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Corte costituzionale: ancora un no all’inutilizzabilità derivata

Nota a Corte costituzionale, ordinanza 116/2022, camera di consiglio del 6 aprile 2002, decisione del 7 aprile 2022, deposito del 9 maggio 2022
Palazzo della Consulta
Palazzo della Consulta

Corte costituzionale: ancora un no all’inutilizzabilità derivata


Avvertenza preliminare

Tutti i periodi virgolettati nei primi tre paragrafi, salva diversa specificazione, sono tratti testualmente dall’ordinanza citata nel titolo.


1) La questione

Il tribunale di Lecce ha sollevato due questioni di legittimità costituzionale.

La prima ha ad oggetto l’asserito contrasto dell’art. 191 cod. proc. pen. con gli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, terzo (ma si intendeva il secondo) comma, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, «nella parte in cui – secondo l’interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, assunta quale diritto vivente – «non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità della prova acquisita in violazione di un divieto di legge […] si applichi anche alle c.d., “inutilizzabilità derivate”, e riguardi quindi anche gli esiti probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione domiciliare e personale: a) compiuti dalla p.g., fuori dei casi in cui la legge costituzionale e quella ordinaria le attribuiscono il relativo potere; b) compiuti dalla p.g., fuori del caso di flagranza di reato, in forza di autorizzazione data verbalmente dal P.M. senza che ne risultino contestualmente le ragioni concrete ed effettivamente pertinenti; c) compiuti dalla p.g., fuori del caso di previa flagranza del reato, in forza di segnalazioni anonime o confidenziali e su tali basi autorizzat[i] o convalidat[i] dal P.M.; d) compiuti dalla p.g., fuori del caso di previa flagranza del reato, e successivamente convalidati dal P.M., senza motivare concretamente su quali fossero gli elementi utilizzabili la cui ricorrenza integrasse valide ragioni che legittimassero la perquisizione».

Con la seconda il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 103 DPR 309/1990 (cosiddetto testo unico sugli stupefacenti) per contrasto con gli artt. 13, 14 e 117, primo comma, Cost. – quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU – «nella parte in cui prevede che il P.M. possa consentire l’esecuzione di perquisizioni in forza di autorizzazione orale, senza necessità di una successiva documentazione formale delle concrete e specifiche ragioni per cui l’ha rilasciata».


2) Le argomentazioni del giudice rimettente

Il tribunale di Lecce sta procedendo con rito ordinario nei confronti di un individuo accusato di detenzione illecita di un modesto quantitativo di stupefacenti destinato alla cessione a terzi.

Così l’ordinanza della Consulta riassume le sue argomentazioni a sostegno delle questioni poste:

«La principale fonte di prova del fatto è costituita dall’esito della perquisizione domiciliare eseguita presso l’abitazione dell’imputato, che aveva portato al rinvenimento e al conseguente sequestro delle sostanze: perquisizione effettuata dalla polizia giudiziaria su autorizzazione orale del pubblico ministero e a seguito di notizie comunicate alla stessa polizia giudiziaria tramite una telefonata anonima […] il pubblico ministero aveva convalidato, con unico provvedimento, non solo il sequestro, ma anche la perquisizione […] la motivazione della convalida atteneva, peraltro, alle sole ragioni del sequestro (convalidato in quanto avente ad oggetto il corpo del reato o cose pertinenti al reato), rimanendo invece totalmente muta riguardo alle ragioni giustificatrici della perquisizione; […] ad avviso del rimettente, tale perquisizione dovrebbe considerarsi abusiva, in quanto compiuta fuori dei casi tassativamente indicati dalla legge e in assenza di valido atto autorizzativo».

