preliminari, né in dibattimento.

La Corte ha rilevato che la possibilità di utilizzare le dichiarazioni rese prima del dibattimento da testimoni divenuti irreperibili era prevista dall’articolo 512 c.p.p., nella versione in vigore all’epoca dei fatti.

Tale circostanza, però, non può privare l’imputato del diritto, riconosciuto dall’articolo 6 § 3 d), ad esaminare o far esaminare in contraddittorio ogni elemento di prova sostanziale a suo carico.

Nel caso di specie, è stata rigettata la richiesta del sig. Ogaristi di fissare un incidente probatorio dinanzi al giudice per le indagini preliminari, in presenza degli avvocati della difesa, al fine di interrogare il teste e procedere ad una ricognizione personale.

La Corte ha ritenuto che la motivazione della condanna all’ergastolo fosse fondata esclusivamente o almeno in misura determinante sulle dichiarazioni rese dal testimone prima del processo.

Il ricorrente, quindi, non ha beneficiato di un equo processo; di conseguenza, vi è stata violazione dell’art. 6, §§ 1 e 3, lett. d), CEDU.

In merito alla presunta violazione dell’art. 14 CEDU, la Corte ha osservato che la disparità di trattamento non può essere riconosciuta solo per il semplice fatto che, nello stesso procedimento penale o in quelli connessi, alcuni imputati sono stati assolti ed altri condannati.

Del resto, lo stesso ricorrente non ha dimostrato che la sua situazione era simile a quella del coimputato.

Quanto all’allegata violazione dell’art. 3 CEDU, la Corte ha concluso che l’impossibilità di esaminare il testimone a carico non potesse costituire un trattamento tale da raggiungere il livello di gravità minima richiesto ai fini dell’applicazione della disposizione in esame.

Infine la Corte, constatata la sussistenza di un danno morale certo, ha concesso secondo equità la somma di 15,000 euro all’interessato, pur ribadendo che la riparazione più adeguata dovrebbe consistere in un nuovo giudizio del ricorrente, promosso su richiesta del medesimo, in tempo utile e nel rispetto dell’art. 6 CEDU.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, paragrafi 1 e 3, lett. d), CEDU – Diritto a un equo processo

Art. 14 CEDU – Divieto di discriminazione

Art. 3 CEDU – Proibizione della tortura

Art. 111 Cost.

Artt. 512 e 526 c.p.p.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 6, §§ 1 e 3, lett. d), CEDU – relativamente al rispetto dei diritti della difesa e del principio del contraddittorio: De Lorenzo c. Italia (ricorso n. 69264/01); Isgrò c. Italia, sentenza del 19 febbraio 1991, serie A no 194-A, p. 12, § 34; Craxi c. Italia, (ricorso n. 34896/97); Jerinò c. Italia (ricorso n. 27549/02); Bracci c. Italia (ricorso n. 36822/02).

Art. 14 CEDU – sulla disparità di trattamento: Odièvre c. Francia [GC], no 42326/98, § 55, CEDU 2003-III; Salgueiro da Silva Mouta c. Portogallo, no 33290/96, § 26, CEDU 1999-IX; De Lorenzo c. Italia (ricorso n. 69264/01).

Art. 3 CEDU – in merito al raggiungimento del livello minimo di gravità richiesto dalla disposizione: Guzzardi c. Italia, sentenza del 6 novembre 1980, serie A no 39, p. 40, § 107.

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Causa Udorovic c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 18 maggio 2010 (ricorso n. 38532/02)

Diritto a un equo processo – in relazione alla mancanza di pubblicità delle udienze – violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – non sussiste.

Diritto a un equo processo – in merito all’inesatta valutazione di alcuni fatti importanti da parte della Corte d’appello – violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – sussiste.

La mancanza di pubblicità delle udienze può essere giustificata in casi eccezionali alla luce degli obiettivi di efficacia e di rapidità di cui al procedimento controverso e non costituisce violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU qualora siano rispettate le altre garanzie procedurali previste da quest’ultima disposizione.

La Corte, invece, riconosce la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, che sancisce l’obbligo di eseguire un effettivo esame dei mezzi, delle argomentazioni e delle prove offerte dalle parti, salvo poi valutarne la pertinenza.

