I giudizi della Suprema Corte sulla tassazione dei beni nei trust
Lodevolmente è stato dato il giusto rilievo e sono state accolte con molta soddisfazione, da parte degli operatori del diritto, delle banche, delle fiduciarie, nonché di tutti coloro che sono più o meno direttamente interessati a queste tematiche, le sette sentenze del Supremo Collegio – Cass. V Sezione Civile, n.16699,16700,16701,16702,16703, 16704 e 16705 del 21 giugno 2019 – che, a detta dei più autorevoli commentatori ed esegeti, avrebbero dovuto mettere il suggello definitivo sulla vexata quaestio della tassazione degli apporti in trust.
Dette sentenze hanno indicato con “chiaro latin” quelli che non sono solo principi di buon senso, perché ciò non sarebbe sufficiente, ma capisaldi giuridicamente incontestabili e soprattutto coerenti con la natura del trust in cui, come è noto ormai anche ai non addetti ai lavori,
il trustee non si arricchisce con i beni che gli vengono trasferiti nell’interesse dei beneficiari dal momento che, per dirla in altre parole, egli ha il titulus, ma non il commodum.
Ciò che è interessante rilevare è che le sentenze di cui si è detto sgombrano veramente il terreno in modo definitivo, vorremmo sperare, stabilendo che l’imposizione differita, al momento in cui i beneficiari diverranno titolari dei beni del fondo in trust, si applica sia nel caso di trust autodichiarato (la cui legittimità viene ribadita sia pure con un obiter), sia nel caso di trust c.d. commerciali, sia nella classica ipotesi del trust successorio.
Per dirla in breve, per tutte le fattispecie, indipendentemente dalla natura dei beni che vengono apportati, a meno che (Cass. V sezione civile n. 16701 - 21 giugno 2019) “non sia individuabile un effetto traslativo immediato propriamente detto - perché realizzato in via diretta e senza alcuna volontà di segregazione/destinazione” così che “sembri addirittura dubitabile la stessa ravvisabilità in concreto della causa negoziale di trust. Nel qual caso, non è più un problema di fiscalità del trust quanto, se mai, di attribuzione all’atto della sua più appropriata qualificazione secondo intrinseca natura ed effetti giuridici”.
Molto semplicemente:
se non siamo di fronte a un trust, il trattamento fiscale non può essere il medesimo.
Ma, al di là di questa incontrovertibile affermazione, la citata sentenza prosegue con un linguaggio che non si presta certamente a letture più o meno ambigue:
“Ferma restando l’indubbia discrezionalità del legislatore nell’individuare i presupposti impositivi, questa discrezionalità deve pur sempre muoversi in un ambito di ragionevolezza e di non arbitrio (Corte cost. n. 4 del 1954 e n. 83 del 2015), posto che la capacità contributiva in ragione della quale il contribuente è chiamato a concorrere alle pubbliche spese “esige l’oggettivo e ragionevole collegamento del tributo ad un effettivo indice di ricchezza” (Corte cost. ord. n. 394 del 2008).
E, in materia, tale indice non prende consistenza prima che il trust abbia attuato la propria funzione”.
“Quanto osservato in ordine alla non individuabilità, nella costituzione del vincolo, di un autonomo presupposto di imposta vale anche ad escludere che l’atto istitutivo del trust e quelli di dotazione/provvista del medesimo siano alternativamente assoggettabili all’imposta sulle donazioni; di questa mancano infatti gli elementi costitutivi rappresentati sia dalla liberalità sia dal concreto arricchimento mediante effettivo trasferimento di beni e diritti, secondo quanto evincibile dall’art. 1 TU n. 346 del 1990 cit”.