Secondo il giudice a quo «l’art. 13 Cost. (richiamato, quanto a garanzie e forme ivi previste, dall’art. 14 Cost. con riguardo a ispezioni, perquisizioni e sequestri domiciliari) prevede che ogni forma di limitazione della libertà personale – compresa quella insita nelle ispezioni e nelle perquisizioni personali – possa essere disposta solo con «atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»: laddove il riferimento all’«atto motivato» implicherebbe la necessità della forma scritta, o, comunque sia, di una qualche forma di documentazione dell’eventuale autorizzazione orale, non essendo altrimenti verificabile l’osservanza del requisito della motivazione; che al principio dianzi indicato può derogarsi unicamente «[i]n casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge», nei quali l’autorità di pubblica sicurezza può adottare «provvedimenti provvisori» soggetti a convalida da parte dell’autorità giudiziaria, in difetto della quale essi «si intendono revocati e restano privi di ogni effetto»; che pur in assenza di una esplicita previsione in tal senso, anche la convalida dovrebbe essere effettuata – secondo il rimettente – mediante provvedimento motivato, rimanendo altrimenti frustrata la ratio della garanzia apprestata dalla norma costituzionale; che l’ipotesi principale che, in base alla legge ordinaria, legittima l’intervento eccezionale delle forze di polizia è quella della flagranza di reato (art. 352 cod. proc. pen.); che norme speciali hanno, peraltro, ampliato i casi nei quali la polizia giudiziaria può procedere a ispezioni e perquisizioni; che una delle fattispecie più ricorrenti nella pratica – e rilevante nel giudizio a quo – è quella contemplata dall’art. 103 t.u. stupefacenti, i cui commi 2 e 3 abilitano la polizia giudiziaria a procedere – nel corso di operazioni finalizzate alla prevenzione e alla repressione del traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope – rispettivamente, all’ispezione dei mezzi di trasporto, dei bagagli e degli effetti personali, e a perquisizioni, allorché vi sia «fondato motivo» di ritenere che possano essere rinvenute tali sostanze e ricorrano, altresì – nel caso delle perquisizioni – «motivi di particolare necessità ed urgenza che non consentano di richiedere l’autorizzazione telefonica del magistrato competente»; che, alla luce di tale quadro normativo, la perquisizione di cui si discute nel giudizio a quo risulterebbe illegittima; che la perquisizione è stata, infatti, operata dalla polizia giudiziaria fuori dalla preventiva percezione di una situazione di flagranza di reato e in forza di un’autorizzazione data dall’autorità giudiziaria verbalmente, senza, quindi, che ne risulti la motivazione: autorizzazione rilasciata, per giunta, a seguito di richiesta della polizia giudiziaria fondata su una denuncia anonima, la quale non avrebbe potuto essere utilizzata, né posta a base di alcun provvedimento, stante il generale divieto stabilito dall’art. 240 cod. proc. pen.; che neppure, d’altra parte, l’attività di perquisizione potrebbe ritenersi «“sanata”» dal successivo provvedimento di convalida, mancando in esso ogni motivazione riguardo alle ragioni che giustificavano la perquisizione stessa; che, ciò premesso, il giudice rimettente assume che, alla luce della previsione dell’art. 13 Cost., gli atti di ispezione e perquisizione personale e domiciliare eseguiti abusivamente dalla polizia giudiziaria, o non convalidati dall’autorità giudiziaria con atto motivato, dovrebbero rimanere privi di effetto anche sul piano probatorio; che l’unica efficacia perdurante nel tempo di tali atti è, infatti, quella relativa alla loro «capacità probatoria»: di modo che la perdita di efficacia non potrebbe che equivalere, per essi, a quella che, nell’art. 191 cod. proc. pen., è qualificata come inutilizzabilità delle prove assunte in violazione di un divieto di legge; che tale esito interpretativo risulterebbe, tuttavia, contraddetto dall’indirizzo della giurisprudenza di legittimità divenuto «assolutamente dominante» a partire dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 marzo-16 maggio 1996, n. 5021; […] che il giudice a quo dubita, tuttavia, che l’art. 191 cod. proc. pen., nella lettura offertane dal diritto vivente, possa ritenersi compatibile con il dettato costituzionale; che l’interpretazione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 