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Il lavoro a progetto e la conversione in rapporto di lavoro subordinato … l’individuazione del progetto, programma di lavoro o fase di esso

[Università degli Studi di Milano, Facoltà di Scienze Politiche, MASTER DI SECONDO LIVELLO IN DIRITTO DEL LAVORO E RELAZIONI INDUSTRIALI (DLRI), a.a. 2010/2011, Elaborato finale]

 

INDICE:

1. Dalle collaborazioni coordinate e continuative al lavoro a progetto

2. Il lavoro a progetto: il progetto, programma o la fase di esso

3. Le ipotesi “escluse”ex art. 61 Dlgs. 276/2003

4. Le collaborazioni con la Pubblica Amministrazione

5. La prassi in materia di lavoro a progetto

6. Lavoro a progetto nei call center: il caso Atesia

7. La giurisprudenza e l’art. 69 del Dlgs. 276/03

8. Le novità della “riforma 2012”

9. Riflessioni conclusive

Bibliografia 

1. Dalle collaborazioni coordinate e continuative al lavoro a progetto.

Le prime tracce delle collaborazioni coordinate e continuative risalgono all’art. 2 della legge n. 741/1959, sul tema dei “minimi di trattamento economico e normativo dei lavoratori”.

In esso sono indicati come meritevoli di tutela, in materia di trattamenti minimi economici dei lavoratori, anche “i rapporti di collaborazione che si concentrino in una prestazione d’opera coordinata e continuativa”[1].

La materia è successivamente oggetto di osservazione in occasione della riforma del processo del lavoro, operata dalla legge n. 533 del 1973, che inserisce nella disciplina processuale del rito del lavoro una serie di rapporti che hanno ad oggetto prestazioni di facere secondo lo schema generale del lavoro autonomo, ma che se ne differenziano per determinate modalità di svolgimento del rapporto lavorativo, quali la continuità, la coordinazione e la personalità della prestazione.

Siffatti caratteri vengono interpretati dal legislatore come sintomo di una situazione di debolezza economica di una parte contrattuale rispetto all’altra, inducendolo a prevedere una più efficace tutela sul piano processuale, contenuta nella norma di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c..

La locuzione “…altri rapporti…” individua nuove relazioni di lavoro personale e continuativo, che vanno a comporre la cosiddetta “zona grigia” delle co.co.co, caratterizzate proprio dalla continuità, dalla coordinazione e dal carattere prevalentemente personale della prestazione lavorativa.[2]

In particolare, il termine “opera” della norma processuale è seguito dal requisito della continuità.

La giurisprudenza di legittimità ha precisato che tale elemento ricorre tutte le volte in cui vi sia una prestazione d’opera non meramente occasionale ed istantanea, ma destinata a protrarsi in un arco temporale indeterminato o, comunque, apprezzabilmente lungo, tale da dar vita ad una reiterazione della prestazione[3].

Proprio per la circostanza che in tali rapporti l’adempimento non è istantaneo ma prolungato nel tempo, una parte della dottrina ritiene si tratti di contratti di durata in senso tecnico, riconoscendo nella continuità un elemento essenziale del contratto, predisposto per soddisfare un interesse durevole del creditore.

Altra dottrina, invece, interpreta la continuità come “un mero dato empirico”, per cui, pur includendo nelle co.co.co. rapporti di lavoro che si prolungano nel tempo, ne esclude la qualifica di rapporti di durata.

Individuare un rapporto come contratto di durata comporta conseguenze sia rispetto al tipo di obbligazione che il prestatore è tenuto ad eseguire, sia rispetto alla causa del contratto.

Un rapporto che si caratterizzi per un adempimento duraturo può più facilmente rientrare in un’obbligazione di mezzi, mentre, uno che si qualifichi come contratto ad esecuzione istantanea è più idoneo a rientrare nella tipologia delle obbligazioni di risultato.

La prestazione d’opera, inoltre, deve essere coordinata.

La coordinazione va intesa come “un momento o uno strumento del processo produttivo”[4], un collegamento funzionale tra l’attività del prestatore d’opera e quella del committente, che richiama alcuni caratteri propri del lavoro subordinato, non presenti nella disciplina civilistica del contratto d’opera.

A differenza, però, che nel lavoro subordinato, in cui la coordinazione si estrinseca nel rapporto tra il potere esercitato dal datore di lavoro, che determina in maniera unilaterale le modalità con cui deve essere eseguita la prestazione lavorativa, e il dovere del lavoratore di uniformarsi alle prescrizioni impartitegli; questo collegamento organizzativo nelle co.co.co. si manifesta esclusivamente nel potere di conformazione spettante al committente, il quale pur potendo intervenire nell’attività di lavoro del prestatore, manca dei poteri tipici del datore di lavoro subordinato[5].

