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Il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia: le Sezioni Unite affermano la natura concorrenziale degli atti lesivi della libertà di impresa

The Crime of Unlawful Competition with Violence or Threat: the Joint Sessions state the Competition Nature of Acts Harmful to the Freedom of Enterprise
Independence Day, l'astratto a fuoco
Ph. Giacomo Porro / Independence Day, l'astratto a fuoco

Articolo pubblicato nella sezione La triade del giudizio del numero 1/2020 della Rivista "Percorsi penali".

 

Abstract

Lo scritto commenta la recente sentenza n. 13178 del 28 novembre 2019 della Suprema Corte di cassazione a sezioni unite in cui si afferma la natura concorrenziale degli atti costitutivi del delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia ai fini della sussistenza del reato.

The paper is a comment to the recent sentence n. 13178/2019 pronounced by Joined Chambers of the Court of Cassation which states the competitive nature of actions for the crime of unfair competition with violence or threat.

 

Sommario

1. Premessa

2. La fattispecie di reato. Cenni storici

2.1. L’elemento oggettivo: la controversia giurisprudenziale e il rapporto con le altre figure di reato

2.2. L’elemento soggettivo e l’interesse giuridico tutelato

3. La soluzione della Corte

4. Conclusioni, profili critici e riflessioni a margine

 

Summary

1. Introduction

2. Constitutive elements of crime. Brief notes

2.1. Objective element: the jurisprudential conflict and the connection with the other crimes

2.2. Subjective element and the legal interest protected

3. The decision of the Court

4. Conclusions, critical points and reflections

 

1. Premessa

Con la sentenza in epigrafe le Sezioni unite della Corte di cassazione, chiamate a pronunciarsi su rimessione della terza sezione penale, dirimono il contrasto giurisprudenziale su una questione da lungo tempo irrisolta nella giurisprudenza di legittimità circa l’applicazione, o più precisamente la natura degli atti costitutivi, della fattispecie di reato di cui all’art. 513-bis c.p., illecita concorrenza con minaccia o violenza.

L’oggetto della controversia involgeva il concetto di “atti di concorrenza” menzionato dalla norma, in quanto, non essendoci univocità di interpretazione, non era chiaro se per “atti concorrenziali” si facesse riferimento esclusivamente alle cd. “condotte concorrenziali tipiche”, così come descritte dall’art. 2598 c.c., o se, invece, l’espressione ricomprendesse qualsiasi atto di violenza o minaccia idoneo a ostacolare la regolare dinamica concorrenziale.

Il caso in esame, infatti, vedeva coinvolti due soggetti condannati in primo e secondo grado per i delitti di illecita concorrenza con minaccia o violenza e di lesioni, a seguito di aggressione con calci, pugni e minacce nei confronti di un dipendente di un’impresa concorrente al fine di indurre quest’ultima a ritirarsi, mantenendo l’esclusiva sul territorio.

Tra i motivi di ricorso, la difesa contestava l’erronea applicazione dell’art. 513-bis c.p., sostenendo, nello specifico, che gli atti intimidatori contestati agli imputati non potessero essere qualificati in termini di “atti di concorrenza” ai sensi della norma incriminatrice in questione.

La terza sezione penale, chiamata a pronunciarsi a riguardo, riconosceva la sussistenza di questa dicotomia interpretativa e rimetteva la questione alle Sezioni unite, le quali, fugando definitivamente il dubbio, rispondevano al quesito «se, ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza, sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente il compimento di atti di violenza o minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza sia solo la mira teleologica dell’agente»[1].

 

2. La fattispecie di reato. Cenni storici

Orbene, prima di accingersi al commento della pronuncia in esame, appare opportuna una breve presentazione del reato in contestazione di modo da cogliere più vivamente il contenuto della soluzione pretoria.

Del resto, la fattispecie di cui all’art. 513-bis c.p., nonostante la sua ormai risalente introduzione nell’ordinamento italiano, conservava ancora profili critici irrisolti non soltanto sulla natura degli atti integrativi del reato, stanti i confini indefiniti del concetto di “atti concorrenziali”, ma anche in merito alla qualificazione dell’elemento soggettivo e in ordine agli interessi giuridici tutelati, oltre ai rapporti con altre figure di reato.

La fattispecie trovava il suo ingresso nell’ordinamento penale italiano con la legge n. 646 del 13 settembre 1982, la cd. legge Rognoni-La Torre, fortemente voluta dai due firmatari al fine di arginare il dilagante fenomeno mafioso di quegli anni, nonché fautrice del reato di cui all’art. 416-bis c.p.[2], per fronteggiare quei comportamenti intimidatori, in uso nella criminalità organizzata mafiosa, volti ad ottenere il controllo economico su un determinato territorio di modo da ottenerne l’egemonia commerciale e produttiva, eliminando il sistema di libera concorrenza.

Difatti, come emerge dai lavori preparatori alla legge, il legislatore era conscio delle specifiche “imprese mafiose”, abili a “piazzarsi” nel mercato libero e lecito, sfruttando il vantaggio conseguito attraverso meccanismi illeciti, come, appunto, l’intimidazione e la violenza, con la conseguenza che la volontà del legislatore era proprio quella di punire «un comportamento tipico mafioso che è quello di scoraggiare con esplosione di ordigni, danneggiamenti o con violenza alle persone, la concorrenza»[3].

Dunque, se da una parte l’intento del legislatore era palese, dall’altra la lettera della norma non permetteva di individuare chiaramente quali comportamenti fossero di per sé sufficienti a integrare il delitto, generando, così, nell’interprete il dubbio circa l’effettiva applicazione della norma e se nel rispetto ad ogni costo della volontà del legislatore non si ravvisasse in sé un’evidente violazione del principio di legalità.

 

2.1. L’elemento oggettivo: la controversia giurisprudenziale e il rapporto con le altre figure di reato

L’art. 513-bis c.p. sanziona la condotta di chi compie atti di concorrenza con violenza o minaccia e, secondo l’indirizzo prevalente in dottrina e in giurisprudenza, la fattispecie incriminatrice si struttura come reato proprio, stante la condotta del soggetto agente «nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, non occorrendo formalmente la qualifica di imprenditore»[4].

Naturalmente, la configurabilità del reato è esclusa in relazione ad attività commerciali illecite, come il traffico di droga, e anche ad attività lecite condotte con metodi illegali[5]; è in ogni caso necessario l’uso della violenza o della minaccia, configurandosi così il delitto, per affermazione costante, come reato complesso[6].

Estremamente controverso, come evidenziato da numerosi autori, sia contestualmente alla novella legislativa sia in tempi recenti[7], è il concetto di “atti di concorrenza”: non avendo stabilito una nozione di atti concorrenziali penalmente rilevanti, il legislatore ha rimesso all’interprete il compito di individuare tra le volute dell’operazione ermeneutica i confini dell’applicazione della fattispecie, dando luogo così ad un conflitto giurisprudenziale sull’interpretazione dell’espressione normativa.

Difatti, nella sentenza in commento, i giudici di legittimità segnalano tre orientamenti contrastanti sulla nozione di atti di concorrenza nel delitto di illecita concorrenza con minaccia o violenza.

