Il fondamento della demanialità storico-artistica nel regime circolatorio
La materia concernente la circolazione dei beni culturali di proprietà pubblica ha particolarmente animato il dibattito culturale e politico di questi ultimi anni, soprattutto a causa dei numerosi interventi legislativi, spesso settoriali, di recente avvicendatisi nel nostro ordinamento. La letteratura connessa al demanio di interesse storico-artistico e soprattutto al regime della proprietà pubblica dei beni culturali è particolarmente estesa e da ciò nasce questo studio che affronta il tema partendo proprio dalle ragioni della demanialità.
Appare doveroso soffermarsi a riflettere sulle ragioni della demanialità in merito ad un nutrito numero di beni culturali individuati dal Codice Urbani.
Tali ragioni si fondano, sostanzialmente, sul presupposto che il proprietario pubblico costituirebbe il miglior titolare ipotizzabile nel perseguire in concreto la funzione propria di tali beni, cioè l’arricchimento culturale della società.
Lo stretto legame che unisce i beni culturali agli enti pubblici territoriali ove sono collocati va inteso in vista della funzionalizzazione all’interesse pubblico: tale appartenenza pubblica, infatti, è stata ricostruita non tanto seguendo lo schema privatistico del diritto soggettivo (con i relativi poteri e facoltà che ne scaturiscono), quanto piuttosto nell’ottica del «dovere» e del «compito pubblico», il cui tratto caratterizzante sarebbe appunto rappresentato dalla doverosità dell’uso strumentale dei beni da parte dell’Amministrazione al fine di soddisfare le esigenze pubbliche.
In effetti, che vi sia di fatto una corrispondenza tra l’appartenenza pubblica del bene culturale e la sua destinazione al perseguimento dell’interesse pubblico viene da tempo posto in evidenza non solo dalla giurisprudenza, ma anche dallo stesso dato normativo letterale: valgano, ad esempio, l’articolo 2, comma 4 (« I beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività ...»), come pure gli articoli 101 (« Gli istituti ed i luoghi di cui al comma 1 che appartengono a soggetti pubblici sono destinati alla pubblica fruizione ed espletano un servizio pubblico ») e 102 (« Lo Stato, le regioni, gli altri enti pubblici territoriali ed ogni altro ente ed istituto pubblico assicurano la fruizione dei beni presenti negli istituti e nei luoghi» della cultura ad appartenenza pubblica).
Per non dire, poi, di tutte le numerose disposizioni codicistiche in materia di tutela dei beni culturali dirette ad assicurare forme di acquisto privilegiate in favore dello Stato, come quelle relative alla c.d. prelazione artistica (articoli 60-62), all’espropriazione (artt. 90-100) e all’appartenenza a titolo originario dei beni ritrovati nel sottosuolo (artt. 88 ss.). E gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Pertanto, i limiti tradizionalmente posti alla circolazione dei beni demaniali vanno “letti” alla luce della necessità di non privare di tali categorie di beni l’ente titolare della funzione pubblica sottesa al loro valore sociale. Nel caso, poi, si tratti più specificamente di beni culturali, la loro insita funzionalizzazione pubblica assume una più elevata considerazione da parte dell’ordinamento, stante il loro diretto collegamento addirittura con i principi fondamentali della Carta costituzionale ( articolo 9).
L’articolo 53 del codice Urbani, al comma 1, definisce i beni del demanio culturale come quei beni «appartenenti allo Stato, alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali che rientrino nelle tipologie indicate all’articolo 822 del codice civile».
Dalla definizione si evince che è positivamente richiesta la coesistenza di due distinti requisiti: un requisito soggettivo, afferente allo status del titolare del bene, rappresentato cioè dall’appartenenza del bene stesso allo Stato o ad altro ente pubblico territoriale, e un requisito oggettivo, afferente invece al bene in sé, il quale è dato dalla coincidenza con una delle tipologie di beni individuate dall’art. 822 codice civile, ossia, nel nostro caso, dagli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia nonché dalle raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche.
Dalle disposizioni del codice civile richiamate si evince altresì che quest’ultimo propone una netta differenziazione nell’ambito dei beni culturali, a seconda che essi appartengano agli enti territoriali o a tutti i restanti soggetti dell’ordinamento, siano essi pubblici o privati.
