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Il trattamento assicurativo delle lesioni policrone

Premessa

Nella decisione in esame la  S.C. evita di addentrarsi nelle problematiche di merito legate al rapporto di causalità che lega tra loro una serie di infortuni, subiti nel corso di una stessa stagione agonistica da un atleta, e alla misurazione delle conseguenze invalidanti, e si riporta alle conclusioni cui erano giunti i giudici di merito sulla scorta della relazione medico legale del consulente tecnico. Invero, la Corte non evidenzia vizi logici o giuridici interni alle argomentazioni addotte a sostegno della decisione dei giudici di merito, conferma la decisione di secondo grado e glissa un argomento ove regna sovrana la confusione della prassi assicurativa degli uffici di liquidazione.

E’ consuetudine, infatti, che le Compagnie, in casi analoghi a quello sottoposto al vaglio delle corti, rifiutino di corrispondere l’indennizzo degli infortuni successivi al primo, ogni qualvolta più incidenti – legati da una presunta conseguenzialità - colpiscano uno stesso soggetto assicurato.

Per meglio intendere i termini della questione e diradare le nebbie di un’interpretazione dettata dalla prassi e slegata dal dato normativo (almeno in teoria), sarà il caso di affrontare nell’ordine tre questioni per giungere, poi, ad una conclusione: 1) breve disamina della fattispecie concreta analizzata dalla S.C.; 2) sommaria ricognizione della disciplina contrattuale comunemente adottata dalle compagnie; 3) approccio teorico al problema della causalità in materia di assicurazione infortuni. [Mette conto precisare che l’esposizione del fatto oggetto della controversia si baserà sulla lettura della sentenza (quindi sarà lacunosa e sintetica) mentre la ricognizione della polizza avrà a oggetto il contratto tipo ANIA e non il negozio sottoscritto dalle parti in causa (di cui se ne ignora il contenuto). Pertanto le considerazioni che seguiranno nel testo avranno carattere generale: i riferimenti al caso di specie saranno a mero titolo esemplificativo. In buona sostanza il presente lavoro trae spunto dalla decisione in epigrafe - che si caratterizza per i contenuti processuali (volutamente trascurati) più che sostanziali (assenti nella sentenza) - per poi discostarsene e tracciare una soluzione interpretativa teorica del tutto personale]

1. La fattispecie concreta

Uno sfortunato giocatore di basket, nell’arco temporale di circa sei mesi, incorre in tre incidenti gravi (nel corso della disputa di altrettante partite di pallacanestro), che gli causano la lesione del comparto legamentoso della caviglia-piede sia esterno (a seguito del primo episodio) che interno (dopo il secondo contrasto, accaduto a distanza di due mesi) e successivamente (a distanza di circa sei mesi) della intera cartilagine tibio-astralgica. Attivata la polizza di assicurazione contro gli infortuni, contratta in epoca precedente con una primaria compagnia di assicurazioni, l’assicurato ottiene una liquidazione parziale dell’indennizzo (legata, a quanto pare, alle conseguenze invalidanti del primo incidente e non anche dei successivi), tanto che la Società proprietaria del tesserino, nella sua qualità di contraente si rivolge all’autorità giudiziaria per ottenere la liquidazione del danno complessivamente sofferto a seguito dei tre infortuni. Le corti, però, sia in primo che in secondo grado, rigettano la richiesta della società sportiva e accolgono (ritenendole fondate) le argomentazioni addotte a difesa dalla Compagnia assicuratrice, che: a) dopo aver contestato all’infortunato di aver ripreso a giocare prima di essere completamente guarito [Circostanza, questa, ininfluente, giacché nella delimitazione dell’oggetto di assicurazione il capitolato ANIA conviene espressamente che “l’assicurazione vale per … gli infortuni derivanti da imperizia, imprudenza o negligenza anche gravi” dell’assicurato]; b) aveva  eccepito e provato l’esistenza di uno stretto rapporto di conseguenzialità tra le lesioni subite dall’atleta nei tre eventi; c) aveva liquidato  le conseguenze invalidanti del primo episodio e non anche quelle lamentate per i successivi infortuni [ Per prassi consolidata, gli uffici liquidativi dopo aver valutato i postumi di più sinistri (per così dire) in serie, che hanno colpito una stessa persona, considerano l’invalidità conseguente al primo sinistro indennizzabile, poiché danno diretto, e rigettano i successivi, perché conseguenze indirette del primo infortunio].

E’ logico ritenere che l’assicuratore nel caso di specie si sia attenuto alle norme contrattuali, giacché la legge non disciplina espressamente la fattispecie, almeno di primo acchito. Ora, dal momento che si ignora il testo della polizza di assicurazione che disciplinava il rapporto contestato, per procedere alla ricognizione della fattispecie sarà conveniente rifarsi al testo della “Polizza di assicurazione individuale contro gli infortuni” adottato dall’ANIA [ V. DONATI, KOHLER, Codice delle leggi sulle assicurazioni private, Milano, 1987, 1029], che risulta diffusamente seguito nel mercato assicurativo italiano e che presumibilmente ha disciplinato anche  il rapporto controverso.

 2. La disciplina contrattuale

Le clausole del contratto di assicurazione che tornano utili all’esame della fattispecie sono due: la norma che definisce l’infortunio e quella che detta i criteri per la valutazione del danno.

Nel silenzio della legge, che com’è noto non fornisce un’univoca definizione d’infortunio, le Compagnie inseriscono nelle polizze una definizione di questo tipo: “l’infortunio è un evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna che produce lesioni corporali obiettivamente constatabili” [L’infortunio, senza specifico riferimento ai rapporti assicurativi o di diritto, in via generale, indica ogni evento accidentale che abbia un effetto lesivo sulla persona, implicando – in prima approssimazione – due concetti fondamentali: l’accidentalità e la capacità di ledere].