Secondo il primo orientamento, definito “restrittivo”, la fattispecie incriminatrice troverebbe applicazione solo in relazione a quei comportamenti concorrenziali tipici, ovverosia descritti e contemplati nell’orizzonte del diritto civile, che naturalmente siano connotati da «mezzi vessatori». Dunque, pur non limitandosi ai soli esponenti di associazioni malavitose, la norma non risulterebbe applicabile nei confronti di chi ponga in essere atti non concorrenzialmente tipici, seppur violenti o intimidatori. Del resto, la logica di tale orientamento voleva che i semplici atti vessatori finalizzati all’impedimento del meccanismo concorrenziale fossero da ricondursi ad altre fattispecie di reato, come ad esempio il delitto di estorsione ex art. 629 c.p., in quanto «la norma in esame, di contro, mira a sanzionare solo la commissione di atti di concorrenza che si pongono “oltre i limiti legali”, inibendo la normale dinamica imprenditoriale con una conseguente turbativa del libero mercato, in un “clima di intimidazione e con metodi violenti»[8].

Contrapposto all’orientamento restrittivo, i giudici di legittimità segnalano la presenza di un altro filone interpretativo cd. “estensivo” che, non limitandosi alle indicazioni delle norme civilistiche, ma facendo proprie le intenzioni del legislatore giustificative della fattispecie incriminatrice, «si esprimeva in senso favorevole ad un’applicazione quanto più generalizzata della norma, proiettata non solo al di fuori del contesto proprio della criminalità organizzata, ma anche verso una prospettiva di tutela nei confronti di eventuali atti di concorrenza sleale “atipici”, e comunque non limitati all’area dell’incidenza della disciplina civilistica della concorrenza sleale emergente dagli artt. 2595 ss. cod. civ.»[9].

Sulla base di una più estesa nozione di atti di concorrenza, in particolare, i sostenitori di questo orientamento ermeneutico evidenziavano che, dato l’interesse principalmente tutelato del buon funzionamento dell’intero sistema economico, la fattispecie in esame, più che reprimere forme di concorrenza sleale, avesse l’obiettivo di impedire l’eliminazione della concorrenza con condotte vessatorie al fine di acquisire posizioni di preminenza o di dominio, tutelando, di conseguenza, anche il secondo profilo di interesse relativo alla libertà delle persone di autodeterminarsi nel settore[10].

Sulla scorta dell’orientamento più estensivo, prendeva le mosse «un terzo indirizzo interpretativo, essenzialmente finalizzato a valorizzare le prospettive di una meno restrittiva e più completa definizione del concetto di “atti di concorrenza” attraverso il riferimento non solo alla ratio della norma incriminatrice, ma anche alla necessità di integrarne il precetto alla luce della normativa italiana ed europea in tema di tutela della concorrenza»[11]. Del resto, la libera concorrenza non trovava tutela esclusiva nell’art. 2598 c.c., ma anche attraverso le disposizioni di cui agli artt. 101 e 106 TFUE, i cui principi risultavano recepiti nell’ordinamento nazionale dalla l. 287/1990, nonché dalle previsioni generali poste dagli artt. 11 e 117, co. 2, lett. e, Cost., dall’art. 120 TFUE e dall’art. 16 della Carta di Nizza. Secondo tale prospettiva, infatti, ai singoli operatori non veniva garantita solamente la libera competizione tra le imprese nel mercato, esercitata  con innovazione e divieto di consolidare posizioni di dominio, ma anche la tutela da “atti concorrenziali” intesi «non solo quelli compiuti dall’imprenditore in positivo ma anche quelli in negativo cioè diretti contro gli imprenditori concorrenti, proprio perché entrambi sono comportamenti diretti ad acquisire il predominio sul mercato estromettendo, in modo illecito, i concorrenti»[12]. E, dunque, alla luce della giurisprudenza civile di legittimità, si sosteneva che il catalogo degli atti concorrenziali di cui all’art. 2598 c.c. non fosse affatto un “catalogo chiuso”, rigorosamente tipizzato, ma attraverso il n. 3 si rinviava a tutte quelle condotte non tipizzate ostruttive della libera concorrenza.

Si concludeva, pertanto, che la nozione di “atti di concorrenza” di cui all’art. 513-bis c.p. ricomprendesse, per tramite dell’art. 2598, n. 3, c.c., inserito nel contesto dei principi di matrice sovranazionale in materia di concorrenza, «tutti gli atti commessi da un imprenditore con violenza e minaccia, ed idonei a falsare il mercato e a consentirgli di acquisire, in danno dell’imprenditore (o imprenditori) minacciato, illegittime posizioni di vantaggio sul libero mercato senza alcun merito derivante dalla propria capacità, pure se meramente impeditivi della concorrenza altrui»[13].

In considerazione di questa “terza via” si riteneva superato il contrasto tra l’orientamento estensivo e il principio di legalità nella sua accezione di tassatività: il richiamo al dato normativo di cui all’art.   2598, n. 3, c.c. permetteva di superare la censura, facendo riferimento alla nozione civilistica di atto di concorrenza, sia pure in considerazione della previsione di “chiusura” della norma citata.

Nonostante la più evoluta riflessione interpretativa, la giurisprudenza di legittimità rimaneva comunque divisa, riproponendo nelle pronunce successive l’affermazione della tesi ristrettiva, ma anche dando luogo a decisioni più in linea con la tesi estensiva.

Quanto al rapporto con le altre figure di reato, i contorni sfumati della condotta incriminata rendevano opinabile la sussistenza del concorso o dell’assorbimento. Infatti, secondo un orientamento giurisprudenziale, data la natura di reato complesso, il delitto di cui all’art. 513-bis assorbirebbe le fattispecie minori connotate da violenza e minaccia[14]; analogamente, in dottrina è ampiamente ritenuto che il delitto in esame ricomprenda specificatamente le fattispecie di violenza privata ex art. 610 c.p., di minaccia ex art. 612 c.p., di percosse ex art. 581 c.p., di danneggiamento ex art. 635 c.p.[15] e di atti persecutori ex art. 612-bis c.p.[16]

Un diverso approccio giurisprudenziale è stato, invece, previsto per i reati di estorsione ex art. 629 c.p., sia tentata che consumata[17], di turbata libertà degli incanti ex art. 353 c.p.[18] e di concussione ex art. 317 c.p.[19]  per i quali si è ritenuto configurabile il concorso formale di reati in considerazione della diversa collocazione codicistica e dei differenti beni giuridici tutelati.

In dottrina, tuttavia, alcuni autori ritengono che non sia ammissibile il concorso formale tra illecita concorrenza con minaccia e violenza e estorsione, evidenziando una relazione di speciale bilateralità o comunque di assorbimento[20]. È escluso, inoltre, in dottrina anche il concorso tra il delitto di cui all’art. 513-bis c.p. e la sua figura contigua, dalla quale ha preso forma: il delitto di turbata libertà dell’industria e del commercio ai sensi dell’art. 513 c.p. Tale fattispecie svolge una funzione sussidiaria per la clausola di riserva in essa contenuta, offrendo ulteriori spazi di tutela penale, poiché procede a perseguire anche le condotte di soggetti non imprenditori[21].

Secondo la giurisprudenza, invece, la disciplina del concorso troverebbe applicazione in relazione ai “delitti associativi”, sia in forma semplice (art. 416 c.p.) sia nella forma aggravata dallo stampo mafioso (art. 416-bis c.p.), in quanto l’illecito di cui all’art. 513-bis c.p. ha natura episodica, e non continuativa come i reati associativi, e conserva il fine di alterare la concorrenza, non già di mantenere e rafforzare il potere dell’associazione delinquenziale generica o mafiosa[22].

Infine, un’unica decisione della Suprema corte ritiene il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia qualificabile come reato-presupposto del delitto di riciclaggio[23].