Tale differenziazione consiste nel fatto che, alla disciplina generale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali (estensibile, quindi, a favore di tutti i beni culturali), si sovrappone il particolare regime della demanialità, ovviamente limitatamente ai beni culturali appartenenti agli enti territoriali.
Questi ultimi sono poi assoggettati alla disciplina propria del c.d. demanio accidentale, da individuare, a seconda dei casi, tanto nel codice civile, quanto nella legislazione speciale.
Inoltre, come anche la stessa giurisprudenza rileva (Consiglio di Stato, ad. plen., 13 luglio 1989, n. 59, in Foro it., 1990, III, 356), la demanialità dei beni culturali, mentre può assimilarsi a quella che caratterizza i beni considerati di proprietà collettiva, si distingue invece assai nettamente da quegli ulteriori beni demaniali per i quali, in considerazione della loro specifica destinazione ad un impiego diretto ed esclusivo da parte delle Amministrazioni (quali mezzi necessari per il funzionamento e la produzione di servizi pubblici), si è soliti parlare di «uso aziendale».
Ancora uno spunto di riflessione.
Poc’anzi si è rilevato che si è in presenza di beni appartenenti al demanio culturale qualora coesistano entrambi i requisiti (soggettivo ed oggettivo) di cui all’articolo 822 c.c..
Ebbene, l’introduzione di un concetto unitario di demanio con riferimento ai beni culturali (l’art. 53 del Codice Urbani e, precedentemente, l’art. 54 del Testo Unico) conduce a due importanti conseguenze, e precisamente: che non avrebbe più senso disquisire, come in passato, circa l’esistenza di distinte tipologie di beni demaniali culturali (suddivise, cioè, in demanio storico, artistico, archivistico e bibliografico), essendo oramai fuori discussione la natura unitaria dei beni demaniali in quanto tutti rientranti nella categoria unitaria del patrimonio culturale pubblico; che, inoltre, da questa concezione unitaria di demanio culturale discenderebbe altresì un’unitarietà di disciplina e, conseguentemente, l’esistenza di un corpus normativo autonomo, prima fonte di disciplina del c.d. «rapporto giuridico culturale».
Passando ora all’esame del regime giuridico che il codice civile riserva ai beni demaniali, giova ricordare che, ai sensi dell’articolo 823 del codice civile, tali beni «sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano».
Dalla disposizione ora riportata si evince che il tratto caratterizzante i beni demaniali sarebbe invero costituito proprio dalla loro indisponibilità, che, a ben vedere, non è però assoluta: l’art. 823 citato consente, infatti, una cospicua deroga, in forza della quale sarebbe possibile una limitata circolazione di talune tipologie di beni demaniali. L’ambito di operatività di questa deroga è stato lungamente oggetto di contesa tra due opposte tesi interpretative.
Da un lato, vi era l’opinione dominante, particolarmente diffusa in giurisprudenza, secondo la quale tale deroga sarebbe stata ammissibile solo al fine di consentire la costituzione di meri diritti a favore di terzi sui beni demaniali, con ciò indirettamente confermando la loro inalienabilità (a questo punto assoluta).
Dall’altro, si contrapponeva una corrente dottrinale la quale, discostandosi dal puro dato letterale della norma, arrivava ad ammettere la derogabilità del principio dell’inalienabilità, pur se con riguardo soltanto a talune particolari tipologie di beni demaniali; perciò, attraverso la previsione di una loro parziale trasferibilità, si sarebbe infranto il principio dell’inalienabilità, da intendersi a questo punto solo relativa e non più assoluta.
Giova ricordare che, in virtù dell’art. 823 del codice civile, la tutela dei beni appartenenti al demanio (compreso quello culturale) spetta all’autorità amministrativa, la quale può agire nei confronti dell’autore di turbative, occupazioni abusive, ecc., avvalendosi discrezionalmente tanto dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso, quanto in via amministrativa.
Sempre il codice civile contrappone poi i beni culturali appartenenti al demanio a quelli rientranti nel patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici, territoriali e non (articolo 826, secondo comma), anch’essi facenti parte del patrimonio culturale del Paese, e precisamente le «cose di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo».