Sotto l’aspetto causale, quindi, l’infortunio è configurato come un evento complesso che si realizza solo alla presenza di una serie di condizioni tra loro concatenate: fortuità [L’evento deve soggiacere alle leggi del caso e non a principi deterministici; sono, quindi, da escludere i comportamenti dolosi e aulosionistici], violenza [Il fattore scatenante, individuabile nel tempo e nello spazio, deve esplicare la sua energia (fisica, meccanica, chimica, elettrica, termica o altro) su un organismo in modo improvviso e repentino, determinando un’alterazione subitanea della sua stabilità (sulla causa violenta, v. Cass., 11 giugno 2009, n. 13599, in Riv. giur. sarda, 2009, 755, con nota di DORE; Cass., 26 maggio 2006, n. 12559,  Foro it., 2006, I, 2732, che equipara a causa violenta l’azione di un virus)] ed esteriorità [Sostiene Cass., 20 giugno 2006, n. 14119 (Foro it.,  Rep. 2006, voce Infortuni sul lavoro, n. 59): “l’azione violenta […] deve operare come causa esterna, che agisca con rapidità e intensità, in un brevissimo arco temporale, o comunque in una minima misura temporale”, e deve provenire da una fonte esterna al corpo dell’infortunato  “non potendo ritenersi indennizzabili … tutte le patologie che trovino concausa nell’affaticamento …” o nella malattia] dell’evento causativo della lesione fisica, dalle quali deve derivare: la morte, l’invalidità permanente o temporanea [Lesioni che vengono tradotte in singole garanzie di polizza, che si affiancano alle c.d. prestazioni a rimborso (es. rimborso spese mediche ambulatoriali, domiciliari o da ricovero)]. Le tre condizioni (la cui prova incombe sull’infortunato) devono coesistere e concorre a produrre una lesione fisica obiettivamente constatabile, cioè un’alterazione in senso peggiorativo della situazione preesistente all’infortunio.

Dalla lettura di altra condizione contrattuale  si evince, però, che tale rapporto eziologico di causa-effetto (tra fattore esterno/violento/fortuito e danno) non deve essere interrotto da altra causa adeguata, pena la perdita del diritto all’indennizzo.[ Sostiene Cass., 29 agosto 2007, n. 18254 (id., Rep. 2008, voce cit., n. 61, per esteso in Riv. infortuni, 2007, II, 35): “in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro trova applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p., secondo la quale il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, principio secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera mediata e remota, alla produzione dell’evento; salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 c.p., in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da degradare le cause antecedenti a semplici occasioni ”]. La clausola più comunemente usata stabilisce, infatti, che  “la società indennizza le conseguenze dirette ed esclusive dell’infortunio, indipendenti da eventuali minorazioni fisiche e stati patologici preesistenti” [ Oltre alla clausola generica indicata nel testo non è raro trovare in contratti più risalenti altra condizione più dettagliata, che non lascia spazio a dubbi interpretativi: “ la compagnia corrisponde l’indennizzo per le conseguenze dirette ed esclusive dell’infortunio che siano indipendenti da condizioni fisiche o patologiche preesistenti o sopravvenute; pertanto l’influenza che esse possono avere esercitato su queste condizioni, come pure il pregiudizio che esse possono portare all’esito delle lesioni prodotte dall’infortunio, sono conseguenza indirette e quindi non indennizzabili. Parimenti nel caso di preesistente mutilazione o difetto fisico, l’indennità per invalidità permanente è liquidata per le sole conseguenze dirette cagionate dall’infortunio come se esso avesse colpito una persona fisicamente integra, senza riguardo al maggior pregiudizio derivante dalle condizioni preesistenti"].

In altri termini, le compagnie tendono a riconoscere efficacia interruttiva: a mutilazioni o difetti fisici preesistenti [Ad es. un monocolo che, a seguito d’infortunio, subisce la perdita dell’unico occhio rimastogli, non otterrà un indennizzo pari al 100%  (percentuale di invalidità riconosciuta  per la cecità completa) della somma assicurata alla garanzia “invalidità permanente” . Tutt’al più otterrà un indennizzo nella misura del 25% (invalidità dovuta per la perdita di un occhio per un soggetto normovedente)], a  malattie pregresse, croniche o recidivanti [Ad es.: se una persona affetta da osteoporosi, a seguito di una caduta non particolarmente violenta, subisse una frattura di un arto e chiedesse l’indennizzo alla compagnia di assicurazione, potrebbe trovarsi dinanzi a un rifiuto, basato sulla supposizione che la lesione traumatica possa essere stata determinata dalla fragilità ossea più che dalla violenza della caduta stessa],  a invalidità accertate a seguito di precedenti infortuni [ La giurisprudenza, in tema di infortunio sul lavoro tende a mitigare la regola del concorso. In particolare v.  Cass., 10 gennaio 2005, n. 279, Foro it., Rep. 2005, voce cit., n. 68, stabilisce che “ In tema di infortuni sul lavoro … la predisposizione morbosa non esclude il nesso causale tra lo sforzo compiuto e l’evento infortunistico, avuto anche riguardo al principio di equivalenza causale di cui all’art. 41 c.p., che trova applicazione nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali; con la conseguenza che un ruolo di concausa va attribuito anche a una minima accelerazione di una pregressa malattia, salvo che questa sia sopravvenuta in modo del tutto indipendente dallo sforzo compiuto o dallo stress subito nell’esecuzione della prestazione lavorativa.” V. anche,  Cass., 8 ottobre 2007, n. 21021, id.,  Rep. 2007, voce cit., n. 70; Cass., 24 luglio 2004, n. 13928. id., , Rep. 2004, voce  cit., n. 98].