 

2.2. L’elemento soggettivo e l’interesse giuridico tutelato

La presenza del contrasto giurisprudenziale circa la natura degli atti integrativi dell’illecito si rifletteva inevitabilmente anche sulla determinazione dell’elemento soggettivo del reato. L’opinione diffusa voleva la sussistenza del dolo specifico, dato il fine perseguito di eliminare o scoraggiare l’altrui concorrenza; naturalmente, tale considerazione poggiava le sue basi sulla prospettiva che l’illecito di cui all’art. 513-bis c.p. punisse atti di violenza o minaccia diretti a scoraggiare il meccanismo concorrenziale, divenendo, quindi, il fine anticoncorrenziale l’oggetto del dolo e di conseguenza punibile la condotta violenta o intimidatoria solo se orientata a tale scopo[24].

Per converso, la tesi restrittiva che sosteneva, invece, ai fini della configurabilità del delitto, la necessità del compimento di un atto concorrenziale, affermava la sussistenza del dolo generico[25]. Naturalmente, dal riconoscimento del dolo generico deriva, conseguenzialmente, la possibilità che il delitto possa ritenersi integrato anche per mezzo della forma del dolo eventuale con tutte le relative questioni connesse in tema di accertamento dell’elemento soggettivo e della prova del reato[26].

Giova sottolineare, comunque, che entrambi gli orientamenti si sforzavano, pro libertate, nel limitare un’ingenerosa estensione delle maglie punitive della fattispecie: la tesi restrittiva attraverso il richiamo alle condotte tipiche e ad una stretta osservanza della lettera della norma; la tesi estensiva attraverso il richiamo al fine della concorrenza sleale e, dunque, sulla presenza del dolo specifico.

L’incertezza sull’elemento soggettivo, frutto dell’indeterminata natura degli atti costitutivi del reato, si rifletteva anche sul bene giuridico tutelato: principalmente, come risulta anche dalla stessa collocazione codicistica, l’interesse tutelato dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 513-bis c.p. deve individuarsi nell’ordine economico, che in via pretoria viene inteso come «il normale svolgimento delle attività produttive ad esso inerenti»[27]. In altre decisioni la giurisprudenza annoverava anche la libertà di concorrenza e la liceità della sua attuazione ed indirettamente la libertà delle persone di determinarsi nel settore[28]. In dottrina, invece, si insisteva sull’accezione di ordine economico quale buon funzionamento dell’intero sistema economico contro il rischio dell’eliminazione degli stessi presupposti della concorrenza, e, quindi, della libertà d’impresa, attraverso comportamenti violenti o minatori, come, del resto, è desumibile anche dalla stessa perseguibilità d’ufficio dell’illecito[29], con la conseguenza che l’interesse relativo alla sfera soggettiva di libertà personale del singolo operatore economico poteva risultare solo concorrente[30].

Secondo altri autori, al contrario, il bene giuridico tutelato dalla norma in esame consisteva nell’ordine pubblico tutelato «attraverso la protezione del libero svolgimento delle attività economiche»[31].

Ne discendeva che al variare dell’oggetto di tutela variava anche la stessa portata applicativa della norma, svelando una falla sul fronte della “certezza del diritto” nel tessuto dell’ordinamento penale, con pericolose conseguenze in ordine di garanzia individuale e di libera autodeterminazione dei singoli individui.

 

3. La soluzione della Corte

Pertanto, riconosciuto il conflitto giurisprudenziale e a seguito della richiesta d’intervento da parte della terza sezione penale con l’ordinanza n. 26870/2019, le Sezioni unite, appurata la sussistenza del contrasto insita nell’ambigua formulazione dell’art. 513-bis c.p., chiariscono il concetto di “atti di concorrenza”, sciogliendo il nodo interpretativo che affliggeva la giurisprudenza di legittimità da lungo tempo.

Nella pronuncia in commento il massimo organo nomofilattico osserva, inizialmente, che il contrasto giurisprudenziale traeva origine dalla scarsa chiarezza del testo normativo che «sebbene la proiezione storico-politica della norma introdotta con l’art. 513-bis rifletta l’intento, generalmente avvertito, di fronteggiare l’emergenza legata ad un contesto socio-economico caratterizzato dalla crescente incidenza di fenomeni criminali legati alle attività della cd. “mafia imprenditrice”, è agevole rilevare come la struttura della fattispecie incriminatrice sia stata congegnata dal legislatore in maniera del tutto indipendente dal peculiare contesto in cui ha visto la luce, delineandone un ambito di applicazione generale, non limitato alle condotte tipiche della criminalità organizzata e privo di qualsiasi connotazione specializzante anche sotto il profilo soggettivo, in quanto la condotta può essere materialmente realizzata da “chiunque”, sia pure nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o produttiva»[32].

Per tali ragioni, sottolinea la Corte, l’interprete inquadrava con difficoltà la figura del reato in esame: le motivazioni del legislatore sottese alla sua introduzione nell’ordinamento penale non avevano, poi, preso concretamente forma in sede di redazione, determinando così un «disallineamento […] tra l’intentio legis, la formulazione lessicale del dettato normativo e la successiva opera di esegesi compiuta in sede dottrinale e giurisprudenziale»[33].

Alla luce di questa premessa, le Sezioni unite, superando il conflitto interpretativo attraverso la valorizzazione della “terza via” emersa in seno all’orientamento estensivo, rigettano i due principali orientamenti elaborati dai giudici di legittimità, in quanto la tesi restrittiva, focalizzandosi sul rispetto della tassatività della norma, limitava l’ambito di punibilità ai soli atti concorrenziali previsti ex art. 2598 c.c., frustrandone le potenzialità applicative, mentre quella estensiva, allargandosi anche agli atti diretti ad impedire la concorrenza altrui nell’ottica della prospettiva teleologica dell’azione, si slegava dal contesto letterale della norma, violando palesemente il principio di legalità nell’accezione della tassatività.

Nel tentativo di superare l’impasse, la Corte, secondo la più classica metodica hegeliana, fa convergere le due tesi opposte in un’unica sintesi nella quale gli elementi caratterizzanti di entrambe le visioni (la concorrenzialità degli atti e il fine di ostacolare la libera concorrenza) si legano attraverso il richiamo alla disciplina della concorrenza di matrice sovranazionale, realizzando il calco del fatto tipico degli atti costitutivi del reato.

Al fine di ottenere il precipitato tipico nel rispetto del principio di legalità, le Sezioni unite  si richiamano ad un nuovo concetto di concorrenza «profondamente mutato rispetto a quello che vide l’inserimento nel sistema codicistico della predetta fattispecie di reato: un contesto “multilivello”, dunque più ampio e complesso, le cui numerose articolazioni forniscono oggi all’interprete parametri di riferimento utili per meglio inquadrare nel sistema le scelte di incriminazione a suo tempo operate dal legislatore»[34]. E, infatti, la Corte evidenzia il “nuovo volto” della nozione di concorrenza a seguito del recepimento nell’ordinamento nazionale della normativa euro-comunitaria che, ampliando il concetto di libera concorrenza, permette una più pregnante e completa interpretazione dell’art. 41, co. 1, Cost. che, proprio per tramite di questa interpretazione evolutiva, offre tutela non solo alla libera iniziativa economica dei privati, ma anche alla libera concorrenza tra privati[35].

