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I limiti al diritto di critica del lavoratore

nei confronti del datore di lavoro nella giurisprudenza di legittimità
Autunno
Ph. Luca Martini / Autunno

Il diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione è riconosciuto nel nostro ordinamento già dall’art. 21 della Carta costituzionale, oltre che dallo Statuto dei lavoratori.

È importante capire se tale diritto, in particolar modo nella forma dell’esternazione di un apprezzamento negativo, dunque di critica, incontri dei limiti in ambito lavorativo ed eventualmente in che misura.

 

Il diritto di critica del lavoratore nei luoghi di lavoro

L’art. 1 dello Statuto dei lavoratori (l. 20 maggio 1970 n. 300) riconosce il diritto dei lavoratori di manifestare liberamente il proprio pensiero nei luoghi dove prestano la loro opera, ma nel rispetto dei principi della Costituzione e dello stesso Statuto.

In particolare, essendo il diritto di critica del lavoratore una manifestazione del pensiero che mira a cogliere aspetti negativi e per l’appunto a criticare il rapporto di lavoro e l’operato del datore, entra in frizione e trova un limite nel dovere di fedeltà nei confronti del datore di lavoro, nonché nel principio di buona fede e correttezza.

Detto dovere, imposto al lavoratore dall’art. 2105 cod. civ. non riguarda solo gli aspetti meramente economici del rapporto lavorativo, ma anche i più generali canoni di correttezza e buona fede nell’esecuzione dello stesso.

Nel corso degli anni la giurisprudenza ha così individuato dei limiti al diritto di critica che, ove travalicati, consentono al datore di comminare un licenziamento per giusta causa in virtù di una definitiva lesione del rapporto fiduciario.

 

I limiti al diritto di critica del lavoratore

I limiti individuati dalla giurisprudenza di legittimità possono essere suddivisi in esterni ed interni, i primi impongono che l’esercizio del diritto di critica e più in generale di cronaca debba essere rivolto al soddisfacimento di un interesse giuridicamente rilevante; i secondi attengono alla continenza formale ed alla continenza sostanziale della critica.

Per continenza sostanziale si intende che i fatti narrati dal lavoratore rispondano a criteri di veridicità, per continenza formale si intende che l’esercizio del diritto di critica si esplichi senza travalicare i parametri della correttezza e del decoro (cfr., Cass., sez. lav., 25 febbraio 1986, n. 1173, si tratta di una delle prime e più importanti sentenze della Corte di Cassazione a delineare ed inquadrare i limiti al diritto di critica del lavoratore).

Il giudice deve, pertanto, verificare se nel caso concreto il lavoratore si sia limitato a difendere la propria posizione, senza travalicare il rispetto della verità oggettiva, e se lo abbia fatto utilizzando modalità tali da non ledere gratuitamente il decoro del proprio datore di lavoro, arrecando un danno all’impresa (ex multis, Cass, sez., lav., 26 ottobre 2016 n. 21649; Cass., sez., lav., 8 luglio 2009 n. 1900).

 

I limiti al diritto di critica del lavoratore: alcune recenti vicende

Vale la pena esaminare alcune recenti decisioni della Suprema Corte che sono tornate, seppur in situazioni peculiari, sul tema dei limiti al diritto di cronaca del lavoratore nei confronti del datore di lavoro.

La prima (Cass., sez., lav., 16 febbraio 2017 n. 4125) ha fatto salvo il diritto di critica del lavoratore anche nell’ipotesi in cui lo stesso abbia sottoscritto una denuncia penale nei confronti del datore di lavoro; la seconda (Cass., sez., lav., 3 dicembre 2018, n. 31155) ha ravvisato un superamento dei limiti nelle ripetute minacce di morte rivolte dal lavoratore al proprio direttore responsabile.

Per i giudici di legittimità deve essere riconosciuta la libertà del lavoratore di denunciare il proprio datore poiché si tratta non solo dell’esercizio del diritto di critica, ma anche del perseguimento di un interesse primario dello Stato a reprimere le violazioni di legge, che nessun obbligo di fedeltà può comprimere; a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell’illecito.

Viceversa, costituisce un chiaro superamento dei limiti al diritto di critica il caso in cui il lavoratore minacci ripetutamente il datore di lavoro minando il rapporto fiduciario, incutendo timore nel soggetto passivo e destabilizzando l’ambiente di lavoro e l’attività aziendale.

In modo analogo, non è stato ravvisato un esercizio del diritto di critica, ma un evidente travalicamento dei limiti allo stesso, nel caso in cui il lavoratore abbia pronunciato, in maniera del tutto gratuita, frasi offensive ed ingiuriose nei confronti del datore in presenza di altri lavoratori, ledendone pubblicamente la reputazione e l’onore (Cass., sez., lav. 18 luglio 2018, n. 19092).

Nota alle cronache è poi la sentenza con la quale la Suprema Corte ha annullato la decisione di merito che aveva ritenuto esercizio legittimo del diritto di critica la condotta di alcuni lavoratori che, di fronte all’ingresso del fabbricato aziendale, avevano inscenato una macabra rappresentazione del suicidio dell’amministratore delegato della società, attribuendogli la responsabilità della morte di alcuni dipendenti (Cass., sez., lav., 6 giugno 2018, n. 14527).

