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Il Covid e il processo penale: la pubblicità dell’udienza garanzia di trasparenza e di rispetto dei diritti

Marina di Ravenna
Ph. Enrico Gusella / Marina di Ravenna

La giustizia penale sembra impantanata in una palude melmosa, con il beneplacito del governo e dei magistrati e dei sindacati del personale di cancelleria. La “ripresa”, in realtà non c’è mai stato un inizio, delle udienze e del pieno funzionamento dei tribunali non è una priorità come la scuola.

La stasi creatasi è, a mio avviso, prodromica ad un nuovo tentativo di introdurre nel nostro sistema il processo penale da remoto o telematico. L’arrivo della cosiddetta seconda ondata Covid e l’introduzione del processo da remoto, in pianta stabile, anche nell’ambito amministrativo forniscono nuova linfa ai fautori del processo telematizzato.

Una sorta di ricatto strisciante all’avvocatura, l’unica ad opporsi compatta all’idea del processo virtuale. La pressione alla classe forense deriva dalla lunga sostanziale inattività e sembra sostanziarsi nell’assunto: “Volete lavorare? Allora il processo da remoto dovete accettare”.

Il primo tentativo è stato respinto ma ora, alla ripresa della pausa estiva si percepisce uno smarrimento nella frastagliata e numerosa classe forense derivante dalla frammentazione degli interlocutori (i capi degli uffici giudiziari sparsi sul suolo italico) e dalla assenza di un piano nazionale per la “ripresa” in sicurezza delle udienze.

Ritengo che la battaglia, per la difesa dei diritti e della pubblicità e trasparenza dell’udienza partecipata, del e nel processo penale, dovrà continuare con le parole:

«La giustizia c’è, bisogna che ci sia, vogliamo che ci sia. Voi politici dovete ascoltarci». Parafrasando Calamandrei nel suo Elogio dei Giudici, scritto da un avvocato.

In questo periodo emergenziale, noi avvocati dobbiamo sottolineare le peculiarità del processo penale, che non debbono permettere di pensarlo come un processo da “remoto”. Senza concedere deroghe, anche per quelle udienze che vengono eufemisticamente indicate come di “mero smistamento o di ammissione delle prove”. Cedere alla suggestione tecnologica, significherebbe introdurre un cavallo di Troia nel fortino delle garanzie. Senza considerare che le udienze di ammissione delle prove sono il fulcro del processo penale e non delle “mere udienze”.

Nel processo telematico, il Giudice, il pubblico ministro e l’avvocato saranno distanti fisicamente e solo un flebile “contatto” telematico li unirà. In tutto questo, l’attore principale del processo, l’imputato, sarà relegato a figura sbiadita ed evanescente.

La tecnologia da “remoto” impoverisce e semplifica oltremisura la comunicazione e il dibattito processuale. Già la parola da “remoto” inquieta e insospettisce.

Il processo penale non è mai stato un processo “isolato, lontano, poco frequentato” ma un processo “pubblico, diffuso, parlato e ascoltato. Pubblico, inteso come possibile partecipazione del popolo nell’aula e come pubblicità, tramite i mezzi di informazione, di ciò che avviene nell’aula.

Come scriveva Cesare Beccaria: «…pubblici siano i giudizi e pubbliche le prove del reato, perché l’opinione, che è forse il solo cemento della società, imponga un freno alla forza ed alle passioni ...». La pubblicità deve garantire la trasparenza e la presenza del pubblico funge da deterrente, anche per i comportamenti “inconsueti ed autoritari del giudicante”.

Il processo da “remoto” esclude il pubblico e la pubblicità dell’udienza; ma soprattutto elimina l’oralità e le garanzie processuali.

Tutto questo lascia presagire il rischio concreto di un aumento degli errori giudiziari, una piaga del nostro sistema, spesso taciuta e silenziata.

Il processo da “remoto” non è il “progresso” o un passaggio ineludibile, come superficialmente viene descritto. Tra i tanti, anche Nicola Gratteri sul Foglio il 17.11.2018 enfatizza il processo penale telematico: «Il fatto è che bisogna andare avanti, non indietro» e ancora, di recente: «sarà l’emergenza del Coronavirus ad accelerare l’avvento della giustizia telematica».

Nell’antica Roma era il Giano Bifronte il Dio del passaggio; degli inizi di un nuovo periodo. Ma, attenzione non dello sterile progresso, come superficialmente si ritiene, ma del passaggio nella fissità e l’immobilità del terzo e costante presente.

Il processo da “remoto” è un “non processo” perché elimina il Tribunale come luogo fisico. Il tribunale è un luogo aperto, non per niente nell’antica Roma nel Foro si discutevano le cause davanti al pubblico.

La pandemia e l’emergenza sanitaria non possono e non devono comprimere il diritto alla pubblicità del processo penale, una garanzia di trasparenza per tutti. Il diritto all’informazione e alla pubblicità del processo penale è sancito da plurime disposizioni di matrice internazionale che contemplano, tra i diritti fondamentali dell’individuo, la trattazione in forma pubblica delle udienze penali (segnatamente, l’articolo 10 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’articolo 6, par. 1, CEDU, l’articolo 47, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e l’articolo 14, par. 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici).

La Corte europea ha sottolineato che la pubblicità del dibattimento è principio volto a tutelare i singoli da una giustizia che sfugge al controllo del pubblico e rappresenta così uno degli strumenti per contribuire al mantenimento della fiducia nei tribunali. Il principio di pubblicità previsto dall’articolo 6 Cedu, richiama due momenti procedurali e finalità: rendere trasparenti l’operato e la decisione finale del giudice. La ratio di siffatta disposizione è ravvisata dalla Cedu, nella necessità di tutela «contro una giustizia segreta, sottratta al controllo del pubblico» (Corte Edu, 14.11.2000 Riepan c. Austria); visto che la pubblicità rappresenta «il mezzo per realizzare la trasparenza dell’amministrazione della giustizia» (Corte Edu, 25.07.2000 Tierce ed altri c. San Marino).

La pubblicità del dibattimento penale è il fondamento del nostro ordinamento processualistico ed è pertanto, evidente che il processo da “remoto” tenuto in piattaforme escludenti il pubblico e la pubblicità sarebbe la fine del processo e delle sue garanzie, per non parlare della distanza “telematica” tra avvocato e imputato e del conseguente impoverimento della comunicazione.

Non vogliamo arrivare al processo di Kafka: «Il processo è entrato in uno stato in cui non è più possibile portare nessun aiuto, passa sotto la competenza di corti inaccessibili, ove l’imputato non è più raggiungibile neppure dall’avvocato».