Ora, da una lettura congiunta di quest’ultima disposizione con l’art. 822, secondo comma, si evince che, se trattasi di beni archeologici immobili, gli stessi rientrano a pieno titolo nell’alveo dei beni demaniali, contrariamente a quanto avviene per i beni archeologici mobili i quali, invece, vanno inquadrati tra i beni patrimoniali indisponibili ex art. 826, secondo comma, codice civile. Va aggiunto inoltre che, ai sensi dell’art. 91 del Codice Urbani, entrano a far parte del patrimonio indisponibile anche le cose mobili indicate nell’art. 10 C.U. «da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui, fondali marini».
Infine, sempre con riguardo ai beni demaniali e, segnatamente, a quelli rientranti nel patrimonio culturale nazionale, nei tempi recenti si è sempre più diffuso, in larghi strati dell’opinione pubblica come pure a livello politico e tra gli stessi cultori della materia, il convincimento che la proprietà pubblica dei beni culturali (e non solo di questi) non sia in fondo essenziale al soddisfacimento dell’interesse pubblico insito nella natura di questi beni.
Anzi, si è fatta strada in misura via via crescente la tesi secondo la quale la proprietà pubblica sarebbe addirittura di per sé fonte di inaccettabili diseconomie, generate tanto dai costi eccessivi di gestione, quanto dai risultati insoddisfacenti in termini di produttività economica e sociale.
Alla luce di queste riflessioni si è così radicata l’opinione secondo la quale la tipica funzione sociale di conservazione e fruizione insita nella disciplina pubblicistica dei beni culturali demaniali possa in effetti essere altrettanto, se non in meglio, raggiunta dagli stessi privati. Si rileva inoltre l’innovatività del comma 2 dell’art. 53 citato, giacché, così com’è formulato, pone finalmente termine alla vecchia querelle circa la reale valenza da attribuire all’art. 822 c.c., che a suo tempo ha portato a soluzioni interpretative assai distanti tra loro.
Più precisamente, detto comma 2 disponendo che «I beni del demanio culturale non possono essere alienati, né formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi previsti dal presente codice», chiarisce — decisamente meglio della vecchia formulazione dell’art. 823 c.c. — che la regola dell’inalienabilità del demanio culturale può essere derogata solo in forza di una legge speciale espressamente indicata dallo stesso Codice Urbani.
In altri termini, la prescrizione secondo la quale i beni del demanio culturale non possono essere alienati «se non nei modi previsti dal presente Codice» vuol significare l’inapplicabilità a tale tipologia di beni di qualsiasi ulteriore normativa che ne disponga la trasferibilità, ivi compresi tutti gli interventi legislativi in materia di dismissione di immobili pubblici susseguitisi a partire dagli anni novanta del secolo scorso, con un’impennata nei primi anni del nuovo millennio. E tale impossibilità di deroga alla disciplina del Codice è da intendersi estesa anche a possibili futuri interventi legislativi, a meno che, a loro volta, questi ultimi non si pongano espressamente quale disciplina speciale in materia di alienazione dei beni del demanio culturale.
Il disposto di cui al comma 2 dell’art. 53 C.U., mira dunque ad accogliere definitivamente, come una sorta di interpretazione autentica, quella corrente minoritaria che ha più volte tentato di conciliare il regime giuridico generale del codice civile del 1942 con lo speciale regime dell’alienabilità dei beni demaniali recentemente introdotto dal legislatore.
L’innovazione introdotta dalla norma in commento ha tuttavia suscitato talune perplessità, addirittura rasentanti il profilo della sua stessa legittimità costituzionale, le quali, ad una più approfondita riflessione, sono apparse francamente eccessive ed infondate.
Tralasciati tali dubbi, assai diffuso è il rilievo critico di ordine generale circa il progressivo abbandono del tradizionale principio della titolarità comune dei beni culturali, quale espressione della più ampia garanzia circa la loro fruibilità pubblica.
A tale rilievo si è tuttavia replicato che il Codice manifesta, almeno, il pregio di ripristinare una sorta di “coerenza normativa” interna al sistema dei beni del demanio culturale, superando così quella inaccettabile compresenza tra un generale principio di (rigorosa) inalienabilità fissato dal codice civile e le contestuali ampie deroghe introdotte, spesso convulsamente, dal più recente legislatore.