Fatto. Il ricorrente è un cittadino italiano appartenente alla comunità tzigana dei Sinti che nel 1995 risiedeva nel campo nomadi “Nono” di Roma, autorizzato dal Comune.

All’epoca dei fatti, la polizia municipale effettuò dei controlli e, con decisione del 23 gennaio 1996, il sindaco di Roma stilò un elenco delle strutture ritenute conformi ai criteri previsti dalla legge, fra le quali era stato inserito anche il campo “Nono”.

Inoltre, l’autorità municipale affermò che, per quanto riguardava le famiglie Rom e Sinti, soltanto quelle con bambini in età scolastica che seguivano realmente la scuola dell’obbligo avevano il diritto di risiedere nei campi allestiti dal Comune, aggiungendo che questi criteri personali sarebbero stati verificati dall’amministrazione in occasione di un prossimo censimento.

Successivamente, il sindaco di Roma, con provvedimento del 4 novembre 2009, ordinò lo sgombero del campo, sostenendo che lo stesso non era fornito di acqua potabile e non era dotato di fognature.

Contro i provvedimenti del Comune, il ricorrente promosse due procedure, una davanti all’autorità giudiziaria amministrativa e l’altra davanti all’autorità giudiziaria ordinaria.

Un primo ricorso fu infatti presentato al T.A.R. del Lazio, che in data 19 gennaio 2000 accolse l’istanza di sospensiva del provvedimento emanato in data 4 novembre 2009.

Il Comune di Roma fece appello al Consiglio di Stato, che in data 20 marzo 2000 respinse l’opposizione, confermando la decisione del T.A.R.

Il ricorrente iniziò anche una procedura per atti discriminatori davanti al Tribunale civile di Roma, ai sensi degli articoli 43 e 44 del decreto legislativo n. 286 del 1998 in relazione alle decisioni prese dal sindaco nel 1996 e nel 1999.

Secondo le disposizioni di legge citate, la procedura si svolse in camera di consiglio.

Con ordinanza del 12 marzo 2001, il Tribunale respinse il ricorso affermando che i provvedimenti impugnati non erano discriminatori dato che avevano lo scopo di garantire la salute pubblica dei cittadini residenti vicino al campo nonché quella degli occupanti dello campo stesso.

Il ricorrente fece opposizione, presentando reclamo alla Corte d’appello di Roma.

In particolare, il sig. Udorovic lamentò il carattere discriminatorio della decisione comunale del 1996.

Anche tale procedura si tenne in camera di consiglio, in conformità di legge.

La Corte d’appello di Roma respinse il reclamo in merito alla decisione del 1999, poiché tale provvedimento non era motivato dall’intenzione di nuocere agli occupanti del campo in ragione della loro appartenenza etnica e non si pronunciò sulla legittimità della decisione del 1996, osservando nella sua ordinanza che “nel reclamo del ricorrente non sono reiterate le sue allegazioni riguardanti questa decisione”.

Il sig. Udorovic proponeva, quindi, ricorso ai sensi dell’art. 6, par. 1, CEDU (diritto ad un equo processo), sostenendo che la sua causa non era stata esaminata pubblicamente davanti all’autorità giudiziaria ordinaria.

Diritto. La Corte ha ricordato che spetta in primo luogo alle autorità nazionali, in particolare ai tribunali, interpretare il diritto interno e che nella fattispecie le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato la natura cautelare del procedimento contro la discriminazione ed il carattere provvisorio delle decisioni prese nell’ambito di quest’ultimo.

Lo scopo della domanda era quello di dimostrare la portata discriminatoria delle decisioni del Comune di Roma di evacuazione del campo, dove il ricorrente risiedeva con la sua famiglia, di ottenerne l’annullamento e di liquidare un risarcimento per il danno subito.

In questo contesto, la Corte ha sancito l’applicabilità dell’art. 6 CEDU al procedimento controverso, determinante per la tutela di “diritti di carattere civile”.