Con l’espressione “lavoro parasubordinato o coordinato” di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c., non si individua una figura tipica, ma si designa solo un modo di svolgere la prestazione di lavoro nell’ambito di rapporti, che hanno natura e origine diversa e a cui si è fatto un sempre maggiore ricorso, con l’intento di mascherare, sotto la veste di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, relazioni di lavoro subordinato, al fine di evitarne i costi e i diritti, e che presentano una più ridotta contribuzione previdenziale (molto conveniente per il datore di lavoro), così come la disciplina sui licenziamenti di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, oggetto di recenti rivisitazioni da parte dell’attuale governo.

La dottrina, che per più di trent’anni ha studiato questo tipo di rapporti, li ha definiti un tertium genus [6] tra lavoro subordinato e lavoro autonomo.

In questo variegato panorama interviene il legislatore con l’art. 4, lett. c, della legge delega 14 febbraio 2003, n. 30 e gli artt. 61-69 del D.Lgs. di attuazione, n. 276/2003, con i quali, volendo tipizzare e disciplinare l’istituto in esame, introduce una nuova e ben definita fattispecie contrattuale, che presenta aspetti propri delle collaborazioni coordinate e continuative.

Sin da subito, l’art. 61 del decreto legislativo, stabilisce la necessità che le collaborazioni coordinate e continuative siano riconducibili ad un progetto o programma, allo scopo dichiarato di eliminare gli abusi che caratterizzano l’adozione delle collaborazioni medesime.

Si tratta di un sottotipo del contratto d’opera, che, a norma dell’art. 69 D.Lgs. 276/2003, “si converte” in lavoro subordinato qualora i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c. manchino della individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’art. 61, comma 1.

Lo scopo enunciato dal legislatore, di ricondurre le co.co.co alla diversa figura del lavoro a progetto, così da far cessare il ricorso ad esse “per superare rigidità e insufficienze delle regole del lavoro”, non è però raggiunto, dal momento che egli finisce col delineare una fattispecie dai contorni poco nitidi, che trae le basi dalle collaborazioni coordinate e continuative, ex art. 409, n. 3, c.p.c., ma che, in parte, se ne allontana, alimentando una intensa attività interpretativa da parte della dottrina, divisa su posizioni concettuali opposte.

2. Il lavoro a progetto: il progetto, programma d i lavoro o fase di esso.

La legge 14 febbraio 2003, n. 30, ha attribuito al Governo il difficile compito di realizzare il progetto di riforma del mercato del lavoro in Italia, con l’intento di disciplinare e razionalizzare alcune tipologie di lavoro, tra le quali il lavoro coordinato e continuativo.

In tale compito si inserisce l’art. 61, comma 1, del D.Lgs. 276/2003, che struttura il “lavoro a progetto” secondo un modello “a sommatoria” di requisiti[7].

Ed, infatti, accanto alle caratteristiche proprie delle collaborazioni coordinate e continuative, emerge l’aggiunta di elementi ulteriori:

la riconducibilità dell’attività ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso;

la determinazione degli stessi da parte del committente;

la gestione autonoma del collaboratore in funzione del risultato;

l’irrilevanza del tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa[8].

Da questo innesto è facile rinvenire alcune incongruenze rispetto ai requisiti richiesti dalla norma. Innanzitutto, sembra difficile conciliare un contratto come quello disciplinato dall’art. 409, n. 3, c.p.c., che alcuni autori considerano di durata in senso tecnico, con il nuovo contratto di lavoro a progetto, che nasce dalla medesima norma processuale, ma rispetto al quale non ha importanza il tempo impiegato per realizzare l’attività di lavoro.

La norma non qualifica in modo chiaro la fattispecie e non spiega cosa debba intendersi per “progetto” e “programma”, cosicché, in dottrina si sono delineati due indirizzi interpretativi[9].

Una parte della dottrina ritiene che la nuova tipologia contrattuale preveda, accanto alle medesime caratteristiche delle vecchie co.co.co. ex art. 409, n. 3, c.p.c., l’aggiunta del solo progetto, il quale indica esclusivamente le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa.

Altra dottrina ritiene che la fattispecie si distingue dalle co.co.co. sia per il progetto, il quale non può essere aziendale e deve essere “dedotto in contratto”, sia per la natura dell’obbligazione, che è esclusivamente di risultato.

Il progetto, dunque, non può essere una sorta di “orpello agganciabile a tutte le collaborazioni coordinate e continuative”[10].