La materia concernente la circolazione dei beni culturali di proprietà pubblica ha particolarmente animato il dibattito culturale e politico di questi ultimi anni, soprattutto a causa dei numerosi interventi legislativi, spesso settoriali, di recente avvicendatisi nel nostro ordinamento. La letteratura connessa al demanio di interesse storico-artistico e soprattutto al regime della proprietà pubblica dei beni culturali è particolarmente estesa e da ciò nasce questo studio che affronta il tema partendo proprio dalle ragioni della demanialità.
Appare doveroso soffermarsi a riflettere sulle ragioni della demanialità in merito ad un nutrito numero di beni culturali individuati dal Codice Urbani.
Tali ragioni si fondano, sostanzialmente, sul presupposto che il proprietario pubblico costituirebbe il miglior titolare ipotizzabile nel perseguire in concreto la funzione propria di tali beni, cioè l’arricchimento culturale della società.
Lo stretto legame che unisce i beni culturali agli enti pubblici territoriali ove sono collocati va inteso in vista della funzionalizzazione all’interesse pubblico: tale appartenenza pubblica, infatti, è stata ricostruita non tanto seguendo lo schema privatistico del diritto soggettivo (con i relativi poteri e facoltà che ne scaturiscono), quanto piuttosto nell’ottica del «dovere» e del «compito pubblico», il cui tratto caratterizzante sarebbe appunto rappresentato dalla doverosità dell’uso strumentale dei beni da parte dell’Amministrazione al fine di soddisfare le esigenze pubbliche.
In effetti, che vi sia di fatto una corrispondenza tra l’appartenenza pubblica del bene culturale e la sua destinazione al perseguimento dell’interesse pubblico viene da tempo posto in evidenza non solo dalla giurisprudenza, ma anche dallo stesso dato normativo letterale: valgano, ad esempio, l’articolo 2, comma 4 (« I beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività ...»), come pure gli articoli 101 (« Gli istituti ed i luoghi di cui al comma 1 che appartengono a soggetti pubblici sono destinati alla pubblica fruizione ed espletano un servizio pubblico ») e 102 (« Lo Stato, le regioni, gli altri enti pubblici territoriali ed ogni altro ente ed istituto pubblico assicurano la fruizione dei beni presenti negli istituti e nei luoghi» della cultura ad appartenenza pubblica).
Per non dire, poi, di tutte le numerose disposizioni codicistiche in materia di tutela dei beni culturali dirette ad assicurare forme di acquisto privilegiate in favore dello Stato, come quelle relative alla c.d. prelazione artistica (articoli 60-62), all’espropriazione (artt. 90-100) e all’appartenenza a titolo originario dei beni ritrovati nel sottosuolo (artt. 88 ss.). E gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Pertanto, i limiti tradizionalmente posti alla circolazione dei beni demaniali vanno “letti” alla luce della necessità di non privare di tali categorie di beni l’ente titolare della funzione pubblica sottesa al loro valore sociale. Nel caso, poi, si tratti più specificamente di beni culturali, la loro insita funzionalizzazione pubblica assume una più elevata considerazione da parte dell’ordinamento, stante il loro diretto collegamento addirittura con i principi fondamentali della Carta costituzionale ( articolo 9).
L’articolo 53 del codice Urbani, al comma 1, definisce i beni del demanio culturale come quei beni «appartenenti allo Stato, alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali che rientrino nelle tipologie indicate all’articolo 822 del codice civile».
Dalla definizione si evince che è positivamente richiesta la coesistenza di due distinti requisiti: un requisito soggettivo, afferente allo status del titolare del bene, rappresentato cioè dall’appartenenza del bene stesso allo Stato o ad altro ente pubblico territoriale, e un requisito oggettivo, afferente invece al bene in sé, il quale è dato dalla coincidenza con una delle tipologie di beni individuate dall’art. 822 codice civile, ossia, nel nostro caso, dagli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia nonché dalle raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche.
Dalle disposizioni del codice civile richiamate si evince altresì che quest’ultimo propone una netta differenziazione nell’ambito dei beni culturali, a seconda che essi appartengano agli enti territoriali o a tutti i restanti soggetti dell’ordinamento, siano essi pubblici o privati.
