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Intercettazioni e modifica dell'imputazione: la legittimità dell’autorizzazione dipende soltanto dall’imputazione originaria

Nota a Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 23244/2021
Corno alle Scale, 2018
Ph. Alessandro Saggio / Corno alle Scale, 2018

Abstract

Se il PM, dopo avere ottenuto l’autorizzazione alle intercettazioni per un fatto-reato per cui le intercettazioni stesse sono consentite, cambia l’imputazione e contesta un’ipotesi di reato che non le avrebbe consentite, i risultati ottenuti continuano ad essere utilizzabili.

 

La questione di diritto

Le Sezioni unite penali, con la nota sentenza Cavallo n. 51/2020, hanno chiarito che “il divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per quali siano state autorizzate le intercettazioni – salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza - non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 cod. proc. pen. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge”.

L’esclusione del divieto di utilizzazione, e quindi la legittima esportazione dei risultati delle intercettazioni da un procedimento ad un altro, si riferisce pertanto soltanto ai casi in cui nel corso di attività di intercettazione emergano tracce di reati (i) diversi da quelli per i quali le attività stesse siano state autorizzate, (ii) non compresi tra quelli cui si applica l’arresto obbligatorio in flagranza, (iii) connessi ai sensi dell’art. 12 cod. proc. pen. ai reati per i quali è stata concessa l’autorizzazione, (iv) per i quali sia consentito il ricorso alle intercettazioni ai sensi dell’art. 266 cod. proc. pen.

La questione interpretativa sulla quale ha fatto chiarezza la sentenza 23244/2021 è se il principio di diritto affermato dalla pronuncia Cavallo regoli anche l’ulteriore caso in cui i risultati delle intercettazioni non facciano emergere nuovi fatti-reato ma inducano invece ad attribuire al fatto per il quale era stata concessa l’autorizzazione una qualificazione giuridica diversa che non legittimerebbe l’intercettazione[1].

 

L’orientamento seguito

I giudici di legittimità hanno affermato che la soluzione giuridica del caso sottoposto alla loro attenzione non può essere ricavata dalla pronuncia Cavallo.

Quest’ultima ha riguardato infatti la disciplina dell’art. 270 cod. proc. pen. e il significato attribuibile all’espressione “procedimenti diversi” utilizzato nel suo primo comma.

Come si è visto, le Sezioni unite hanno adottato un criterio sostanzialistico e considerato decisivo il criterio della connessione ex art. 12 cod. proc. pen.: se i reati sono connessi non c’è diversità di procedimenti; se i reati non sono connessi i relativi procedimenti sono diversi.

Nel caso esaminato dal collegio della sesta sezione il fatto è unico e si resta pertanto al di fuori della disciplina dell’art. 270.

Fatta questa precisazione preliminare, il collegio afferma che la verifica dei presupposti che legittimano il ricorso alle intercettazioni deve essere fondata sulla situazione di fatto esistente al momento della richiesta di autorizzazione del PM e, ove conclusa in senso positivo, non può essere rimessa in discussione se l’ipotesi accusatoria formulata originariamente sia modificata, fatta eccezione per il caso di inesistenza originaria di quei presupposti.

I giudici di legittimità ammettono l’astratta possibilità di abusi dell’accusa pubblica attraverso la contestazione pretestuosa di ipotesi di reato infondate la cui unica giustificazione sarebbe quella di disporre di un'imputazione che consenta le intercettazioni.

Ritengono tuttavia che questo rischio possa essere evitato in presenza di un adeguato controllo del giudice cui spetta l’autorizzazione.

Escludono peraltro che i mutamenti dell’imputazione debbano essere sempre considerati come indizi di un possibile abuso poiché, al contrario, rientra nell’ordinaria fisiologia procedimentale che l’imputazione iniziale risenta dell’andamento delle indagini e possa essere quindi modificata quando nuovi elementi conoscitivi impongano un inquadramento diverso.