La libera concorrenza tra privati rappresenta, dunque, un aspetto imprescindibile della libera iniziativa economica privata, alla quale viene riconosciuta formalmente rilevanza costituzionale in virtù dell’art. 117, co. 2, lett. e), Cost., stabilendo che, «[…] “in quanto libertà di tutti”, la libertà d’iniziativa economica privata può essere esercitata, dunque, erga omnes, come “eguale possibilità” di tutti i privati “di attivarsi materialmente e giuridicamente nello stesso settore” e, quindi, “di confrontarsi vicendevolmente, sottoponendo al giudizio del mercato la valutazione, e il conseguente successo, delle reciproche iniziative, necessariamente sempre nuove e diverse, in una competizione senza fine”. Se dal riconoscimento della libertà d’iniziativa economica deriva, quale naturale corollario, quello del principio di eguaglianza nei rapporti economici, è evidente che la repressione delle forme di concorrenza sleale s’innesta proprio su quest’ultimo versante del precetto costituzionale, offrendo una specifica tutela nei confronti di comportamenti posti in essere dall’imprenditore allo scopo di assicurarsi indebite posizioni di vantaggio che non ledono tanto (o soltanto) l’economia nazionale astrattamente considerata, ma sono idonei a ledere anche, e soprattutto, l’esercizio dell’altrui libertà di iniziativa economica»[36].

In sostanza, la Corte, elevando a sistema «il metodo competitivo» attraverso un’interpretazione “comunitariamente” orientata dell’art. 41, co. 1, Cost. e consacrando così la leale concorrenza a principio dell’ordinamento, la definisce un interesse socialmente rilevante degno di assurgere a dignità costituzionale, non solo nella sua accezione estrinseca o negativa, cioè come assenza di condizionamenti indebiti all’esercizio della libertà di concorrenza, ma anche in positivo, intesa come facoltà di agire in concorrenza tra privati[37], e suscettibile, pertanto, di tutela penale.

Di conseguenza, la disciplina concorrenziale nazionale risulta notevolmente rinnovata nella sua effettiva applicazione, finendo per estendersi su atti e misure che fino ad allora non erano marginalmente lambite, se non addirittura escluse, dal concetto di concorrenza.

«Il principio cardine della legislazione europea in tema di regole della concorrenza, pienamente recepito, come si è osservato, anche nell’ordinamento interno, è quello secondo cui la libertà di iniziativa economica e la competizione fra le imprese non possono tradursi in atti e comportamenti pregiudizievoli per la struttura concorrenziale del mercato»[38]; pertanto, l’estrinsecazione più immediata di tutela offerta dall’ordinamento consiste nella disciplina della concorrenza sleale che nella normativa nazionale trova sede all’art. 2598 c.c. Naturalmente la portata applicativa della norma risulta ampliata proprio dal confronto con la normativa comunitaria, in particolare gli artt. 101 e 102 TFUE sugli accordi tra imprese al fine di escludere la concorrenza e sull’abuso di posizione dominante, che permettono di individuare le diverse modalità attraverso cui tale concorrenza sleale si concretizza. Inoltre, nella sentenza in commento, i giudici della Corte si impegnano in un lungo excursus che ricomprende tutte le disposizioni nazionali e sovranazionali in materia di concorrenza in modo da individuare quei comportamenti pericolosi per la struttura concorrenziale del mercato; dunque, non soltanto gli artt. 101 e 102 TFUE, ma anche l’art. 16 della Carta di Nizza sulla libertà d’impresa, la legge italiana n. 287 del 12 ottobre 1990 sulle intese restrittive della libertà di concorrenza, abuso di posizione dominante e concentrazioni fra imprese in cartelli o trust, la successiva legge n. 192 del 18 giugno 1998 sull’abuso dello stato di dipendenza economico, ossia di quella condizione nella quale un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio normativo e, infine, anche la legge n. 180 del 11 novembre 2011, recante “norme per la tutela della libertà d’impresa”, che delimita lo “statuto delle imprese” proprio in funzione della libertà d’iniziativa economica privata in conformità agli artt. 35 e 41 della Costituzione.

Dunque, l’art. 2958 c.c. presenta un catalogo “aperto”: non soltanto le condotte espressamente indicate ai nn. 1 e 2 ma anche tutte quelle che si avvalgono «di ogni mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale idoneo a danneggiare l’altrui azienda», rientranti nella generica indicazione del n. 3. In tale “clausola di chiusura” la Suprema corte, rifacendosi alle «decisioni in ordine ai criteri di interpretazione della nozione di “concorrenza” di cui all’art. 117, secondo comma, Cost. [su cui] si è mossa l’elaborazione giurisprudenziale della Corte di cassazione nel settore civile (Sez. 1 civ., n. 14394 del 10/08/2012)»[39], riconduce alcune figure tipiche, come il boicottaggio economico, la sistematica vendita sottocosto (c.d. dumping), lo storno dei dipendenti, la concorrenza parassitaria, la pubblicità menzognera, le scorrette informazioni commerciali o industriali, la violazione di norme pubblicistiche.

In definitiva, per il collegio gli atti concorrenziali sarebbero determinati, o comunque, determinabili e, in mancanza di una definizione penalistica di “concorrenza”, l’elaborazione dottrinale la giurisprudenza in materia civile confluiranno anche nel solco penale alla luce della pertinente normativa sovranazionale ed interna che disciplina i presupposti e le regole di funzionamento della libertà di concorrenza, costruendo le fondamenta del fatto tipico sulla qualità materiale degli atti che vi danno corpo, ossia sulla loro qualificazione in senso anticoncorrenziale e non sulla loro direzione teleologica.

Soffermandosi, inoltre, sui soggetti protagonisti della fattispecie, la Corte prosegue sostenendo la necessità, ai fini della realizzazione del reato, non solo della qualifica di imprenditore in capo al soggetto attivo del reato, ma anche di un rapporto di competizione economica tra questi e il soggetto passivo, i quali devono tendenzialmente offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi che siano destinati a soddisfare, anche in via succedanea, lo stesso bisogno dei consumatori o, comunque, bisogni complementari o affini, tenendo conto, però, del fatto che il rapporto di concorrenza si instaura anche fra operatori che agiscono a livelli economici diversi (ad es.: produttore-rivenditore o grossista-dettagliante), coinvolgendo «tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni. Quale che sia, infatti, l’anello della catena che porta il prodotto alla stessa categoria di consumatori in cui si collochi un imprenditore, questi viene a trovarsi in conflitto potenziale con gli imprenditori posti su anelli diversi, proprio perché è la clientela finale quella che determina il successo o meno della sua attività, per cui ognuno di essi è interessato a che gli altri rispettino le regole di cui all’art. 2598 cit.»[40].

Ai fini della sussistenza del reato i giudici di legittimità osservano, però, che la qualifica di imprenditore non deve essere intesa in senso formalistico: non è necessario che i soggetti attivi e passivi del reato possiedano tutti i requisiti richiesti dalla disciplina civilistica ai sensi dell’art. 2082 c.c., ma è sufficiente che svolgano un’attività commerciale, industriale o produttiva, acquisendo così rilevanza, ai sensi della norma incriminatrice, tanto gli “atti diretti” dell’imprenditore soggetto attivo commessi nei confronti dell’imprenditore concorrente o di un soggetto diverso comunque a quest’ultimo riconducibile, quanto quelli commessi da altri individui, come ausiliari o collaboratori, nel suo interesse e dietro sua istigazione o specifico incarico.