Nel caso in esame, l’esclusione del pubblico dalla sala d’udienza è espressamente richiamata dal D. Lgs. n. 286 del 1998, che rinvia alle norme del codice di procedura civile relative ai procedimenti in camera di consiglio.

La Corte ha più volte affermato che, instaurato un procedimento cautelare, in casi eccezionali – ad esempio quando l’effettività della misura richiesta dipende dalla rapidità del processo decisionale – può risultare impossibile rispettare nell’immediato tutte le esigenze previste dall’art. 6 CEDU.

La Corte ha osservato che le autorità nazionali hanno tenuto conto degli imperativi di efficacia e rapidità e che garantire sistematicamente la pubblicità delle udienze avrebbe potuto costituire un ostacolo alla diligenza dell’intervento auspicato dal richiedente.

D’altronde, il ricorrente, assistito da un avvocato di fiducia, ha avuto la possibilità di essere presente alle udienze e di partecipare al procedimento depositando memorie e documenti, nel rispetto delle altre garanzie procedurali previste dall’art. 6 CEDU.

Pertanto, secondo la Corte, la mancanza di pubblicità delle udienze è giustificata alla luce degli obiettivi di cui al procedimento controverso e non determina la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU.

In relazione al presunto errore manifesto della Corte di appello di Roma dato che non è stato esaminato il mezzo d’appello riguardante l’illegittimità della decisione del Comune di Roma del 23 gennaio 1996, la Corte riconosce la violazione del diritto ad un equo processo, ai sensi dell’art. 6, par. 1, CEDU.

In effetti, quest’ultima disposizione implica, soprattutto a carico del “tribunale”, l’obbligo di eseguire un effettivo esame dei mezzi, delle argomentazioni e delle prove offerte dalle parti, salvo poi valutarne la pertinenza.

La Corte ha rilevato che l’analisi del reclamo depositato dal ricorrente in Corte d’appello permetteva di constatare che uno dei mezzi formulati dall’interessato riguardava in maniera esplicita tale decisione amministrativa e ne metteva in discussione il carattere discriminatorio.

Da tale elemento si può constatare che l’ordinanza della Corte di appello sia viziata da una valutazione innegabilmente inesatta di alcuni fatti importanti.

La Corte, ritenendo sussistente un danno morale incontestabile, non sufficientemente riparato dalla constatazione di una violazione, ha assegnato, secondo equità, al ricorrente la somma di 5.000 euro.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, par. 1, CEDU – Diritto a un equo processo

Artt. 43 e 44 del Decreto Legislativo n. 286 del 1998

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 6, par. 1, CEDU – relativamente alla pubblicità delle procedure degli organi giudiziari: Tierce e altri contro San Marino, (nn. 24954/94, 24971/94 e 24972/94, § 92, CEDH 2000-IX).

Art. 6, par. 1, CEDU – in merito all’obbligo di eseguire un effettivo esame dei mezzi, delle argomentazioni e delle prove offerte dalle parti: Artico c. Italia del 13 maggio 1980, serie A no 37, p. 16, § 33.

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Causa Leone c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 2 febbraio 2010 (ricorso n. 30506/07)

Diritto a un equo processo – sotto il profilo della pubblicità del procedimento ex art. 4, comma 6, della l. n. 1423 del 1956, integrata dalla legge n. 575 del 1965 – violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – sussiste.

Nel caso di specie, la Corte constata la violazione dell’art. 6, par. 1, in relazione al procedimento svolto ai sensi dell’art. 4, comma sesto, della legge n. 1423 del 1956, in materia di applicazione di misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, cui provvede il tribunale in camera di consiglio, poiché, ai fini del diritto ad un equo processo, è essenziale che al soggetto interessato del procedimento venga almeno offerta la possibilità di sollecitare una pubblica udienza.

Fatto. Era stato disposto il sequestro di beni nella disponibilità di un soggetto – genero del primo ricorrente e della terza ricorrente e cognato del secondo ricorrente – indiziato di appartenere ad un’organizzazione criminale finalizzata al traffico illecito di stupefacenti in quanto sproporzionati rispetto alle sue fonti di reddito legittimamente dimostrabili, ai sensi dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965.