In conclusione, un’autorizzazione alle intercettazioni legittimamente data per un’ipotesi di reato compresa nell’elenco dell’art. 266 cod. proc. pen. mantiene i suoi effetti anche se di seguito il fatto-reato assuma una configurazione che lo escluderebbe da quell’elenco.

 

Il commento

La sentenza della sesta sezione penale chiarisce che il caso regolato dalla decisione Cavallo non comprende la diversa ipotesi del mutamento dell’imputazione a fronte della medesimezza del fatto.

È una conclusione corretta.

La stessa sentenza, in adesione a un indirizzo costante, “scuda” i risultati delle intercettazioni anche quando, a posteriori, l’imputazione riqualificata non avrebbe permesso l’avvio delle captazioni.

Il fondamento di questa tesi è che l’imputazione è fluida per definizione e non si può pretendere che i suoi adeguamenti successivi, dovuti a non preventivabili novità conoscitive, rendano inutilizzabili i risultati di attività che erano state legittimamente autorizzate su ciò che era noto inizialmente.

Anche questa è una conclusione corretta ma solo se l’attenzione alla questione si esaurisce su un piano esclusivamente formale e astratto.

Se invece ci si muove sul piano della concretezza affiorano varie crepe, essenzialmente dovute alla stessa giurisprudenza di legittimità.

Si consideri infatti che, per indirizzo costante (da ultimo e tra le tante Cass. Pen., Sez. III, 21059/2021), “il presupposto della sussistenza dei gravi indizi di reato non va inteso in senso probatorio (ossia come valutazione del fondamento dell'accusa), ma come vaglio di particolare serietà delle ipotesi delittuose configurate, che non devono risultare meramente ipotetiche  […] Ne consegue, allora, che il legislatore, mirando a prevenire qualsiasi uso non necessario di uno strumento tanto insidioso per la sfera della libertà e segretezza delle comunicazioni, espressamente prescrive soltanto un controllo penetrante circa l'esistenza delle esigenze investigative e la finalizzazione delle intercettazioni al relativo soddisfacimento; senza, quindi, alcun riferimento alla delibazione, nel merito, di una ipotesi accusatoria, che può ancora non avere trovato una sua consistenza. In una tale prospettiva, dunque, la motivazione del decreto non deve esprimere una valutazione sulla fondatezza dell'accusa, ma solo un vaglio di effettiva serietà del progetto investigativo”.

La correttezza dell’imputazione viene dunque spinta ai margini del controllo finalizzato all’autorizzazione e si enfatizza per contro la “serietà del progetto investigativo”, banalizzando il tenore letterale delle norma, che si riferisce a gravi indizi di reato, e introducendo un parametro sostitutivo di pura creazione giurisprudenziale.

Stando così le cose, non si vede davvero come il controllo iniziale affidato al giudice possa essere considerato un efficace e preventivo baluardo contro usi strumentali della contestazione.

Si potrebbero poi aggiungere quegli ulteriori indirizzi che a vario titolo compongono una fitta rete tale da assicurare la massima protezione dei decreti autorizzativi.

Ed ancora, si considera legittima la prassi della motivazione per relationem con il solo misero requisito che il giudice, attraverso richiami alla richiesta del PM, mostri di conoscerne il contenuto.

Si considerano irrilevanti la maggior parte degli errori ivi contenuti, inquadrandoli sempre come meri refusi che non inficiano la correttezza dell’impianto motivazionale.

Si considerano superabili le discrasie tra motivazione e dispositivo.

Molto si perdona, insomma, sull’evidente preoccupazione di non disperdere acquisizioni conoscitive altrimenti irrecuperabili.

Che in questo contesto il giudice possa e voglia sottoporre a un controllo capillare l’uso che il PM fa della sua “sovranità contestativa” è dunque poco più che una pia illusione.

Questo suggerisce la realtà e nel frattempo la protezione della libertà e della segretezza delle comunicazioni è sempre più fragile e precaria.

 

[1] Nel caso in esame, l’originaria imputazione di corruzione è stata successivamente modificata in abuso d’ufficio.