Tale differenziazione consiste nel fatto che, alla disciplina generale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali (estensibile, quindi, a favore di tutti i beni culturali), si sovrappone il particolare regime della demanialità, ovviamente limitatamente ai beni culturali appartenenti agli enti territoriali.
Questi ultimi sono poi assoggettati alla disciplina propria del c.d. demanio accidentale, da individuare, a seconda dei casi, tanto nel codice civile, quanto nella legislazione speciale.
Inoltre, come anche la stessa giurisprudenza rileva (Consiglio di Stato, ad. plen., 13 luglio 1989, n. 59, in Foro it., 1990, III, 356), la demanialità dei beni culturali, mentre può assimilarsi a quella che caratterizza i beni considerati di proprietà collettiva, si distingue invece assai nettamente da quegli ulteriori beni demaniali per i quali, in considerazione della loro specifica destinazione ad un impiego diretto ed esclusivo da parte delle Amministrazioni (quali mezzi necessari per il funzionamento e la produzione di servizi pubblici), si è soliti parlare di «uso aziendale».
Ancora uno spunto di riflessione.
Poc’anzi si è rilevato che si è in presenza di beni appartenenti al demanio culturale qualora coesistano entrambi i requisiti (soggettivo ed oggettivo) di cui all’articolo 822 c.c..
Ebbene, l’introduzione di un concetto unitario di demanio con riferimento ai beni culturali (l’art. 53 del Codice Urbani e, precedentemente, l’art. 54 del Testo Unico) conduce a due importanti conseguenze, e precisamente: che non avrebbe più senso disquisire, come in passato, circa l’esistenza di distinte tipologie di beni demaniali culturali (suddivise, cioè, in demanio storico, artistico, archivistico e bibliografico), essendo oramai fuori discussione la natura unitaria dei beni demaniali in quanto tutti rientranti nella categoria unitaria del patrimonio culturale pubblico; che, inoltre, da questa concezione unitaria di demanio culturale discenderebbe altresì un’unitarietà di disciplina e, conseguentemente, l’esistenza di un corpus normativo autonomo, prima fonte di disciplina del c.d. «rapporto giuridico culturale».
Passando ora all’esame del regime giuridico che il codice civile riserva ai beni demaniali, giova ricordare che, ai sensi dell’articolo 823 del codice civile, tali beni «sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano».
Dalla disposizione ora riportata si evince che il tratto caratterizzante i beni demaniali sarebbe invero costituito proprio dalla loro indisponibilità, che, a ben vedere, non è però assoluta: l’art. 823 citato consente, infatti, una cospicua deroga, in forza della quale sarebbe possibile una limitata circolazione di talune tipologie di beni demaniali. L’ambito di operatività di questa deroga è stato lungamente oggetto di contesa tra due opposte tesi interpretative.
Da un lato, vi era l’opinione dominante, particolarmente diffusa in giurisprudenza, secondo la quale tale deroga sarebbe stata ammissibile solo al fine di consentire la costituzione di meri diritti a favore di terzi sui beni demaniali, con ciò indirettamente confermando la loro inalienabilità (a questo punto assoluta).
Dall’altro, si contrapponeva una corrente dottrinale la quale, discostandosi dal puro dato letterale della norma, arrivava ad ammettere la derogabilità del principio dell’inalienabilità, pur se con riguardo soltanto a talune particolari tipologie di beni demaniali; perciò, attraverso la previsione di una loro parziale trasferibilità, si sarebbe infranto il principio dell’inalienabilità, da intendersi a questo punto solo relativa e non più assoluta.
Giova ricordare che, in virtù dell’art. 823 del codice civile, la tutela dei beni appartenenti al demanio (compreso quello culturale) spetta all’autorità amministrativa, la quale può agire nei confronti dell’autore di turbative, occupazioni abusive, ecc., avvalendosi discrezionalmente tanto dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso, quanto in via amministrativa.
Sempre il codice civile contrappone poi i beni culturali appartenenti al demanio a quelli rientranti nel patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici, territoriali e non (articolo 826, secondo comma), anch’essi facenti parte del patrimonio culturale del Paese, e precisamente le «cose di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo».