13 e 14 Cost., negando concreta attuazione alla previsione della perdita di efficacia delle perquisizioni e delle ispezioni, nonché dei sequestri ad esse conseguenti, ove eseguiti in violazione dei divieti; che la disciplina stabilita dall’art. 191 cod. proc. pen. mirerebbe ad offrire una efficace tutela ai diritti costituzionalmente garantiti, disincentivando le loro violazioni finalizzate all’acquisizione della prova, col prevedere l’inutilizzabilità dei relativi risultati: ammettendo una “sanatoria” ex post di tali violazioni, legata agli esiti della perquisizione o dell’ispezione, si verrebbe, per converso, a negare la tutela del cittadino in confronto agli abusi della polizia giudiziaria; che l’interpretazione denunciata violerebbe anche l’art. 3 Cost., in quanto escluderebbe l’inutilizzabilità in casi del tutto analoghi ad altri per i quali la legge espressamente la prevede, o la giurisprudenza, comunque sia, la riconosce (quali, ad esempio, quelli delle intercettazioni e delle acquisizioni di tabulati del traffico telefonico eseguite dalla polizia giudiziaria in assenza di provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria), dando luogo, altresì, al paradosso di un sistema giuridico che vede «inefficaci ab origine le leggi incostituzionali», ma «efficacissimi», anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino; che la soluzione ermeneutica censurata lederebbe anche l’art. 2 Cost., facendo sì che vengano a mancare effettive garanzie contro le illecite compromissioni dei diritti inviolabili dell’uomo; come pure l’art. 97, secondo comma, Cost., che sottopone in via generale l’azione dei pubblici poteri al principio di legalità, rendendo prevalente l’azione illegale degli organi statali, finalizzata alla repressione dei reati, rispetto ai diritti costituzionali dei consociati: con ulteriore violazione dell’art. 3 Cost., posto che, in un ordinamento che prevede come centrali i diritti inviolabili della persona, questi dovrebbero porsi, quantomeno, sullo stesso piano dei diritti della collettività e dello Stato; che un conclusivo profilo di violazione dell’art. 3 Cost. è ravvisato nel fatto che l’interpretazione censurata si trova irrazionalmente a convivere con quella che riconosce l’inutilizzabilità di prove vietate dalla legge solo perché non verificabili (come nel caso degli scritti anonimi e delle fonti confidenziali); che l’«insondabilità» degli elementi che hanno spinto la polizia giudiziaria a eseguire la perquisizione non consentirebbe di escludere che siano stati proprio i terzi latori della notizia confidenziale o anonima – se non, addirittura, come talora pure è avvenuto, le stesse forze di polizia – a introdurre nell’abitazione dell’imputato la res illicita, con conseguente violazione anche dell’art. 24 Cost., per compromissione del diritto di difesa, nonché dell’art. 111 Cost., «per vanificazione del diritto dell’imputato ad un Giudice imparziale e dotato del potere di esercitare la giurisdizione nel giusto processo»; che la lettura della norma denunciata offerta dal diritto vivente si porrebbe in contrasto, infine, con l’art. 8 CEDU e, quindi, con l’art. 117, primo comma, Cost., risolvendosi nella mancata adozione di efficaci disincentivi agli abusi delle forze di polizia che implichino indebite interferenze nella vita privata della persona o nel suo domicilio: abusi contro i quali – secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – il diritto interno deve offrire garanzie adeguate e sufficienti; che il rimettente dubita, per altro verso, della legittimità costituzionale dell’art. 103 t.u. stupefacenti, «nella parte in cui prevede che il P.M. possa consentire l’esecuzione di perquisizioni in forza di autorizzazione orale senza necessità di una successiva documentazione formale delle ragioni per cui l’ha rilasciata»: dubbio – secondo il rimettente – di evidente rilevanza nel giudizio a quo, in quanto è sulla base di tale disposizione che è stata eseguita la perquisizione che ha portato al rinvenimento del corpo del reato ascritto all’imputato; che sulla scorta delle considerazioni già svolte, il rimettente reputa che la norma censurata violi, in parte qua, gli artt. 13, 14 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, non consentendo una simile autorizzazione un controllo effettivo sulla sussistenza delle condizioni che legittimano la perquisizione».