A norma dell’art. 86, comma 1, “le collaborazioni coordinate e continuative (esistenti) non riconducibili ad un progetto o a una fase di esso, mantengono efficacia fino alla loro scadenza e, in ogni caso, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento”, salvo il prolungamento del termine eventualmente indicato dalla contrattazione collettiva.
[Università degli Studi di Milano, Facoltà di Scienze Politiche, MASTER DI SECONDO LIVELLO IN DIRITTO DEL LAVORO E RELAZIONI INDUSTRIALI (DLRI), a.a. 2010/2011, Elaborato finale]

 

INDICE:

1. Dalle collaborazioni coordinate e continuative al lavoro a progetto

2. Il lavoro a progetto: il progetto, programma o la fase di esso

3. Le ipotesi “escluse”ex art. 61 Dlgs. 276/2003

4. Le collaborazioni con la Pubblica Amministrazione

5. La prassi in materia di lavoro a progetto

6. Lavoro a progetto nei call center: il caso Atesia

7. La giurisprudenza e l’art. 69 del Dlgs. 276/03

8. Le novità della “riforma 2012”

9. Riflessioni conclusive

Bibliografia 

1. Dalle collaborazioni coordinate e continuative al lavoro a progetto.

Le prime tracce delle collaborazioni coordinate e continuative risalgono all’art. 2 della legge n. 741/1959, sul tema dei “minimi di trattamento economico e normativo dei lavoratori”.

In esso sono indicati come meritevoli di tutela, in materia di trattamenti minimi economici dei lavoratori, anche “i rapporti di collaborazione che si concentrino in una prestazione d’opera coordinata e continuativa”[1].

La materia è successivamente oggetto di osservazione in occasione della riforma del processo del lavoro, operata dalla legge n. 533 del 1973, che inserisce nella disciplina processuale del rito del lavoro una serie di rapporti che hanno ad oggetto prestazioni di facere secondo lo schema generale del lavoro autonomo, ma che se ne differenziano per determinate modalità di svolgimento del rapporto lavorativo, quali la continuità, la coordinazione e la personalità della prestazione.

Siffatti caratteri vengono interpretati dal legislatore come sintomo di una situazione di debolezza economica di una parte contrattuale rispetto all’altra, inducendolo a prevedere una più efficace tutela sul piano processuale, contenuta nella norma di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c..

La locuzione “…altri rapporti…” individua nuove relazioni di lavoro personale e continuativo, che vanno a comporre la cosiddetta “zona grigia” delle co.co.co, caratterizzate proprio dalla continuità, dalla coordinazione e dal carattere prevalentemente personale della prestazione lavorativa.[2]

In particolare, il termine “opera” della norma processuale è seguito dal requisito della continuità.

La giurisprudenza di legittimità ha precisato che tale elemento ricorre tutte le volte in cui vi sia una prestazione d’opera non meramente occasionale ed istantanea, ma destinata a protrarsi in un arco temporale indeterminato o, comunque, apprezzabilmente lungo, tale da dar vita ad una reiterazione della prestazione[3].

Proprio per la circostanza che in tali rapporti l’adempimento non è istantaneo ma prolungato nel tempo, una parte della dottrina ritiene si tratti di contratti di durata in senso tecnico, riconoscendo nella continuità un elemento essenziale del contratto, predisposto per soddisfare un interesse durevole del creditore.

Altra dottrina, invece, interpreta la continuità come “un mero dato empirico”, per cui, pur includendo nelle co.co.co. rapporti di lavoro che si prolungano nel tempo, ne esclude la qualifica di rapporti di durata.

Individuare un rapporto come contratto di durata comporta conseguenze sia rispetto al tipo di obbligazione che il prestatore è tenuto ad eseguire, sia rispetto alla causa del contratto.

Un rapporto che si caratterizzi per un adempimento duraturo può più facilmente rientrare in un’obbligazione di mezzi, mentre, uno che si qualifichi come contratto ad esecuzione istantanea è più idoneo a rientrare nella tipologia delle obbligazioni di risultato.

La prestazione d’opera, inoltre, deve essere coordinata.

La coordinazione va intesa come “un momento o uno strumento del processo produttivo”[4], un collegamento funzionale tra l’attività del prestatore d’opera e quella del committente, che richiama alcuni caratteri propri del lavoro subordinato, non presenti nella disciplina civilistica del contratto d’opera.

A differenza, però, che nel lavoro subordinato, in cui la coordinazione si estrinseca nel rapporto tra il potere esercitato dal datore di lavoro, che determina in maniera unilaterale le modalità con cui deve essere eseguita la prestazione lavorativa, e il dovere del lavoratore di uniformarsi alle prescrizioni impartitegli; questo collegamento organizzativo nelle co.co.co. si manifesta esclusivamente nel potere di conformazione spettante al committente, il quale pur potendo intervenire nell’attività di lavoro del prestatore, manca dei poteri tipici del datore di lavoro subordinato[5].