Ora, da una lettura congiunta di quest’ultima disposizione con l’art. 822, secondo comma, si evince che, se trattasi di beni archeologici immobili, gli stessi rientrano a pieno titolo nell’alveo dei beni demaniali, contrariamente a quanto avviene per i beni archeologici mobili i quali, invece, vanno inquadrati tra i beni patrimoniali indisponibili ex art. 826, secondo comma, codice civile. Va aggiunto inoltre che, ai sensi dell’art. 91 del Codice Urbani, entrano a far parte del patrimonio indisponibile anche le cose mobili indicate nell’art. 10 C.U. «da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui, fondali marini».
Infine, sempre con riguardo ai beni demaniali e, segnatamente, a quelli rientranti nel patrimonio culturale nazionale, nei tempi recenti si è sempre più diffuso, in larghi strati dell’opinione pubblica come pure a livello politico e tra gli stessi cultori della materia, il convincimento che la proprietà pubblica dei beni culturali (e non solo di questi) non sia in fondo essenziale al soddisfacimento dell’interesse pubblico insito nella natura di questi beni.
Anzi, si è fatta strada in misura via via crescente la tesi secondo la quale la proprietà pubblica sarebbe addirittura di per sé fonte di inaccettabili diseconomie, generate tanto dai costi eccessivi di gestione, quanto dai risultati insoddisfacenti in termini di produttività economica e sociale.
Alla luce di queste riflessioni si è così radicata l’opinione secondo la quale la tipica funzione sociale di conservazione e fruizione insita nella disciplina pubblicistica dei beni culturali demaniali possa in effetti essere altrettanto, se non in meglio, raggiunta dagli stessi privati. Si rileva inoltre l’innovatività del comma 2 dell’art. 53 citato, giacché, così com’è formulato, pone finalmente termine alla vecchia querelle circa la reale valenza da attribuire all’art. 822 c.c., che a suo tempo ha portato a soluzioni interpretative assai distanti tra loro.
Più precisamente, detto comma 2 disponendo che «I beni del demanio culturale non possono essere alienati, né formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi previsti dal presente codice», chiarisce — decisamente meglio della vecchia formulazione dell’art. 823 c.c. — che la regola dell’inalienabilità del demanio culturale può essere derogata solo in forza di una legge speciale espressamente indicata dallo stesso Codice Urbani.
In altri termini, la prescrizione secondo la quale i beni del demanio culturale non possono essere alienati «se non nei modi previsti dal presente Codice» vuol significare l’inapplicabilità a tale tipologia di beni di qualsiasi ulteriore normativa che ne disponga la trasferibilità, ivi compresi tutti gli interventi legislativi in materia di dismissione di immobili pubblici susseguitisi a partire dagli anni novanta del secolo scorso, con un’impennata nei primi anni del nuovo millennio. E tale impossibilità di deroga alla disciplina del Codice è da intendersi estesa anche a possibili futuri interventi legislativi, a meno che, a loro volta, questi ultimi non si pongano espressamente quale disciplina speciale in materia di alienazione dei beni del demanio culturale.
Il disposto di cui al comma 2 dell’art. 53 C.U., mira dunque ad accogliere definitivamente, come una sorta di interpretazione autentica, quella corrente minoritaria che ha più volte tentato di conciliare il regime giuridico generale del codice civile del 1942 con lo speciale regime dell’alienabilità dei beni demaniali recentemente introdotto dal legislatore.
L’innovazione introdotta dalla norma in commento ha tuttavia suscitato talune perplessità, addirittura rasentanti il profilo della sua stessa legittimità costituzionale, le quali, ad una più approfondita riflessione, sono apparse francamente eccessive ed infondate.
Tralasciati tali dubbi, assai diffuso è il rilievo critico di ordine generale circa il progressivo abbandono del tradizionale principio della titolarità comune dei beni culturali, quale espressione della più ampia garanzia circa la loro fruibilità pubblica.
A tale rilievo si è tuttavia replicato che il Codice manifesta, almeno, il pregio di ripristinare una sorta di “coerenza normativa” interna al sistema dei beni del demanio culturale, superando così quella inaccettabile compresenza tra un generale principio di (rigorosa) inalienabilità fissato dal codice civile e le contestuali ampie deroghe introdotte, spesso convulsamente, dal più recente legislatore.