3.a Il giudizio di causalità in teoria

Sul piano teorico il giudizio di causalità va distinto in due momenti distinti: ricerca del nesso di fatto, prima, e di quello giuridico, dopo.

Il primo, è volto ad accertare la sussistenza del rapporto che lega gli elementi oggettivi della fattispecie – ovvero, il fatto (evento fortuito, violento ed esterno) alla lesione fisica obiettivamente constatabile –, e si ispira al giudizio di causalità previsto in materia di responsabilità extracontrattuale. [In questo caso, però, la causalità di fatto, più che servire per collegare un evento di danno a un responsabile, serve a provare la sussistenza del diritto al risarcimento/indennizzo assicurativo].

In particolare, la casualità di fatto si compone di un elemento positivo e uno negativo [In linea con  gli  insegnamenti della dottrina penalistica (cui è inevitabile ispirarsi), v. GAROFOLI, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 2003, 280; CAPECCHI, Nesso di causalità, Padova, 2002, 1; MARAZZINI, in Studi di diritto penale a cura di CARINGELLA, GAROFOLI, vol. I, Milano, 2002, 393; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale (parte generale), Bologna, 1995, 194; DALIA, Le cause sopravvenute interruttive del nesso causale, Napoli, 1976,1; STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975, 1; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Milano, 1975, 198]. Il primo comporta la prova che un fatto sia stato fortuito, violento ed esterno e sia stato condizione dell’infortunio, ovvero un antecedente senza del quale la lesione non si sarebbe verificata [Non è la mera successione temporale a determinare la sussistenza del nesso causale. La ragione che giustifica il collegamento tra un fattore che precede ed uno che segue, deve essere cercato nel giudizio di causalità adeguata, anziché in quella della c.d. conditio sine qua non (sul punto v., LAGHEZZA, in Insidia e trabocchetto, un addio senza rimpianti, in Danno e resp., 206, 1236)]. Il negativo è volto ad accertare che la lesione non sia dovuta al concorso di altri fattori, quali: a) alterazione delle condizioni fisiche o patologiche preesistenti o sopravvenute; b) mutilazioni o difetti fisici preesistenti; c) malattie pregresse, croniche o recidivanti.

Il punto nodale del giudizio sulla causalità di fatto riguarda, quindi, la valutazione dell’elemento negativo, ossia stabilire se vi sia una sequenza causale costante e regolare riconducibile ad un unico episodio, o se invece essa sia stata interrotta da altri fattori eccezionali di per sé capaci di produrre la lesione o di influire sulla sua entità. Tenendo conto che il fatto esclusivo e assorbente non necessariamente deve essere sopravvenuto, come dispone il testo dell’art. 41, 2° comma, c.p.; può ben essere contestuale o anteriore. [ In tal senso, in giurisprudenza, v. Cass. 24 febbraio 1987, n. 1937, Foro it. Rep. 1987, voce Responsabilità civile, n. 64, per esteso in  Arch. Circolaz., 1987,471; in dottrina, ANTOLISEI, cit., 197. In senso contrario,  Trib. Milano, 13 luglio 1989, Foro it ., Rep., 1991, voce cit., n. 48, per esteso in Giur. it., 1989, I, 2, 54, con nota di  RUBINI TARIZZO.].

Dopo aver accertato la sussistenza del diritto al risarcimento, ovvero che uno specifico fatto, che abbia le caratteristiche indicate dalle condizioni contrattuali, sia stata la causa principale della lesione, il liquidatore deve affrontare il secondo giudizio di causalità (quello ‘giuridico’) volto a determinare la misura dell’indennizzo, ovvero dei postumi invalidanti [In questo caso i criteri guida sono da ricercare nelle norme del c. c. dettate in materia  di inadempimento delle obbligazioni]. Anche questo giudizio va scomposto in due momenti: il primo consiste nel determinare il pregiudizio, identificando con precisione tutte le conseguenze derivanti dall’evento di danno, cioè le lesioni subite oggettivamente dall’infortunato, le cure sopportate e i postumi invalidanti sia permanenti che temporanei; il secondo comporta la traduzione in termini monetari dell’area del danno identificato in precedenza [Sul punto DE CUPIS, Il danno, in Teoria generale della responsabilità civile, Milano, 1979, 213,  esemplifica il giudizio di causalità giuridica ricorrendo alla metafora dell’agrimensore, che per calcolare l’area di un campo prima deve posare i picchetti, poi misurare la distanza che intercorre tra di loro e infine calcolare l’area. V. anche SALVI, voce Risarcimento del danno, in Enc. Dir., vol. XL, Milano, 1989, 1084].  Quindi, la prima fase accerta la sussistenza del danno patrimoniale (an debeatur), la seconda converte in valore la perdita economica subita (quantum respondeatur).

In altre parole, attraverso il giudizio di causalità giuridica si trasforma una mera perdita economica in un evento rilevante per il diritto: tra il fatto, inteso come evento di danno, ed il danno, inteso come perdita patrimoniale risarcibile, deve sussistere una relazione di causa ad effetto in forza della quale il secondo appaia riconducibile al primo [Sul punto v. FRANZONI, Dei fatti illeciti, in Commentario al c. c., diretto da  Scialoja-Branca, Bologna, 1993, 762]. La prova dell’intero processo incombe sull’infortunato.

