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Il trattamento sanitario lecito di fine vita: teoria e prassi nell’esercizio di «diritti infelici»

Lawful end-of-life health treatment: theory and practice in the exercise of "unhappy rights"
Siamo (noi) la più grande tempesta
Ph. Paolo Panzacchi / Siamo (noi) la più grande tempesta

Abstract

Il lavoro propone una riflessione sul contributo che la dottrina e la deontologia ermeneutica hanno dato al «pieno» esercizio di “diritti infelici”. Si sofferma brevemente, infine, sulle prospettive de lege ferenda.

The work proposes a reflection on the contribution that hermeneutic doctrine and deontology have made to the «full» exercise of "unhappy rights". It dwells briefly, finally, on the perspectives de lege ferenda.

 

Sommario

1. Una premessa. La laicità costituzionale nel biodiritto penale

2. Eutanasia e trattamento sanitario lecito di fine vita: il problema definitorio

3. Il trattamento sanitario lecito di fine vita: l’opzione dottrinale

3.1. L’opzione di diritto giurisprudenziale penale tra nomofilachia dei casi e nomofilachia delle norme

3.2. Il caso Welby

3.3. Il caso Englaro

3.4. Il caso Antoniani-Cappato tra giudizio di legittimità e giudizio di merito. Il diritto penale provvisorio

4. Il «pieno» esercizio di «diritti infelici» nelle prospettive de lege ferenda

 

Summary

1. Introduction. Constitutional secularity in criminal biolaw

2. Euthanasia and lawful end-of-life medical treatment: the defining problem

3. Lawful end-of-life medical treatment: the doctrinal option

3.1. The option of criminal jurisprudential law between nomophilachy of cases and nomophilachy of norms

3.2. The Welby case

3.3. The Englaro case

3.4. The Antoniani-Cappato case between judgement of legitimacy and judgement of merit. Provisional criminal law

4. The «full» exercise of «unhappy rights» in the perspectives de lege ferenda

 

1. Una premessa. La laicità costituzionale nel biodiritto penale

Il continuo progresso di una medicina capace di condizionare il protrarsi della vita, quantomeno in senso biologico, e ben oltre le fisiologiche capacità umane, ha contribuito, entro una sempre più ampia schiera di consociati, a diffondere un nuovo modo di intendere il valore della stessa esistenza, al punto da rendere sempre più forte il dibattito intorno a scelte che, per quanto protagoniste della discussione politica e giuridica, balzano prepotentemente all’attenzione del giurista proprio quando la collettività viene sollecitata da fatti che coinvolgono emotivamente e, soprattutto, dividono.

A dividere, infatti, è prima di tutto il concetto stesso di vita, con riferimento alla sua titolarità e al valore che ad essa va assegnato.

Ed è per questo che, da un lato, riscontriamo la c.d. dottrina della sacralità, per la quale la vita umana è un valore in sé, intangibile, da proteggere in quanto tale, di fonte religiosa particolarmente giudaico-cristiano e secolarizzata dal pensiero occidentale al punto da farsi principio fondamentale dei sistemi giuridici moderni[1], mentre, dall’altra, si afferma la concezione della qualità della vita umana, secondo cui il valore dell’esistenza va parametrato, appunto, alla qualità di essa.

Il valore della vita, in tale ultimo caso, non verrebbe assunto come assoluto, ma relativo, in quanto è il singolo a dover «giudicare» il valore della propria esistenza, la quale, dunque, non va protetta in ogni caso[2], dal momento che l’ordinamento giunge ad ammettere, così, un diritto del soggetto (vulnerabile e non di altri) a lasciarsi morire, rifiutando le cure, anche salvavita[3].

È facile comprendere, quindi, come all’interno di un tale dibattito vi possa essere chi ritiene che il tema dell’eutanasia sia riservato esclusivamente ai filosofi[4], o alla religione[5], anche se un tale approccio al problema del consenso informato ex art. 32 Cost. si debba risolvere in uno «spazio libero dal diritto» in cui la scienza giuridica non sarebbe legittimata ad occuparsene, e ciò soprattutto in virtù del fatto che si tratterebbe di uno spazio in cui lo Stato per le diverse visioni del mondo, quelle proprie di uno stato laicista, non potendo adottare una etica prevalente tra quelle in conflitto, finirebbe con l’astenersi in via assoluta, tanto da lasciare al singolo soggetto responsabile la scelta etica, e senza che una tale scelta sia approvata positivamente da parte dell’ordinamento.

Non vi è chi non veda, però, come lasciando il mondo del diritto fuori da ogni valutazione dell’etica laica, non finisce per persuadere sia perché la creazione di uno «spazio libero dal diritto» vorrebbe dire porre fuori dall’ordinamento gruppi di persone, quali i pazienti che si trovino in certe condizioni di oggettiva vulnerabilità, negando così loro la tutela che nei moderni ordinamenti gli spetta, in quanto individui da tutelare anche da se stessi e da ogni tipo di abuso nei loro confronti (c.d. pendio scivoloso)[6], e sia perché lasciare che altri possano liberamente decidere se e quanto una vita sia degna di essere vissuta ci riporta ad un passato che è bene tener lontano.

Pertanto, il tema dell’eutanasia implica non tanto il riconoscimento di un diritto al suicidio, quanto la sua (del suicidio) collocazione nell’alveo di una inviolabile libertà, quella di poter esercitare a pieno il fondamentale diritto all’autodeterminazione terapeutica sanitaria.

L’Autodeterminazione non va considerata come una forma di arroganza ma, quale conseguenza di un consenso informato, come quella volontà che permette di mantenere integro il rispetto della persona in tutte la sua esistenza (artt. 2 – 3 – 13 – 32 Cost.)  sfuggendo alle insidie sempre presenti nella posizione di chi affrontando i problemi dei soggetti a vario titolo incapaci, finisce con il costruire delle «non persone», della cui vita dovrebbe essere possibile disporre nell’interesse della società o in nome di una presunta attitudine benefica nei loro confronti.

È la laicità costituzionale, allora, ad illuminare i principi del biodiritto penale del fine vita al punto da sfuggire definitivamente alle insidie, pur sempre in agguato, da ricondurre alla posizione di chi, affrontando i problemi dei soggetti a vario titolo incapaci, finisce con il costruire delle«non persone», della cui vita impadronirsi paternalisticamente[7] ovvero sulla base di un solidarismo utilitaristico disponendo degli individui nell’interesse della società o in nome di una presunta attitudine benefica nei loro confronti[8].

In sintesi: in uno stato laico di diritto è il riconoscimento della diversa visione dell’idea della vita a dover costituire l’asse intorno a cui gravitano gli interrogativi che la dottrina e la giurisprudenza si pongono per l’individuazione di quei riferimenti normativi, rectius condizioni predeterminate per legge ed idonee, pertanto, a trovare soluzioni di ragionevolezza nell’esercizio di un diritto fondamentale capace, solo così, di rendere lecite condotte lesive di beni parimenti rilevanti.

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