Con l’espressione “lavoro parasubordinato o coordinato” di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c., non si individua una figura tipica, ma si designa solo un modo di svolgere la prestazione di lavoro nell’ambito di rapporti, che hanno natura e origine diversa e a cui si è fatto un sempre maggiore ricorso, con l’intento di mascherare, sotto la veste di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, relazioni di lavoro subordinato, al fine di evitarne i costi e i diritti, e che presentano una più ridotta contribuzione previdenziale (molto conveniente per il datore di lavoro), così come la disciplina sui licenziamenti di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, oggetto di recenti rivisitazioni da parte dell’attuale governo.

La dottrina, che per più di trent’anni ha studiato questo tipo di rapporti, li ha definiti un tertium genus [6] tra lavoro subordinato e lavoro autonomo.

In questo variegato panorama interviene il legislatore con l’art. 4, lett. c, della legge delega 14 febbraio 2003, n. 30 e gli artt. 61-69 del D.Lgs. di attuazione, n. 276/2003, con i quali, volendo tipizzare e disciplinare l’istituto in esame, introduce una nuova e ben definita fattispecie contrattuale, che presenta aspetti propri delle collaborazioni coordinate e continuative.

Sin da subito, l’art. 61 del decreto legislativo, stabilisce la necessità che le collaborazioni coordinate e continuative siano riconducibili ad un progetto o programma, allo scopo dichiarato di eliminare gli abusi che caratterizzano l’adozione delle collaborazioni medesime.

Si tratta di un sottotipo del contratto d’opera, che, a norma dell’art. 69 D.Lgs. 276/2003, “si converte” in lavoro subordinato qualora i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c. manchino della individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’art. 61, comma 1.

Lo scopo enunciato dal legislatore, di ricondurre le co.co.co alla diversa figura del lavoro a progetto, così da far cessare il ricorso ad esse “per superare rigidità e insufficienze delle regole del lavoro”, non è però raggiunto, dal momento che egli finisce col delineare una fattispecie dai contorni poco nitidi, che trae le basi dalle collaborazioni coordinate e continuative, ex art. 409, n. 3, c.p.c., ma che, in parte, se ne allontana, alimentando una intensa attività interpretativa da parte della dottrina, divisa su posizioni concettuali opposte.

2. Il lavoro a progetto: il progetto, programma d i lavoro o fase di esso.

La legge 14 febbraio 2003, n. 30, ha attribuito al Governo il difficile compito di realizzare il progetto di riforma del mercato del lavoro in Italia, con l’intento di disciplinare e razionalizzare alcune tipologie di lavoro, tra le quali il lavoro coordinato e continuativo.

In tale compito si inserisce l’art. 61, comma 1, del D.Lgs. 276/2003, che struttura il “lavoro a progetto” secondo un modello “a sommatoria” di requisiti[7].

Ed, infatti, accanto alle caratteristiche proprie delle collaborazioni coordinate e continuative, emerge l’aggiunta di elementi ulteriori:

la riconducibilità dell’attività ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso;

la determinazione degli stessi da parte del committente;

la gestione autonoma del collaboratore in funzione del risultato;

l’irrilevanza del tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa[8].

Da questo innesto è facile rinvenire alcune incongruenze rispetto ai requisiti richiesti dalla norma. Innanzitutto, sembra difficile conciliare un contratto come quello disciplinato dall’art. 409, n. 3, c.p.c., che alcuni autori considerano di durata in senso tecnico, con il nuovo contratto di lavoro a progetto, che nasce dalla medesima norma processuale, ma rispetto al quale non ha importanza il tempo impiegato per realizzare l’attività di lavoro.

La norma non qualifica in modo chiaro la fattispecie e non spiega cosa debba intendersi per “progetto” e “programma”, cosicché, in dottrina si sono delineati due indirizzi interpretativi[9].

Una parte della dottrina ritiene che la nuova tipologia contrattuale preveda, accanto alle medesime caratteristiche delle vecchie co.co.co. ex art. 409, n. 3, c.p.c., l’aggiunta del solo progetto, il quale indica esclusivamente le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa.

Altra dottrina ritiene che la fattispecie si distingue dalle co.co.co. sia per il progetto, il quale non può essere aziendale e deve essere “dedotto in contratto”, sia per la natura dell’obbligazione, che è esclusivamente di risultato.

Il progetto, dunque, non può essere una sorta di “orpello agganciabile a tutte le collaborazioni coordinate e continuative”[10].

A norma dell’art. 86, comma 1, “le collaborazioni coordinate e continuative (esistenti) non riconducibili ad un progetto o a una fase di esso, mantengono efficacia fino alla loro scadenza e, in ogni caso, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento”, salvo il prolungamento del termine eventualmente indicato dalla contrattazione collettiva.