Determinando, dunque, i confini della condotta punibile, le Sezioni unite si sono soffermate anche sul contenuto e sulle finalità del bene giuridico tutelato dalla norma, mancando anche in questo caso un accordo unanime; difatti, avvalorando la natura di reato plurioffensivo, la Corte, oltre al corretto funzionamento del sistema economico, inteso come bene finale, (data anche la collocazione del delitto all’interno del codice), insiste sulla protezione di un diverso interesse, quale bene strumentale, inteso come la libertà di ciascuno di autodeterminarsi nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva[41].

In definitiva, per la Suprema corte il “sistema concorrenziale”, il contenuto del bene giuridico protetto e il contesto storico della norma penale esaminata fondano la tipicità della fattispecie incriminatrice, la cui condotta macchiata di violenza o minaccia assume rilievo penale, integrando lo schema delittuoso previsto dalla norma anche senza che il soggetto passivo venga effettivamente intimidito o si alterino concretamente gli equilibri del mercato. «Attorno alle componenti oggettive della violenza e della minaccia, che non vi figurano come elementi finalisticamente orientati, bensì come elementi costitutivi della condotta, concorrendo a delinearne la tipicità attraverso una previsione in forma alternativa del suo aspetto modale, ruota dunque la sfera di offensività dell’intera fattispecie»[42]; pertanto, gli elementi della violenza e della minaccia assegnano un quid pluris alle condotte concorrenzialmente sleali che, già di per sé punite dal diritto civile, divengono così illecite anche per l’ordinamento penale[43].

Sotto altro profilo, obiter dictum, avendo tratteggiato la tipicità del delitto di illecita concorrenza, la Suprema corte sostiene, infine, l’inapplicabilità del criterio di specialità ex art. 15 c.p. in relazione alla fattispecie di estorsione, sia essa tentata o consumata; i due reati, al di là della diversa collocazione sistematica e di conseguenza dei differenti  interessi giuridici tutelati, presentano una struttura tipica necessariamente incompatibile: gli elementi emersi nella riflessione della sentenza in commento impediscono l’assorbimento della condotta ai sensi dell’art. 513-bis c.p. nella fattispecie più grave di cui all’art. 629 c.p., in quanto, quest’ultima, incidendo sul patrimonio del soggetto passivo al fine di ottenere un ingiusto profitto con danno altrui, non si traduce in una manipolazione dell’attività economica concorrente con mezzi violenti, dandosi luogo, così, a concorso formale di reati  ove ricorrano i presupposti materiali di entrambi i delitti menzionati.

La Corte conclude statuendo il seguente principio di diritto «ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513-bis cod. pen. è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente» e alla stregua di ciò rigetta il ricorso dei ricorrenti, condannandoli al pagamento delle spese processuali.

 

4. Conclusioni, profili critici e riflessioni a margine

La sentenza in commento presenta il pregio di aver posto fine ad una questione annosa particolarmente dibattuta, fissando un punto fermo rispetto a questioni risalenti mai risolte. Naturalmente, la decisione della Corte porta alla luce nuovi interrogativi, che nonostante un generale ma timido apprezzamento da parte della dottrina, risentono l’eco delle vecchie questioni e ne aggiungono delle nuove.

Il valore della pronuncia annotata risiede, comunque, nell’aver ricavato da entrambi gli orientamenti contrapposti elementi utili all’elaborazione di una “terza via” che permettesse di tenere conto dei diversi spunti di riflessione emersi nel corso degli anni sulla natura degli atti costitutivi del reato in esame e, più in generale, sulla stessa tipicità della fattispecie incriminatrice.

L’aggancio alla disciplina civilistica della concorrenza sleale, in particolare alla giurisprudenza civile di legittimità comprensiva anche dei risultati della giurisprudenza sovranazionale, ha permesso alle Sezioni unite di tracciare un confine più netto del fatto tipico dell’illecita concorrenza con mezzi vessatori, se non altro per i permanenti e pervicaci dubbi sull’effettiva conformità della fattispecie al principio di legalità.

Il punctum dolens della vicenda riguardava proprio la sfuggente determinatezza degli atti costitutivi del reato che i giudici di legittimità recuperano attraverso il ricorso alla giurisprudenza civile in tema di concorrenza che, attraverso il richiamo dell’art. 2598 n. 3 c.c., tipicizza un novero di condotte ritenute sleali, oltre al richiamo delle figure tipizzate dal diritto e dalla giurisprudenza comunitari.

Dunque, riprendendo letteralmente la sentenza in commento, «determinata, o comunque determinabile, deve pertanto ritenersi la categoria degli atti di concorrenza sleale», eliminando così il problema di indeterminatezza della norma e rendendo più efficace la fattispecie che risentiva di deficit di applicabilità in relazione a tutte quelle condotte che, pur concorrenzialmente sleali, non erano ricomprese dai parametri normativi di riferimento.

Tale soluzione, però, porta con sé dei dubbi di non poco conto: il ricorso alla normativa, nonché alla giurisprudenza comunitarie, rappresenta una violazione del principio di legalità nella sua forma più genuina, ovverosia, la riserva di legge. Come già osservato anche dai primi commentatori della sentenza in esame[44], l’impiego di fonti eurounitarie, in particolare la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), che quale organo supremo ha il controllo della giurisdizione sui Trattati dell’Unione, assume automaticamente valenza incriminatrice in opposizione alla legge italiana, e alla tradizione penalistica continentale, che vuole il legislatore a capo delle scelte di politica criminale.

Difatti, alla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo si affiderebbe il potere di criminalizzare le condotte individuali, mancando, però, quella base democratica e dunque quella rappresentatività elettorale, che fa sì che una legge sia il risultato della volontà popolare. La precarietà della decisione annotata risiede, inoltre, nell’appoggio mutuato dal diritto civile che per sua natura e funzione non osserva strettamente il principio di legalità. Difatti, benché nemmeno al giudice civile sia consentito di “creare” diritto in modo arbitrario, egli dispone tuttavia di strumenti ermeneutici (su tutti, l’interpretazione analogica[45]) che gli consentono di riconoscere tutela a figure che, ancorché non previamente poste dal legislatore, sono, però, ricavabili da altri luoghi del sistema: tale duttilità, “tipica” nel modo civilistico, cozza, però, con le esigenze e le ragioni del principio di legalità penalistico; motivo per cui il ricorso alla giurisprudenza civile risulta piuttosto rischioso.

Non da ultimo, anche la possibilità di un ricorso a fonti sublegislative attraverso il rinvio, ad esempio, a tabelle tecniche ministeriali, come per le categorie di stupefacenti, non è immune da obiezioni: la materia concorrenziale è soggetta ad un’evoluzione repentina, per cui sarebbe necessaria un’opera di tipizzazione particolarmente complessa, nonché esposta al rischio di anacronismo, con l’effetto di sanzionare condotte già scomparse dalla prassi commerciale, oltre alla considerazione preponderante che in specie il rinvio tecnico realizza un effettivo spostamento del peso della decisione in capo all’autorità amministrativa che avrà il compito così di descrivere interamente la condotta punibile[46].

In definitiva, è comunque condivisibile la decisione della Suprema corte, se inserita nel tracciato di mezzo della “riserva di legge tendenzialmente assoluta”, tuttavia, per chi scrive, in conformità ad una più rigida applicazione del principio di legalità e a un recupero del suo valore più genuino, il richiamo operato alla giurisprudenza eurounitaria non si pone come fonte secondaria riempitiva di quegli spazi marginali della fattispecie incriminatrice, ma opera una definizione ab imis della figura di reato, andando ad indicare quali condotte siano penalmente rilevanti e sottraendosi al primato del legislatore.

