Hokusai. Il vecchio pazzo per la pittura
Hokusai. Il vecchio pazzo per la pittura
Katsushika Hokusai pittore, incisore e poeta( 1760-1849), con Utamaro è il più noto del gruppo di artisti che resero celebre la pittura e la stampa d'arte giapponese nell'intera Europa e nel mondo. Di questa civiltà, giunta al suo estremo, colpì la novità, la grazia e la forza, il senso poetico della vita e lo spirito guerriero grazie ai quali si potevano creare immagini di rara eleganza, comporre versi di struggente malinconia, uccidere o essere uccisi con aristocratica indifferenza.
Hokusai è nome d'arte, quello che lo ha reso noto in occidente tra quanti vennero via via scelti dall'artista, come si usava, per indicare i diversi periodi della propria attività; con quel poeticissimo pseudonimo, Hokusai significa “Studio della stella Polare”, è arrivato fino a noi. Che fosse nato per l'arte ce lo ricorda lui stesso scrivendo:<Dall'età di sei anni ho la mania di copiare le forme delle cose>; già avanti con l'età si dichiarerà: <Il vecchio pazzo per la pittura>. Un'aura romantica impregna la sua vita, a volte drammatica, come quando, durante la grande carestia, pur già famoso si vedrà costretto ad offrire ai passanti le proprie opere, frutto di puntigliose ricerche.
Uomo della tradizione e con l'irrequietezza dei tempi a venire, per l'intera esistenza insegue un sogno di possesso, un desiderio di perfezione che dovrebbe portarlo a suscitare la vita in un segno, o anche soltanto in un punto, tracciati a inchiostro sulla carta:<...a cent'anni avrò forse raggiunto la dimensione del divino e del meraviglioso. Quando ne avrò centodieci, anche un solo punto o una linea saranno dotati di vita propria>. La vita che osserva attentamente pulsare in ogni cosa creata, da un filo d'erba a un insetto, vorrebbe poterla carpire, dominare, farla sua per imprimerla in ciò che fa e restituirla arricchita dalla propria fantasia. Ma superati i settant'anni gli sembra di aver raggiunto ben poco e se ne duole scrivendo:<Tra quel che ho raffigurato in questi settant'anni non c'è nulla degno di considerazione. A settantatré ho un po' intuito l'essenza della struttura di animali e uccelli, insetti e pesci, della vita delle erbe e piante>. Ancora resta tanto da fare, da sapere, da risolvere. Vecchio e disincantato, vedrà dileguarsi anche la speranza e sfogandosi con la figlia Oei, anche lei pittrice, scoppierà in lacrime.
Questa grande mostra di Hokusai, oltre ai dipinti e ai disegni, rappresenta l'apoteosi della xilografia, in nero e a colori, affidata a tavole sciolte, a libri d’artista, a manuali o a semplici biglietti augurali. I preziosi libri figurati, stampati a mano e piegati a fisarmonica, con lo scritto o senza, potevano essere stampati anche in migliaia di copie; poiché un'emergente borghesia mercantile ambiva circondarsi di quelle raffinatezze un tempo possesso esclusivo della nobiltà, ora in declino, e assaporare la seduzione di tutto ciò che sapesse di aristocratico, di elevato, di bello. Se anche i soggetti mutavano, per accattivarsi il gusto dei nuovi committenti, la qualità restava alta e l'incanto assicurato.
Per il pittore giapponese dipingere era un rito, una preghiera, un'elevazione spirituale: come la pratica zen del tiro con l'arco, occorreva divenire un tutt'uno col bersaglio, con l'oggetto da rappresentare, e quindi massima concentrazione, inchiostri trasparenti e pennelli fini e morbidissimi per far sì che ogni passaggio sul foglio avesse più della carezza, del gesto simbolico e mistico che del mestiere. Forse per questo i maestri del Sol Levante non pensarono mai ad incidere direttamente i legni per la xilografia; non videro, nel lavoro diretto sulla tavoletta, una fase (e come importante) della creazione artistica relegando questa particolare manualità al livello artigianale da affidarsi all'intagliatore di professione. L'artista si limitava a fornire il disegno che l'intagliatore incollava a rovescio sulla tavoletta di ciliegio e quindi incideva.
Eppure, proprio Hokusai si lamentava spesso per la scarsa capacità e infedeltà al disegno da parte degli intagliatori e pregava gli editori perché affidassero il lavoro ad artigiani di sua fiducia rassicurandoli che non chiedeva questo per guadagnarci sopra:<Dicendovi questo però, sia chiaro che è lungi da me qualsiasi intenzione di accaparrami una parte del compenso dell'intaglio. Voglio solo portare a termine un libro di buona qualità>.
Nella sua, per allora lunghissima vita operativa, novant'anni, il pittore di Edo non dimenticò un solo aspetto della natura. Una volta scelto il soggetto lo ripeteva in tutte le possibili varianti. Con il cono del sacro monte Fuji poteva empire la pagina o proiettare la sagoma lontano, guardarlo da una finestra, da un fiume coi pescatori o da un magazzino di legnami; nel fondo, anche minuscola, doveva apparire la vetta innevata del vulcano. Lo stesso poetico ritorno si ripeteva per il tema degli argini, delle cascate, dei fiori o degli animali, delle erbe o degli insetti.
Pittore completo, poteva passare indifferentemente dall'immagine sacra alla scena di combattimento, magari tra attori, o a quella erotica: le piccanti “Sciunga” (immagini della primavera) nelle quali per la prima volta nell'arte giapponese faceva la sua comparsa il nudo. Corpi spesso talmente attorti negli amplessi da sconvolgere ogni limite anatomico, il fine non essendo la verità scientifica ma la poesia amorosa, l'armonia, il sogno.
Sigfrido Bartolini