La regola base per compiere utilmente questo giudizio è dettata dall’art. 1223 c.c. che indica, tra le conseguenze rilevanti ai fini della determinazione del danno, quelle immediate e dirette [ Regola elaborata da POTHIER, Trattato delle obbligazioni, Milano, 1809, 148, che per spiegare la differenza tra conseguenze dirette e indirette di un inadempimento ricorreva ad un esempio abbastanza efficace. In particolare, nel caso di acquisto di una partita di bovini infettati da una malattia non dichiarata, ipotizzava 3 possibili danni: i) la morte per contagio di altri animali di proprietà del compratore; ii) la perdita del raccolto per impossibilità di coltivare il fondo a causa della perdita di bovini; iii) il generale dissesto economico del compratore e il suo fallimento a causa della perdita del raccolto. I danni del primo tipo li riteneva sempre risarcibili, perché conseguenza diretta dell’inadempimento; quelli del secondo, indennizzabili a condizione che fossero inevitabili per il compratore; quelli del terzo, sempre irrisarcibili giacché  conseguenza indiretta e remota dell’evento].

Questa regola, richiamata dalle condizioni generali delle polizze di assicurazione - “la società indennizza le conseguenze dirette ed esclusive dell’infortunio, indipendenti da eventuali minorazioni fisiche e stati patologici preesistenti” - pur se criticabile per la sua genericità, è abbastanza elastica da prestarsi (almeno in teoria) ad essere adattata di volta in volta al caso concreto [V. Alpa e Bessone, I fatti illeciti, in Trattato diri priv., diretto da RESCIGNO, vol. XIV, Torino, 1982,94], poiché, come sostiene autorevole dottrina, non esistono danni che a priori e per loro natura possono dirsi diretti o indiretti, mediati o immediati: il danno assume una di tali qualità al termine del complesso esame – a posteriori – del rapporto che lo lega all’evento che lo ha generato.[V. FRANZONI, Dei aftti illeciti, cit. 767, nota 16]

Troppo spesso però, gli uffici di liquidazione, abusando della genericità della clausola, tendono a considerare a priori irrisarcibili le lesioni causate dagli infortuni successivi. Ovvero, dopo aver stimato che questi ultimi hanno colpito una parte già menomata o interessata da un precedente sinistro, ne escludono l’indennizzabilità, perché considerano le ulteriori alterazioni conseguenze indirette del primo evento.

In estrema sintesi, nella prassi i due giudizi di causalità vengono fusi in un unico processo logico che li sovrappone in modo tale da farne perdere la identità e la consequenzialità.

 Conclusione

In presenza di più infortuni tra loro collegati e consequenziali vanno svolti, quindi, due giudizi [Tralasciando volutamente, e per economia del lavoro, il caso delle cause preesistenti (quali precedenti alterazioni o stati morbosi)].

Il primo, per selezionare tra cause diverse ed eterogenee quella che oltre ad essere fortuita, violenta ed esterna, assurga al rango di causa adeguata  (quale potrebbe essere il primo infortunio, nel caso di specie), così da relegare gli altri episodi (una volta accertato che non hanno avuto un’efficacia causale autonoma) a livello di concause.

Il secondo, per valutare il contributo degli infortuni successivi sull’entità del danno risarcibile, ovvero per misurare gli effetti diretti che i successivi infortuni hanno avuto sul grado di invalidità (peggiorandolo), già accertato a seguito del primo infortunio. [Sulla misurazione dell’indennizzo in caso di infortuni successivi sul lavoro, v. Cass., 7 luglio 1998, n. 6604. Foro it,, Rep. 1998, voce cit., n. 188; Cass., 1 luglio  1999, n. 6746, id., Rep. 1999, voce cit., n. 183; Cass., 1 marzo 1999, n. 1725, ibid., , n. 176;  Cass., 17 dicembre 1986, n. 7655, id., Rep. 1986, voce cit., n. 57].

Il primo sinistro di una serie si può ritenere la causa principale della lesione, ciò non esclude, però, le conseguenze invalidanti degli infortuni successivi. Per meglio dire, se gli infortuni successivi hanno peggiorato lo stato di invalidità permanente o temporanea dell’infortunato, essi vanno liquidati in quanto tali [ Determinate come segue: I) per le sole conseguenze dirette cagionate dall’infortunio, come se esso avesse colpito una persona fisicamente integra, senza riguardo al maggior pregiudizio derivante dalla condizione preesistente; II) per aver  peggiorato il grado di invalidità accertato a seguito del precedente infortunio. Senza dimenticare che la ratio della disposizione contrattuale, più volte richiamata. è quella di escludere di indennizzare due volte la stessa invalidità].

Mi spiego meglio, se l’infortunio colpisce, come nel caso di specie, la caviglia causando una perdita di funzionalità anatomica del 2 %, e poi la stessa caviglia viene colpita da un secondo infortunio, con un peggioramento del grado di invalidità di un ulteriore 2%; l’infortunato non potrà richiedere un indennizzo pari al 2% - della somma assicurata per ‘invalidità permanente’ - dopo il primo sinistro e del 4% dopo il secondo [Come se il primo infortunio non fosse mai esistito, né mai liquidato] (per un totale del 6%). Tutt’al più potrà pretendere, laddove provi la natura diretta del secondo danno, una percentuale complessiva del 4% (2% a seguito del primo sinistro, sommata ad un ulteriore 2%, a seguito del peggioramento dovuto al secondo sinistro). [Le percentuali invalidanti riferite all’esempio sono prese dalla tabella allegata al D.M. del 3 luglio 2003, pubblicato sulla G.U. dell’11/09/2003 n. 211].