Un’ulteriore considerazione viene in merito alla nuova portata della fattispecie incriminatrice e il rapporto con il principio di offensività: il principio di diritto espresso dalle Sezioni unite estende la punibilità ad ogni condotta vessatoria inserita in un contesto concorrenziale, senza, però, accertare l’efficacia causale della minaccia. In sostanza, da un lato, la minaccia non consiste in una coazione nei confronti del soggetto passivo e, dall’altro lato, non è necessario che tale minaccia alteri la dialettica concorrenziale per la sussistenza del reato, essendo sufficiente una sua potenziale idoneità. La conseguenza è una notevole anticipazione della tutela penale in relazione a comportamenti poco lesivi o comunque non tali da giustificare un così gravoso arretramento di tutela. Il principio di offensività funge proprio da regolatore dell’intensità della potestà punitiva, escludendo la reazione sanzionatoria nei confronti di quei comportamenti sì penalmente rilevanti ma “quasi” inoffensivi; nel caso di specie verrebbero punite molto severamente delle condotte intimidatorie del mercato concorrenziale che a stento raggiungono la forma del tentativo e si pongono nell’area del pericolo astratto, con tutte le conseguenze del caso in materia di proporzionalità e sussidiarietà dell’intervento penale[47].

Sempre in merito agli atti concorrenziali, un’ultima riflessione involge l’elemento soggettivo, con una maggiore attenzione alla figura del dolo eventuale. Il principio di diritto enunciato dalla Corte tipicizza le condotte concorrenziali volte “a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente”, configurando così il contrasto o ostacolo alla libertà d’impresa non più come fine della condotta, ma come un suo elemento fondante. Il risultato è la vigenza del dolo generico in luogo di quello specifico con la possibile conseguenza di un’attribuzione di responsabilità anche a titolo di dolo eventuale, essendo sufficiente la coscienza e la volontà di compiere un atto anticoncorrenziale; tuttavia, il possibile ricorso al dolo eventuale non è una questione marginale: la poliedricità della condotta tipica non solo attesta un più complesso accertamento probatorio sulla sussistenza dell’atto ma anche sulla presenza dell’elemento soggettivo, rendendo altrettanto dubbioso il riconoscimento di una responsabilità per dolo eventuale.

Per chi scrive, dunque, appare inopportuno l’impiego della figura del dolo eventuale: atteso che il reato in questione è punito esclusivamente a titolo di dolo, la riconducibilità al dolus eventualis, stante i suoi confini piuttosto vaghi, dà luogo ad una scelta tra punibilità e irrilevanza penale della condotta, con uno scarto piuttosto evidente, alla luce soprattutto della nuova ricostruzione, fortemente anticipatoria del reato, per la quale rientrano anche comportamenti che, seppur illeciti per il diritto civile, esulano dalla rilevanza penale.

Inoltre, sempre in merito all’elemento soggettivo, la Corte sostiene di aver accantonato “la direzione teleologica dell’azione” in virtù di un’idoneità materiale a contrastare o ostacolare la libera concorrenza.

Orbene, proprio guardando al caso di specie, si pone un problema in merito alle condotte vessatorie per così dire “neutre”, cioè non immediatamente riconducibili ad un assetto concorrenziale; i “calci, pugni e minacce” menzionati, così come altre condotte vessatorie, non possono essere inquadrati come atti concorrenziali, deducendosene che la loro riconducibilità nell’alveo dell’art. 513-bis c.p. sia dettata proprio dal fine per il quale siano stati compiuti, ovverosia, il contrasto o l’ostacolo alla concorrenza, conseguendone una discrasia tra il principio di diritto statuito e il suo risvolto pratico.

Infine, come prospettato già dai primi commentatori[48], de iure condendo, sarebbe auspicabile l’abrogazione del reato in esame e la creazione di una circostanza soggettiva aggravante ad hoc da applicare ai delitti di cui agli artt. 581, 610, 612 e 612-bis c.p. Tale soluzione, con la seguente formulazione “impedire o turbare un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva altrui”, apparirebbe conforme ai principi di tassatività, offensività e sussidiarietà e ricomprenderebbe anche quegli atti vessatori non concorrenziali che comunque influiscono sul meccanismo della libera iniziativa dei privati, ricongiungendosi così anche alle originarie intenzioni del legislatore del 1982.

Infatti, come è già stato notato, le condotte punite dall’art. 513-bis c.p. sono previste anche da altre fattispecie di reato con un grado di offensività maggiore; in ragione di ciò una riduzione allo stato di circostanza risponderebbe più propriamente a quelle esigenze di sussidiarietà e proporzionalità dell’intervento penale, oltre a limitare l’ipertrofia di leggi del sistema, la cd. nomorrea penale.

Del resto, l’illecito esaminato rispondeva ad un’esigenza specifica, cioè colmare il vuoto di tutela lasciato dall’art. 513 c.p.[49], ponendosi a metà tra il delitto di estorsione e il delitto di turbata libertà dell’industria e del commercio. Tuttavia, la sua difficoltosa applicazione pratica, oltre alla sua riconducibilità a fattispecie più gravi, ne hanno svalutato la portata, rendendola, secondo diverse voci autorevoli, un esempio di legislazione simbolica, cioè dalla scarsa utilità pratica[50].

Da qui l’auspicio in dottrina di una sua più felice riqualificazione e collocazione nel sistema dell’ordinamento penalistico moderno.

Non si può, dunque, sottacere il valore della decisione annotata cui si riconosce il merito di un’elaborazione raffinata ed esaustiva in relazione ad una questione piuttosto intricata. Il suo particolare apprezzamento, nel mare magnum della controversia, deriva proprio dall’aver cercato di combinare tutti i punti nodali della matassa al fine di contribuire a fornire nuova linfa alla fattispecie penale attraverso una nuova interpretazione in linea con i parametri europei.

Difatti, la sentenza delle Sezioni unite si pone sul solco ormai tracciato da anni dalla Corte di cassazione, di giungere a “soluzioni di sintesi” di modo da evitare un contrasto diretto con il legislatore.

Tuttavia, nonostante la pregevole operazione, non si può omettere di segnalare che l’essersi serviti della giurisprudenza civile e unionale per fondare il fatto tipico del reato rappresenta un problema di tipica attività interpretativa e, dunque, di legalità.

I giudici di legittimità, ricorrendo all’opera dei propri omologhi in sede civile interna e sovranazionale, danno vita a nuove ricostruzioni ermeneutiche che di fatto esulano dal dettato normativo e si attribuiscono quel potere di scelta che la tradizione, nonché la legge, riconoscono ai rappresentanti dei cittadini[51].

Sicuramente, si tratta di meccanismi che intervengono per la “necessità di giudicare” e sono frutto di una totale assenza del legislatore, che preso dalla smania di creare nuovi reati, non si occupa, però, di governare il sistema, lasciando indebitamente il gravoso compito all’interprete.

Tuttavia, piegare il sistema, piuttosto rigido, su cui è costruito l’ordinamento penale italiano, non è la soluzione, ma un sintomo del problema; certamente non si può pensare ad un giudice mera “bouche de loi”, dimesso dal proprio ruolo di interprete, tuttavia, l’ermeneutica deve rispondere comunque a precisi riferimenti, incardinati nel sistema, che rappresentano e costituiscono il sistema stesso; in poche parole, sebbene sia impensabile privare il giudice contemporaneo degli strumenti dell’interpretazione estensiva o del ricorso alle clausole generali, consistendo il proprio compito nel mediare tra passato e presente, generale e particolare, astratto e concreto, l’attività ermeneutica deve rispondere a quella stessa razionalità giuridica su cui si è innestato l’intero sistema giuridico.