Merita, inoltre, di essere menzionata la recente decisione (Cass., sez., lav., 18 gennaio 2019, n. 1379) con la quale è stato nuovamente ribadito come il giudice debba verificare se il lavoratore abbia utilizzato toni e modalità comunicative di per sé non offensive e volgari, se oggetto di critica sia un qualcosa di attinente all’attività lavorativa, al rapporto o al luogo di lavoro e non, ad esempio, alle qualità morali o alle vicende personali del datore di lavoro; ed infine, se la critica risponda o meno a criteri di veridicità. Nel caso di specie la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata rinviato alla Corte di Appello affinché i Giudici di merito potessero vagliare in maniera critica l’affermazione contestata (il lavoratore lamentava pubblicamente il mancato utilizzo di un macchinario dell’azienda per far volutamente ricorso a ditte esterne) spiegando, in motivazione, perché ritenuta o meno lesiva dell’onore e della reputazione del datore di lavoro.

In conclusione, dall’analisi della giurisprudenza di legittimità più recente, che fa propri e sviluppa gli approdi della Suprema Corte consolidatasi negli anni, emerge un contemperamento tra il diritto di critica e l’obbligo di fedeltà nei confronti del datore di lavoro, nonché del rispetto della sua reputazione e onore. Il lavoratore ha senz’altro il diritto di manifestare il suo pensiero all’interno del luogo di lavoro criticando, se del caso, l’operato del proprio datore; tuttavia, non possono mai essere travalicati certi limiti di forma e sostanza, volti a garantire l’obbligo di fedeltà nei confronti del datore, la sua reputazione e la correttezza del rapporto lavorativo.

 

Limiti al diritto di critica: il caso del lavoratore sindacalista

I limiti al diritto di critica si riducono notevolmente nel caso in cui il lavoratore sia anche sindacalista, svolga cioè attività di rappresentanza sindacale all’interno dell’azienda. In tali ipotesi il lavoratore è espressione di un’attività costituzionalmente tutelata e diretta a perseguire gli interessi collettivi dei lavoratori, per cui, non può vedere la propria autonomia subordinata a quella del datore di lavoro. Lo stesso limite della continenza formale subisce una forte riduzione per via della possibilità concessa al rappresentante sindacale di utilizzare toni ed espressioni maggiormente forti e idonee a far comprendere la posizione dei propri rappresentati.

Pertanto, nel caso in cui ad esercitare il diritto di critica sia un lavoratore sindacalista, il giudice dovrà verificare nel caso concreto la riconducibilità formale e sostanziale dell’agire del rappresentante all’attività sindacale, il tipo di modalità comunicativa (che potrà essere maggiormente colorita rispetto a quella del semplice lavoratore) e, soprattutto, la presenza di un’attività volta a tutelare i diritti sindacali dei lavoratori (ex multis, Cass., sez., lav., 3 novembre 1995 n. 11436; Cass., sez., lav., 5 luglio 2002 n. 9743; Cass., sez., lav., 24 maggio 2001, n. 7091; Cass., sez., lav., 10 luglio 2018 n. 18176).

D’altronde, appare corretto che nel bilanciamento dei contrapposti interessi si tenga conto della funzione svolta dal rappresentante sindacale. Funzione costituzionalmente tutelata e certamente meritevole di legittimare una qualche riduzione dei limiti al diritto di critica.

 

Limiti al diritto di critica del lavoratore: i social network

Infine, vale la pena trattare brevemente la questione legata all’avvento ed all’impatto delle tecnologie e dei social network sul diritto di critica. Capita oramai di frequente che il lavoratore esterni le proprie considerazioni sull’operato della propria azienda, del proprio datore di lavoro utilizzando le più famose piattaforme digitali.

Emblematica, sul punto, è la decisione della Corte d’Appello di Torino (sentenza del 17/05/2017 n. 559) confermata innanzi alla Corte di Cassazione (Cass., sez., lav., Ordinanza 12 novembre 2018, n. 28878), secondo la quale i social network costituiscono luoghi pubblici e tutto ciò che viene ivi pubblicato può essere valutato dal giudice se rilevante; a meno che, il materiale non sia stato acquisito in maniera illecita, ad esempio forzando le credenziali di accesso.

Oltretutto, se anche il lavoratore contesti la paternità di quanto comunicato a “mezzo social” sostenendo, ad esempio, di aver lasciato incustoditi pc o smartphone, sarà suo onere dimostrare l’accesso abusivo da parte di terzi. Per il datore di lavoro sarà perciò sufficiente portare all’attenzione del giudice i contenuti pubblicati, specie se le frasi sono verosimili e rafforzate da testimoni.

I tradizionali limiti individuati dalla giurisprudenza valgono, pertanto, anche ed a maggior ragione quando la critica del lavoratore viene espressa a mezzo di strumenti in grado di trasmettere dati e notizie ad un numero ingente di persone, aumentando notevolmente il disvalore dell’illecito disciplinare, ove comprovato.