“Analoghe considerazioni valgono per l’imposta ipotecaria e catastale sui trasferimenti immobiliari di dotazione del trust. Anche in tal caso (così Cass. n. 25478 del 2015 cit.) la mancanza di un effetto traslativo “reale” - con ciò ovviamente intendendosi non un trasferimento “simulato” o “fittizio” o “non voluto”, ma un trasferimento non stabile, non definitivo e con limitazioni d’esercizio e godimento - osta all’imposizione proporzionale, essendo quest’ultima prevista per la trascrizione di atti «che importano trasferimento di proprietà di beni immobili o costituzione o trasferimento di diritti reali immobiliari sugli stessi».
Dunque,
in ogni tipologia di trust l’imposta proporzionale non andrà anticipata né all’atto istitutivo né a quello di dotazione, bensì riferita a quello di sua attuazione e compimento mediante trasferimento finale del bene al beneficiario”.
E, riassumendo sinteticamente le argomentazioni svolte:
“la costituzione del vincolo di destinazione di cui all’art. 2, comma 47, d.l. n. 262 del 2006, convertito dalla L. n. 286 del 2006, non integra autonomo e sufficiente presupposto di una nuova imposta, in aggiunta a quella di successione e di donazione;
per l’applicazione dell’imposta di donazione, così come di quella proporzionale di registro ed ipocatastale, è necessario che si realizzi un trasferimento effettivo di ricchezza mediante attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale;
nel trust di cui alla I. n. 364 del 1989, di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’Aja 10 luglio 1985, un trasferimento così imponibile non è riscontrabile né nell’atto istitutivo né nell’atto di dotazione patrimoniale tra disponente e trustee - in quanto meramente strumentali ed attuativi degli scopi di segregazione e di apposizione del vincolo di destinazione - ma soltanto in quello di eventuale attribuzione finale del bene al beneficiario, a compimento e realizzazione del trust medesimo”.
Non sembra che vi sia altro da aggiungere.
Con una pronuncia di pochi giorni precedente poi, la stessa quinta Sezione del supremo Collegio, V sezione civile, n. 15453 - 7 giugno 2019, si era così espressa in ordine a una fattispecie di ricorrente applicazione e di grande impatto per le conseguenze a essa riconducibili:
“Il conferimento dei beni della massa fallimentare di una s.r.l. in un trust finalizzato alla liquidazione dei beni e al soddisfacimento dei creditori della società fallita è esente dall’imposta sulle successioni e donazioni in quanto l’acquisto del trustee ha carattere solo formale, transitorio, vincolato e strumentale”.
In particolare questa sentenza ha implicazioni assai ampie e rilevanti perché
escludendo l’applicazione di un’imposta (8%) che risulterebbe ostativa per l’impiego dello strumento, consente il ricorso al trust in situazioni in cui esso si rivela particolarmente efficace perché consente una gestione economicamente attraente di beni o di patrimoni la cui frettolosa liquidazione, imposta sotto la spinta di scadenze impellenti o con procedure assai penalizzanti (vendita all’asta), rappresenta una penalizzazione ulteriore per l’imprenditore e per i suoi creditori.
Tutto bene, allora, si potrebbe concludere.
E invece no, o almeno non ancora, perché, tanto per fare un esempio, l’Agenzia delle Entrate della Toscana, si rifiuta di uniformarsi ai principi enunciati dalla Corte e, con una sorta di stravagante strabismo pretende, in caso di tassazione principale, le imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale, oltre all’imposta di successione in ragione del grado di parentela intercorrente fra disponente e beneficiari con conseguenze che appaiono devastanti circa l’utilizzo dell’istituto.
Ma siccome in sede di contenzioso l’Agenzia risulta, e oggi ancora di più lo sarà a seguito di questo indirizzo giurisprudenziale, sistematicamente soccombente, o, perlomeno, tale nella stragrande maggioranza dei casi, è lecito chiedersi se in questa ostinata condotta non sia configurabile un danno erariale per le spese incorse dall’amministrazione finanziaria per sostenere tesi manifestamente strampalate e che non trovano supporto in un inquadramento della fattispecie che la dottrina da tempo e ora, in modo inequivocabile anche alla giurisprudenza, nella sua massima espressione, condivide.