In definitiva, l’attività ermeneutica per sfuggire alle critiche di “creazionismo” deve svilupparsi tecnicamente, assumendo un’elevata qualificazione; solo così, rifletterebbe quella razionalità del sistema, da sempre agognata dagli studiosi, e eviterebbe di perdersi nei meandri della discrezionalità del giudicare.

 

[1] Cass. Pen., Sez. III, ordinanza n. 26870/2019 p. 5

[2] Si veda in particolare: Fiandaca, G., Commento all’art. 8 l. 13 settembre 1982, n. 646 (art. 513-bis c.p.), in Leg. pen., 1983, pp. 278 e ss.

[3] Relazione alla proposta di legge n. 1581 del 31 marzo 1980 sul sito www.camera.it

[4] Cfr. Padovani, T., Codice penale, vol. II, Giuffrè, Milano, 2019, p. 3426. Sul punto, comunque, Alessandri, A., Concorrenza illecita con minacce o violenza, in Digesto discipline penalistiche, Utet, Torino, vol. II, 1988, p. 413, sostiene che il riferimento testuale agli atti di concorrenza escluda la punibilità dei collaboratori o dipendenti dell’imprenditore, restringendo quindi l’applicabilità del reato sotto il profilo soggettivo.

[5] Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 1089/2009, in CED, con la quale si affermava la sussistenza del reato in esame in relazione ad un’attività di noleggio di apparecchi di videopoker illegalmente modificati.

[6] Si veda Padovani, T., Codice penale, cit., p. 3427.

[7] Cfr. Alessandri, A., Concorrenza illecita con minacce o violenza, cit., pp. 410 e ss.; Fiandaca, G., Commento all’art. 8 l. 13 settembre 1982, n. 646 (art. 513-bis c.p.), cit., pp. 278 e ss.; Bricola, F., Premessa al commento della l. 13 settembre 1982, n. 646, in Leg. Pen., 1983, pp. 237 e ss.; Mazza, L., L’art. 513 bis del codice penale e la lotta agli atti di concorrenza compiuti con violenza o minaccia, in Riv. pol., 1983, pp. 730 e ss.; Marini, G., Industria e commercio (delitti contro l’): illecita concorrenza con violenza o minaccia, in Nuovissimo Digesto Italiano., App., vol. IV, Utet, Torino, 1983, pp. 165 e ss.; Paterniti, C., Diritto penale dell’economia, Giappichelli, Torino, 1995, pp. 75 e ss.; Fornasari, G., L’art. 513-bis, in. Corso, P., - Insolera, G., - Stortoni, L., (a cura di),  Mafia e criminalità organizzata, vol. I, Utet, Torino, 1995, pp. 97 e ss.; Seminara, S., L’impresa e il mercato, in Pedrazzi, C., - Alessandri, A., - Foffani, L., - Seminara, S., - Spagnolo, G., Manuale di diritto penale dell’impresa, Mondruzzi editore, Bologna, 1999, pp. 638 e ss.; Mazzacuva, N., I delitti contro l’economia pubblica, in Canestrari, S., - Gamberini, A. – Insolera, G., - Mazzacuva, N., - Sgubbi, F.,- Stortoni, L., - Tagliarini, F., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Mondruzzi editoriale, Bologna, 2006, pp. 293 e ss.; Cadoppi, A.,- Canestrari, S.,-  Manna, A., - Papa, M., Trattato di diritto penale. Parte speciale, vol. V, Utet, Torino, 2010, pp. 324 e ss.; D’Ippolito, E., L’illecita concorrenza con violenza o minaccia: tra metodo mafioso e direzione dell’intimidazione, il problema resta l’equivoco sugli atti di concorrenza, in Cass. Pen., 2011, pp. 3820 e ss.; Padovani, T., Codice penale, cit., pp. 3425 e ss.; Forti, G., - Seminara, S., Commentario breve al codice penale, CEDAM, Padova, 2019, pp. 2675 e ss.; Bernardi, S., Alle Sezioni unite il compito di fare chiarezza intorno al concetto di “atti di concorrenza” nel delitto di cui all’art. 513-bis c.p. (illecita concorrenza con minaccia o violenza), in Sistema penale online, 2019; Mezza, E., Illecita concorrenza con minaccia o violenza: l’affannosa ricerca di una tipicità sfuggente, in Diritto penale contemporaneo online, 2019; Bernardi, S., Le Sezioni Unite chiariscono il concetto di “atti di concorrenza” nel delitto di cui all’art. 513-bis c.p., in Sistema penale online, 2020; Abukar Hayo, A., La determinatezza degli “atti di concorrenza” ex art. 513-bis c.p. alla luce della sentenza delle Sezioni unite n. 13178/2019, in Archivio penale, n. 2, 2020.

[8] Cass. Pen., Sez. Un., sentenza n. 13178 del 28 novembre 2019, pp. 5-6, in commento.

[9] P. 7 sentenza in commento.

[10] Cfr. Padovani, T., Codice penale, cit., p. 3429.

[11] P. 7 della sentenza in commento.

[12] Padovani, T., Codice penale, cit., p. 3429.

[13] Ibidem.

[14] Cass. Pen., Sez. II, n. 14467/2004; Cass. Pen., Sez. I, n. 2224/1995, in CED.

[15] Cfr. Alessandri, A., Concorrenza illecita con minacce o violenza, cit., p. 415; Fiandaca, G., Commento all’art. 8 l. 13 settembre 1982, n. 646 (art. 513-bis c.p.), cit., p. 280; Marini, G., Industria e commercio (delitti contro l’): illecita concorrenza con violenza o minaccia, cit., p. 170; S. Seminara, L’impresa e il mercato, cit., p. 673.

[16] Cfr. Mezza, E., Illecita concorrenza con minaccia o violenza: l’affannosa ricerca di una tipicità sfuggente, cit., p. 327 e ss.

[17] Cass. Pen., Sez. II, n. 53139/2016; Cass. Pen., Sez. fer., n. 45132/2014; Cass. Pen., Sez. II, n. 5793/2013; Cass. Pen., Sez. I, n. 24172/2010; Cass. Pen., Sez. II, n. 46992/2008; Cass. Pen., Sez. V, n. 27335/2007; Cass. Pen., Sez., n. 14467/2004, in T. Padovani, Codice penale, cit., p. 3432.

[18] Cass. Pen., Sez. II, n. 15781/2015 in Padovani, T., Codice penale, cit., p. 3432.

[19] Cass. Pen., Sez. fer., n. 45132/2014, in Padovani, T., Codice penale, cit., p. 3432.

[20] Cfr. Alessandri, A., Concorrenza illecita con minacce o violenza, cit., p. 416; Mazza, L., L’art. 513 bis del codice penale e la lotta agli atti di concorrenza compiuti con violenza o minaccia, cit., p. 739.

[21] Cfr. Padovani, T., Codice penale, cit., p. 3432; G. Fiandaca Commento all’art. 8 l. 13 settembre 1982, n. 646 (art. 513-bis c.p.), cit., p. 280; Mazza, L., L’art. 513 bis del codice penale e la lotta agli atti di concorrenza compiuti con violenza o minaccia, cit., p. 735.