Premessa

Nella decisione in esame la  S.C. evita di addentrarsi nelle problematiche di merito legate al rapporto di causalità che lega tra loro una serie di infortuni, subiti nel corso di una stessa stagione agonistica da un atleta, e alla misurazione delle conseguenze invalidanti, e si riporta alle conclusioni cui erano giunti i giudici di merito sulla scorta della relazione medico legale del consulente tecnico. Invero, la Corte non evidenzia vizi logici o giuridici interni alle argomentazioni addotte a sostegno della decisione dei giudici di merito, conferma la decisione di secondo grado e glissa un argomento ove regna sovrana la confusione della prassi assicurativa degli uffici di liquidazione.

E’ consuetudine, infatti, che le Compagnie, in casi analoghi a quello sottoposto al vaglio delle corti, rifiutino di corrispondere l’indennizzo degli infortuni successivi al primo, ogni qualvolta più incidenti – legati da una presunta conseguenzialità - colpiscano uno stesso soggetto assicurato.

Per meglio intendere i termini della questione e diradare le nebbie di un’interpretazione dettata dalla prassi e slegata dal dato normativo (almeno in teoria), sarà il caso di affrontare nell’ordine tre questioni per giungere, poi, ad una conclusione: 1) breve disamina della fattispecie concreta analizzata dalla S.C.; 2) sommaria ricognizione della disciplina contrattuale comunemente adottata dalle compagnie; 3) approccio teorico al problema della causalità in materia di assicurazione infortuni. [Mette conto precisare che l’esposizione del fatto oggetto della controversia si baserà sulla lettura della sentenza (quindi sarà lacunosa e sintetica) mentre la ricognizione della polizza avrà a oggetto il contratto tipo ANIA e non il negozio sottoscritto dalle parti in causa (di cui se ne ignora il contenuto). Pertanto le considerazioni che seguiranno nel testo avranno carattere generale: i riferimenti al caso di specie saranno a mero titolo esemplificativo. In buona sostanza il presente lavoro trae spunto dalla decisione in epigrafe - che si caratterizza per i contenuti processuali (volutamente trascurati) più che sostanziali (assenti nella sentenza) - per poi discostarsene e tracciare una soluzione interpretativa teorica del tutto personale]

1. La fattispecie concreta

Uno sfortunato giocatore di basket, nell’arco temporale di circa sei mesi, incorre in tre incidenti gravi (nel corso della disputa di altrettante partite di pallacanestro), che gli causano la lesione del comparto legamentoso della caviglia-piede sia esterno (a seguito del primo episodio) che interno (dopo il secondo contrasto, accaduto a distanza di due mesi) e successivamente (a distanza di circa sei mesi) della intera cartilagine tibio-astralgica. Attivata la polizza di assicurazione contro gli infortuni, contratta in epoca precedente con una primaria compagnia di assicurazioni, l’assicurato ottiene una liquidazione parziale dell’indennizzo (legata, a quanto pare, alle conseguenze invalidanti del primo incidente e non anche dei successivi), tanto che la Società proprietaria del tesserino, nella sua qualità di contraente si rivolge all’autorità giudiziaria per ottenere la liquidazione del danno complessivamente sofferto a seguito dei tre infortuni. Le corti, però, sia in primo che in secondo grado, rigettano la richiesta della società sportiva e accolgono (ritenendole fondate) le argomentazioni addotte a difesa dalla Compagnia assicuratrice, che: a) dopo aver contestato all’infortunato di aver ripreso a giocare prima di essere completamente guarito [Circostanza, questa, ininfluente, giacché nella delimitazione dell’oggetto di assicurazione il capitolato ANIA conviene espressamente che “l’assicurazione vale per … gli infortuni derivanti da imperizia, imprudenza o negligenza anche gravi” dell’assicurato]; b) aveva  eccepito e provato l’esistenza di uno stretto rapporto di conseguenzialità tra le lesioni subite dall’atleta nei tre eventi; c) aveva liquidato  le conseguenze invalidanti del primo episodio e non anche quelle lamentate per i successivi infortuni [ Per prassi consolidata, gli uffici liquidativi dopo aver valutato i postumi di più sinistri (per così dire) in serie, che hanno colpito una stessa persona, considerano l’invalidità conseguente al primo sinistro indennizzabile, poiché danno diretto, e rigettano i successivi, perché conseguenze indirette del primo infortunio].

E’ logico ritenere che l’assicuratore nel caso di specie si sia attenuto alle norme contrattuali, giacché la legge non disciplina espressamente la fattispecie, almeno di primo acchito. Ora, dal momento che si ignora il testo della polizza di assicurazione che disciplinava il rapporto contestato, per procedere alla ricognizione della fattispecie sarà conveniente rifarsi al testo della “Polizza di assicurazione individuale contro gli infortuni” adottato dall’ANIA [ V. DONATI, KOHLER, Codice delle leggi sulle assicurazioni private, Milano, 1987, 1029], che risulta diffusamente seguito nel mercato assicurativo italiano e che presumibilmente ha disciplinato anche  il rapporto controverso.

 2. La disciplina contrattuale

Le clausole del contratto di assicurazione che tornano utili all’esame della fattispecie sono due: la norma che definisce l’infortunio e quella che detta i criteri per la valutazione del danno.

Nel silenzio della legge, che com’è noto non fornisce un’univoca definizione d’infortunio, le Compagnie inseriscono nelle polizze una definizione di questo tipo: “l’infortunio è un evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna che produce lesioni corporali obiettivamente constatabili” [L’infortunio, senza specifico riferimento ai rapporti assicurativi o di diritto, in via generale, indica ogni evento accidentale che abbia un effetto lesivo sulla persona, implicando – in prima approssimazione – due concetti fondamentali: l’accidentalità e la capacità di ledere].