Tale misura di prevenzione era stata disposta da sezione specializzata del Tribunale di Taranto con ordinanza del 12 giugno 2002 adottata in camera di consiglio.

Con lo stesso provvedimento il Tribunale aveva applicato nei confronti di uno solo dei ricorrenti la misura personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per la durata di 3 anni.

Nell’elenco dei beni sequestrati figuravano edifici, diverse automobili ed un conto bancario appartenente ai ricorrenti.

Quanto alla specifica posizione di questi ultimi, il Tribunale aveva sostenuto che le attività esercitate ed i redditi dichiarati, verificati mediante una consulenza tecnica, non potevano giustificare l’acquisizione di beni di cui erano proprietari.

Sia la Corte d’appello di Lecce con ordinanza del 3 ottobre 2005 che la Cassazione con sentenza del 16 gennaio 2007, depositata in cancelleria il 7 febbraio 2007, avevano rigettato i ricorsi promossi dai ricorrenti e confermato il provvedimento di confisca dei beni.

Veniva, quindi, proposto ricorso ai sensi dell’art. 6, par. 1, CEDU (diritto ad un equo processo), in relazione alla mancanza di pubblicità del procedimento di cui all’art. 4, comma sesto, della legge n. 1423 del 1956, integrata dalla legge n. 575 del 1965.

Diritto. La Corte ha ricordato di aver già esaminato la questione della compatibilità con l’art. 6 CEDU della procedura relativa all’applicazione delle misure di prevenzione nel caso Bocellari e Rizza, analogo a quello in oggetto. In tale occasione era stato affermato che lo svolgimento in camera di consiglio del procedimento di applicazione delle misure di prevenzione, previsto dall’art. 4 della legge n. 1423 del 1956, non aveva permesso ai ricorrenti di chiedere e di ottenere un’udienza pubblica.

Pur ammettendo che in questo genere di procedura possano talvolta entrare in gioco interessi superiori e un elevato grado di tecnicità, la Corte ha giudicato fondamentale, tenuto conto in particolare della posta in gioco delle procedure per l’applicazione delle misure di prevenzione e degli effetti che esse possono produrre sulla situazione personale delle persone coinvolte, che le parti in causa si vedano offrire per lo meno la possibilità di chiedere una pubblica udienza dinanzi alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello.

La Corte ha constatato, quindi, la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU in quanto il controllo del pubblico costituisce una garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato.

In merito alla presunta iniquità della procedura conclusasi con la confisca dei beni dei ricorrenti in assenza di condanna nei loro confronti, la Corte ha rammentato innanzitutto che l’articolo 6 CEDU si applica alle procedure per l’applicazione delle misure di prevenzione nella sua parte civile, tenuto conto in particolare del loro oggetto « patrimoniale » [Arcuri c/Italia (ricorso n. 52024/99); Riela ed altri c/Italia (ricorso n. 52439/99); Bocellari e Rizza c/Italia (ricorso n. 399/02)].

Nel caso si specie, i ricorrenti, rappresentati da un avvocato di fiducia, hanno partecipato alla procedura ed avuto la possibilità di presentare le memorie e i mezzi di prova da essi ritenuti necessari per tutelare i loro interessi.

La Corte ha osservato, inoltre, che i giudici nazionali dovevano accertare e valutare oggettivamente i fatti esposti dalle parti e che niente nel fascicolo lasciava pensare ad una valutazione arbitraria degli elementi sottoposti alla loro attenzione.

Pertanto, la Corte ha rigettato questa doglianza come manifestamente infondata, in applicazione degli artt. 35, §§ 3 e 4, CEDU.

Per le spese che si riferiscono alla presente procedura, la Corte ha giudicato eccessiva la domanda dei ricorrenti e ha deciso di concedere loro, congiuntamente, 3.000 euro a questo titolo.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, par. 1, CEDU – Diritto a un equo processo

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 6, par. 1, CEDU – relativamente alla possibilità per i ricorrenti di chiedere ed ottenere una pubblica udienza nella procedura riguardante l’applicazione delle misure di prevenzione: Bocellari e Rizza c. Italia (ricorso n. 399/02), Perre e altri c. Italia (ricorso n. 1905/05).