[22] Si veda Padovani, T., Codice penale, cit., p. 3432.

[23] Cass. Pen., Sez. I, n 1439/2009, in Padovani, T., Codice penale, cit., p. 3432.

[24] Cfr. Fiandaca, G., Commento all’art. 8 l. 13 settembre 1982, n. 646 (art. 513-bis c.p.), cit., p. 279.

[25] Cfr. Mazzacuva, N., I delitti contro l’economia pubblica, cit., p. 303; S. Seminara, L’impresa e il mercato, cit., p. 672.

[26] Cfr. Marini, G., Industria e commercio (delitti contro l’): illecita concorrenza con violenza o minaccia, cit., p. 169.

[27] Padovani, T., Codice penale, cit., p.  3426.

[28] Cass. Pen., Sez. II, n. 5793/2014; Cass. Pen., Sez. V, n. 27335/2007; Cass. Pen., Sez. I, n. 2224/1996, Buzzone; Cass. Pen., Sez. I, n. 131/1998, Sciacca; Cass. Pen., Sez. VI, n. 180706/1989, Spano; Cass. Pen., Sez. III, n. 46756/2005 in CED.

[29] Cfr. sul punto Bricola, F., Premessa al commento della l. 13 settembre 1982, n. 646, cit., pp. 241-242; Fiandaca, G., Commento all’art. 8 l. 13 settembre 1982, n. 646 (art. 513-bis c.p.), cit., p. 280.

[30] In tal senso Marini, G., Industria e commercio (delitti contro l’): illecita concorrenza con violenza o minaccia, cit., p. 176.

[31] Fornasari, G., L’art. 513-bis, cit., p. 110.

[32] Cass. Pen., Sez. Un., n. 13178 del 28 novembre 2019, p. 10, in commento.

[33] P. 11 sentenza in commento.

[34] P. 12 sentenza in commento.

[35] Sul punto appare opportuno citare: Amato, G., Il mercato nella Costituzione, in Quaderni costituzionali, n. 1, Il Mulino, Bologna, 1992; Amato, G., La nuova Costituzione economica, in Racananeo, G.- Napolitano, G., (a cura di), Per una nuova Costituzione economica, Il Mulino, Bologna, 1998; Amato, G., - Garofoli, R., (a cura di), I tre assi. L’Amministrazione tra democratizzazione, efficientismo e responsabilità, Nel diritto editore, 2009, al quale si riconosce il merito di essere stato uno dei primi studiosi ad aver interpretato l’art. 41, co. 1, Cost. in chiave concorrenziale, rinvenendo, così, la presenza del principio di libera concorrenza tra privati in Costituzione.

[36] P. 15 sentenza in commento.

[37] Qui si richiama la tradizionale distinzione di Isaiah Berlin tra libertà “di” (libertà positiva) e libertà “da” (libertà negativa) in Berlin, I., Quattro saggi sulla libertà, Ferltrinelli, Milano, 1989. Tale indicazione si appresta a precisare il richiamo operato dalle Sezioni unite per segnalare l’ampia tutela offerta alla libera concorrenza tra privati dall’ordinamento interno.

[38] P. 18 sentenza in commento.

[39] P. 21 sentenza in commento.

[40] P. 23 sentenza in commento.

[41] Si veda p. 24 sentenza in commento.

[42] P. 26 sentenza in commento.

[43] Si veda a riguardo: Abukar Hayo, A., La determinatezza degli “atti di concorrenza” ex art. 513-bis c.p. alla luce della sentenza delle Sezioni unite n. 13178/2019, cit., p. 13.

[44] Cfr. Abukar Hayo, A., La determinatezza degli “atti di concorrenza” ex art. 513-bis c.p. alla luce della sentenza delle Sezioni unite n. 13178/2019, cit., p. 14 e ss.; Mezza, E., Illecita concorrenza con minaccia o violenza: l’affannosa ricerca di una tipicità sfuggente, cit., p. 323 e ss.

[45] Su cui si veda Belfiore, A., Interpretazione della legge: l’analogia, in Studium iuris, 2008, p. 421 e ss.

[46] Cfr. Mezza, E., Illecita concorrenza con minaccia o violenza: l’affannosa ricerca di una tipicità sfuggente, cit., p. 326 e ss.

[47] Si veda sul punto: Mezza, E., Illecita concorrenza con minaccia o violenza: l’affannosa ricerca di una tipicità sfuggente, cit., p. 326; D’Ippolito, E., L’illecita concorrenza con violenza o minaccia: tra metodo mafioso e direzione dell’intimidazione, il problema resta l’equivoco sugli atti di concorrenza, cit., p. 3825 e ss.

[48] Cfr. Mezza, E., Illecita concorrenza con minaccia o violenza: l’affannosa ricerca di una tipicità sfuggente, cit., p. 327 e ss.

[49] Cfr. Mezza, E., Illecita concorrenza con minaccia o violenza: l’affannosa ricerca di una tipicità sfuggente, cit., p. 324 e ss.

[50] Si veda sulla effettiva portata della fattispecie: Fiandaca, G., Commento all’art. 8 l. 13 settembre 1982, n. 646 (art. 513-bis c.p.), cit., p. 279 e ss.; Alessandri, A., Concorrenza illecita con minacce e violenza, cit., p. 415; Bricola, F., Premessa al commento della l. 13 settembre 1982, n. 646, cit., p. 237 e ss.; Mazza, L., L’art. 513 bis del codice penale e la lotta agli atti di concorrenza compiuti con violenza o minaccia, cit., p. 730 e ss; D’Ippolito, E., L’illecita concorrenza con violenza o minaccia: tra metodo mafioso e direzione dell’intimidazione, il problema resta l’equivoco sugli atti di concorrenza, cit., p. 3820 e ss.; Seminara, S., L’impresa e il mercato, cit., p. 671; Bernardi, S., Alle Sezioni unite il compito di fare chiarezza intorno al concetto di “atti di concorrenza” nel delitto di cui all’art. 513-bis c.p. (illecita concorrenza con minaccia o violenza), cit.; Mezza, E., Illecita concorrenza con minaccia o violenza: l’affannosa ricerca di una tipicità sfuggente, cit., p. 326; Abukar Hayo, A., La determinatezza degli “atti di concorrenza” ex art. 513-bis c.p. alla luce della sentenza delle Sezioni unite n. 13178/2019, cit., p. 4.

[51] Sul punto l’elaborazione dottrinale è stata prolifica, a seguito della celebre sentenza Taricco, che ha scatenato la dibattuta questione sulla determinazione del principio di legalità e, in specie, sulla natura della prescrizione. Si veda a riguardo: Lupo, E., La sentenza europea c.d. Taricco-bis: risolti i problemi per il passato, rimangono aperti i problemi per il futuro, in Diritto penale contemporaneo online, 2017; Eusebi, L., Nemmeno la Corte di Giustizia dell’Unione Europea può erigere il giudice a legislatore, in Diritto penale contemporaneo online, 2015; Pulitanò, D., Ragioni della legalità. A proposito di Corte Cost. n. 24/2017, in Diritto penale contemporaneo online, 2017; Viganò, F., Le parole e i silenzi. Osservazioni sull’ordinanza n. 24/2017 della Corte costituzionale sul caso Taricco, in Diritto penale contemporaneo online, 2017; Manes, V., La Corte muove e, in tre mosse, dà scacco a “Taricco”, in Diritto penale contemporaneo online, 2017.