Sotto l’aspetto causale, quindi, l’infortunio è configurato come un evento complesso che si realizza solo alla presenza di una serie di condizioni tra loro concatenate: fortuità [L’evento deve soggiacere alle leggi del caso e non a principi deterministici; sono, quindi, da escludere i comportamenti dolosi e aulosionistici], violenza [Il fattore scatenante, individuabile nel tempo e nello spazio, deve esplicare la sua energia (fisica, meccanica, chimica, elettrica, termica o altro) su un organismo in modo improvviso e repentino, determinando un’alterazione subitanea della sua stabilità (sulla causa violenta, v. Cass., 11 giugno 2009, n. 13599, in Riv. giur. sarda, 2009, 755, con nota di DORE; Cass., 26 maggio 2006, n. 12559,  Foro it., 2006, I, 2732, che equipara a causa violenta l’azione di un virus)] ed esteriorità [Sostiene Cass., 20 giugno 2006, n. 14119 (Foro it.,  Rep. 2006, voce Infortuni sul lavoro, n. 59): “l’azione violenta […] deve operare come causa esterna, che agisca con rapidità e intensità, in un brevissimo arco temporale, o comunque in una minima misura temporale”, e deve provenire da una fonte esterna al corpo dell’infortunato  “non potendo ritenersi indennizzabili … tutte le patologie che trovino concausa nell’affaticamento …” o nella malattia] dell’evento causativo della lesione fisica, dalle quali deve derivare: la morte, l’invalidità permanente o temporanea [Lesioni che vengono tradotte in singole garanzie di polizza, che si affiancano alle c.d. prestazioni a rimborso (es. rimborso spese mediche ambulatoriali, domiciliari o da ricovero)]. Le tre condizioni (la cui prova incombe sull’infortunato) devono coesistere e concorre a produrre una lesione fisica obiettivamente constatabile, cioè un’alterazione in senso peggiorativo della situazione preesistente all’infortunio.

Dalla lettura di altra condizione contrattuale  si evince, però, che tale rapporto eziologico di causa-effetto (tra fattore esterno/violento/fortuito e danno) non deve essere interrotto da altra causa adeguata, pena la perdita del diritto all’indennizzo.[ Sostiene Cass., 29 agosto 2007, n. 18254 (id., Rep. 2008, voce cit., n. 61, per esteso in Riv. infortuni, 2007, II, 35): “in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro trova applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p., secondo la quale il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, principio secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera mediata e remota, alla produzione dell’evento; salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 c.p., in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da degradare le cause antecedenti a semplici occasioni ”]. La clausola più comunemente usata stabilisce, infatti, che  “la società indennizza le conseguenze dirette ed esclusive dell’infortunio, indipendenti da eventuali minorazioni fisiche e stati patologici preesistenti” [ Oltre alla clausola generica indicata nel testo non è raro trovare in contratti più risalenti altra condizione più dettagliata, che non lascia spazio a dubbi interpretativi: “ la compagnia corrisponde l’indennizzo per le conseguenze dirette ed esclusive dell’infortunio che siano indipendenti da condizioni fisiche o patologiche preesistenti o sopravvenute; pertanto l’influenza che esse possono avere esercitato su queste condizioni, come pure il pregiudizio che esse possono portare all’esito delle lesioni prodotte dall’infortunio, sono conseguenza indirette e quindi non indennizzabili. Parimenti nel caso di preesistente mutilazione o difetto fisico, l’indennità per invalidità permanente è liquidata per le sole conseguenze dirette cagionate dall’infortunio come se esso avesse colpito una persona fisicamente integra, senza riguardo al maggior pregiudizio derivante dalle condizioni preesistenti"].

In altri termini, le compagnie tendono a riconoscere efficacia interruttiva: a mutilazioni o difetti fisici preesistenti [Ad es. un monocolo che, a seguito d’infortunio, subisce la perdita dell’unico occhio rimastogli, non otterrà un indennizzo pari al 100%  (percentuale di invalidità riconosciuta  per la cecità completa) della somma assicurata alla garanzia “invalidità permanente” . Tutt’al più otterrà un indennizzo nella misura del 25% (invalidità dovuta per la perdita di un occhio per un soggetto normovedente)], a  malattie pregresse, croniche o recidivanti [Ad es.: se una persona affetta da osteoporosi, a seguito di una caduta non particolarmente violenta, subisse una frattura di un arto e chiedesse l’indennizzo alla compagnia di assicurazione, potrebbe trovarsi dinanzi a un rifiuto, basato sulla supposizione che la lesione traumatica possa essere stata determinata dalla fragilità ossea più che dalla violenza della caduta stessa],  a invalidità accertate a seguito di precedenti infortuni [ La giurisprudenza, in tema di infortunio sul lavoro tende a mitigare la regola del concorso. In particolare v.  Cass., 10 gennaio 2005, n. 279, Foro it., Rep. 2005, voce cit., n. 68, stabilisce che “ In tema di infortuni sul lavoro … la predisposizione morbosa non esclude il nesso causale tra lo sforzo compiuto e l’evento infortunistico, avuto anche riguardo al principio di equivalenza causale di cui all’art. 41 c.p., che trova applicazione nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali; con la conseguenza che un ruolo di concausa va attribuito anche a una minima accelerazione di una pregressa malattia, salvo che questa sia sopravvenuta in modo del tutto indipendente dallo sforzo compiuto o dallo stress subito nell’esecuzione della prestazione lavorativa.” V. anche,  Cass., 8 ottobre 2007, n. 21021, id.,  Rep. 2007, voce cit., n. 70; Cass., 24 luglio 2004, n. 13928. id., , Rep. 2004, voce  cit., n. 98].

3.a Il giudizio di causalità in teoria

Sul piano teorico il giudizio di causalità va distinto in due momenti distinti: ricerca del nesso di fatto, prima, e di quello giuridico, dopo.

Il primo, è volto ad accertare la sussistenza del rapporto che lega gli elementi oggettivi della fattispecie – ovvero, il fatto (evento fortuito, violento ed esterno) alla lesione fisica obiettivamente constatabile –, e si ispira al giudizio di causalità previsto in materia di responsabilità extracontrattuale. [In questo caso, però, la causalità di fatto, più che servire per collegare un evento di danno a un responsabile, serve a provare la sussistenza del diritto al risarcimento/indennizzo assicurativo].

In particolare, la casualità di fatto si compone di un elemento positivo e uno negativo [In linea con  gli  insegnamenti della dottrina penalistica (cui è inevitabile ispirarsi), v. GAROFOLI, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 2003, 280; CAPECCHI, Nesso di causalità, Padova, 2002, 1; MARAZZINI, in Studi di diritto penale a cura di CARINGELLA, GAROFOLI, vol. I, Milano, 2002, 393; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale (parte generale), Bologna, 1995, 194; DALIA, Le cause sopravvenute interruttive del nesso causale, Napoli, 1976,1; STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975, 1; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Milano, 1975, 198]. Il primo comporta la prova che un fatto sia stato fortuito, violento ed esterno e sia stato condizione dell’infortunio, ovvero un antecedente senza del quale la lesione non si sarebbe verificata [Non è la mera successione temporale a determinare la sussistenza del nesso causale. La ragione che giustifica il collegamento tra un fattore che precede ed uno che segue, deve essere cercato nel giudizio di causalità adeguata, anziché in quella della c.d. conditio sine qua non (sul punto v., LAGHEZZA, in Insidia e trabocchetto, un addio senza rimpianti, in Danno e resp., 206, 1236)]. Il negativo è volto ad accertare che la lesione non sia dovuta al concorso di altri fattori, quali: a) alterazione delle condizioni fisiche o patologiche preesistenti o sopravvenute; b) mutilazioni o difetti fisici preesistenti; c) malattie pregresse, croniche o recidivanti.

Il punto nodale del giudizio sulla causalità di fatto riguarda, quindi, la valutazione dell’elemento negativo, ossia stabilire se vi sia una sequenza causale costante e regolare riconducibile ad un unico episodio, o se invece essa sia stata interrotta da altri fattori eccezionali di per sé capaci di produrre la lesione o di influire sulla sua entità. Tenendo conto che il fatto esclusivo e assorbente non necessariamente deve essere sopravvenuto, come dispone il testo dell’art. 41, 2° comma, c.p.; può ben essere contestuale o anteriore. [ In tal senso, in giurisprudenza, v. Cass. 24 febbraio 1987, n. 1937, Foro it. Rep. 1987, voce Responsabilità civile, n. 64, per esteso in  Arch. Circolaz., 1987,471; in dottrina, ANTOLISEI, cit., 197. In senso contrario,  Trib. Milano, 13 luglio 1989, Foro it ., Rep., 1991, voce cit., n. 48, per esteso in Giur. it., 1989, I, 2, 54, con nota di  RUBINI TARIZZO.].

Dopo aver accertato la sussistenza del diritto al risarcimento, ovvero che uno specifico fatto, che abbia le caratteristiche indicate dalle condizioni contrattuali, sia stata la causa principale della lesione, il liquidatore deve affrontare il secondo giudizio di causalità (quello ‘giuridico’) volto a determinare la misura dell’indennizzo, ovvero dei postumi invalidanti [In questo caso i criteri guida sono da ricercare nelle norme del c. c. dettate in materia  di inadempimento delle obbligazioni]. Anche questo giudizio va scomposto in due momenti: il primo consiste nel determinare il pregiudizio, identificando con precisione tutte le conseguenze derivanti dall’evento di danno, cioè le lesioni subite oggettivamente dall’infortunato, le cure sopportate e i postumi invalidanti sia permanenti che temporanei; il secondo comporta la traduzione in termini monetari dell’area del danno identificato in precedenza [Sul punto DE CUPIS, Il danno, in Teoria generale della responsabilità civile, Milano, 1979, 213,  esemplifica il giudizio di causalità giuridica ricorrendo alla metafora dell’agrimensore, che per calcolare l’area di un campo prima deve posare i picchetti, poi misurare la distanza che intercorre tra di loro e infine calcolare l’area. V. anche SALVI, voce Risarcimento del danno, in Enc. Dir., vol. XL, Milano, 1989, 1084].  Quindi, la prima fase accerta la sussistenza del danno patrimoniale (an debeatur), la seconda converte in valore la perdita economica subita (quantum respondeatur).

In altre parole, attraverso il giudizio di causalità giuridica si trasforma una mera perdita economica in un evento rilevante per il diritto: tra il fatto, inteso come evento di danno, ed il danno, inteso come perdita patrimoniale risarcibile, deve sussistere una relazione di causa ad effetto in forza della quale il secondo appaia riconducibile al primo [Sul punto v. FRANZONI, Dei fatti illeciti, in Commentario al c. c., diretto da  Scialoja-Branca, Bologna, 1993, 762]. La prova dell’intero processo incombe sull’infortunato.

La regola base per compiere utilmente questo giudizio è dettata dall’art. 1223 c.c. che indica, tra le conseguenze rilevanti ai fini della determinazione del danno, quelle immediate e dirette [ Regola elaborata da POTHIER, Trattato delle obbligazioni, Milano, 1809, 148, che per spiegare la differenza tra conseguenze dirette e indirette di un inadempimento ricorreva ad un esempio abbastanza efficace. In particolare, nel caso di acquisto di una partita di bovini infettati da una malattia non dichiarata, ipotizzava 3 possibili danni: i) la morte per contagio di altri animali di proprietà del compratore; ii) la perdita del raccolto per impossibilità di coltivare il fondo a causa della perdita di bovini; iii) il generale dissesto economico del compratore e il suo fallimento a causa della perdita del raccolto. I danni del primo tipo li riteneva sempre risarcibili, perché conseguenza diretta dell’inadempimento; quelli del secondo, indennizzabili a condizione che fossero inevitabili per il compratore; quelli del terzo, sempre irrisarcibili giacché  conseguenza indiretta e remota dell’evento].

Questa regola, richiamata dalle condizioni generali delle polizze di assicurazione - “la società indennizza le conseguenze dirette ed esclusive dell’infortunio, indipendenti da eventuali minorazioni fisiche e stati patologici preesistenti” - pur se criticabile per la sua genericità, è abbastanza elastica da prestarsi (almeno in teoria) ad essere adattata di volta in volta al caso concreto [V. Alpa e Bessone, I fatti illeciti, in Trattato diri priv., diretto da RESCIGNO, vol. XIV, Torino, 1982,94], poiché, come sostiene autorevole dottrina, non esistono danni che a priori e per loro natura possono dirsi diretti o indiretti, mediati o immediati: il danno assume una di tali qualità al termine del complesso esame – a posteriori – del rapporto che lo lega all’evento che lo ha generato.[V. FRANZONI, Dei aftti illeciti, cit. 767, nota 16]

Troppo spesso però, gli uffici di liquidazione, abusando della genericità della clausola, tendono a considerare a priori irrisarcibili le lesioni causate dagli infortuni successivi. Ovvero, dopo aver stimato che questi ultimi hanno colpito una parte già menomata o interessata da un precedente sinistro, ne escludono l’indennizzabilità, perché considerano le ulteriori alterazioni conseguenze indirette del primo evento.

In estrema sintesi, nella prassi i due giudizi di causalità vengono fusi in un unico processo logico che li sovrappone in modo tale da farne perdere la identità e la consequenzialità.

 Conclusione

In presenza di più infortuni tra loro collegati e consequenziali vanno svolti, quindi, due giudizi [Tralasciando volutamente, e per economia del lavoro, il caso delle cause preesistenti (quali precedenti alterazioni o stati morbosi)].

Il primo, per selezionare tra cause diverse ed eterogenee quella che oltre ad essere fortuita, violenta ed esterna, assurga al rango di causa adeguata  (quale potrebbe essere il primo infortunio, nel caso di specie), così da relegare gli altri episodi (una volta accertato che non hanno avuto un’efficacia causale autonoma) a livello di concause.

Il secondo, per valutare il contributo degli infortuni successivi sull’entità del danno risarcibile, ovvero per misurare gli effetti diretti che i successivi infortuni hanno avuto sul grado di invalidità (peggiorandolo), già accertato a seguito del primo infortunio. [Sulla misurazione dell’indennizzo in caso di infortuni successivi sul lavoro, v. Cass., 7 luglio 1998, n. 6604. Foro it,, Rep. 1998, voce cit., n. 188; Cass., 1 luglio  1999, n. 6746, id., Rep. 1999, voce cit., n. 183; Cass., 1 marzo 1999, n. 1725, ibid., , n. 176;  Cass., 17 dicembre 1986, n. 7655, id., Rep. 1986, voce cit., n. 57].

Il primo sinistro di una serie si può ritenere la causa principale della lesione, ciò non esclude, però, le conseguenze invalidanti degli infortuni successivi. Per meglio dire, se gli infortuni successivi hanno peggiorato lo stato di invalidità permanente o temporanea dell’infortunato, essi vanno liquidati in quanto tali [ Determinate come segue: I) per le sole conseguenze dirette cagionate dall’infortunio, come se esso avesse colpito una persona fisicamente integra, senza riguardo al maggior pregiudizio derivante dalla condizione preesistente; II) per aver  peggiorato il grado di invalidità accertato a seguito del precedente infortunio. Senza dimenticare che la ratio della disposizione contrattuale, più volte richiamata. è quella di escludere di indennizzare due volte la stessa invalidità].

Mi spiego meglio, se l’infortunio colpisce, come nel caso di specie, la caviglia causando una perdita di funzionalità anatomica del 2 %, e poi la stessa caviglia viene colpita da un secondo infortunio, con un peggioramento del grado di invalidità di un ulteriore 2%; l’infortunato non potrà richiedere un indennizzo pari al 2% - della somma assicurata per ‘invalidità permanente’ - dopo il primo sinistro e del 4% dopo il secondo [Come se il primo infortunio non fosse mai esistito, né mai liquidato] (per un totale del 6%). Tutt’al più potrà pretendere, laddove provi la natura diretta del secondo danno, una percentuale complessiva del 4% (2% a seguito del primo sinistro, sommata ad un ulteriore 2%, a seguito del peggioramento dovuto al secondo sinistro). [Le percentuali invalidanti riferite all’esempio sono prese dalla tabella allegata al D.M. del 3 luglio 2003, pubblicato sulla G.U. dell’11/09/2003 n. 211].