3) La decisione della Consulta

Il giudice delle leggi ricorda di essersi già pronunciato due volte (sentenze nn. 219/2019 e 252/2020) su questioni pressoché identiche quanto alla tenuta costituzionale dell’art. 191 cod. proc. pen. e di averle ritenute entrambe inammissibili.

Tale esito è stato conseguente ad una constatazione: che con la locuzione “[l]e prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate” – «il legislatore abbia inteso introdurre un meccanismo preclusivo che dissolvesse la stessa “idoneità” probatoria di atti vietati dalla legge, distinguendo nettamente tale fenomeno dai profili di inefficacia conseguenti alla violazione di una regola sancita a pena di nullità dell’atto; che anche il vizio in questione resta, peraltro, soggetto – come le nullità – ai paradigmi della tassatività e della legalità; che, infatti, essendo il diritto alla prova un connotato essenziale del processo penale, è solo la legge a stabilire – con norme di stretta interpretazione, in ragione della loro natura eccezionale – quali siano e come si atteggino i divieti probatori, in funzione di scelte di “politica processuale” spettanti in via esclusiva al legislatore: donde l’impossibilità – ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità – di riferire all’inutilizzabilità il regime del “vizio derivato”, contemplato dall’art. 185, comma 1, cod. proc. pen. solo nel campo delle nullità («[l]a nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo»)».

La Corte ha ricordato ulteriormente «che, in tale cornice, il petitum del rimettente si traduceva quindi nella richiesta di una pronuncia «fortemente “manipolativa”», volta a rendere automaticamente inutilizzabili gli atti di sequestro «attraverso il “trasferimento” su di essi dei “vizi” che affliggerebbero» – secondo la ricostruzione operata dal rimettente stesso – «gli atti di perquisizione personale e domiciliare dai quali i sequestri sono scaturiti» (sentenze n. 252 del 2020 e n. 219 del 2019); che ciò rendeva le questioni inammissibili, vertendosi in materia caratterizzata da ampia discrezionalità del legislatore (quale quella processuale), e discutendosi, per giunta, di una disciplina di natura eccezionale (quale appunto quella relativa ai divieti probatori e alle clausole di inutilizzabilità processuale)».

Ha di seguito sottolineato che «lo stesso assunto del giudice a quo, secondo cui la soluzione proposta sarebbe stata necessaria al fine di disincentivare le pratiche di acquisizione delle prove con modalità lesive dei diritti fondamentali (rendendole «“non paganti”»), rivelava come le questioni coinvolgessero scelte di politica processuale riservate al legislatore; l’obiettivo di disincentivare gli abusi risulta, peraltro, perseguito dall’ordinamento vigente tramite la persecuzione diretta, in sede disciplinare o, se del caso, anche penale, della condotta “abusiva” della polizia giudiziaria, come del resto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità».

La conclusione è a questo punto inevitabile e la sorte delle questioni poste dal tribunale di Lecce è già segnata: «l’odierna ordinanza di rimessione – la cui motivazione ricalca ampiamente quella delle ordinanze già scrutinate, con taluni adattamenti legati alle peculiarità della fattispecie concreta – non appare foriera di apprezzabili elementi di novità; che non può considerarsi tale, in specie, la parziale variazione del petitum, la quale – come già rilevato da questa Corte in rapporto alle analoghe operazioni compiute dal giudice a quo in alcune delle precedenti ordinanze di rimessione – non muta nella sostanza il thema decidendum, traducendosi in una mera specificazione (calibrata essa pure sulle peculiarità del caso di specie) del genus delle perquisizioni illegittime, secondo la visione del rimettente (sentenza n. 252 del 2020); che la ratio decidendi delle precedenti pronunce di questa Corte resta, d’altro canto, valida anche a fronte della deduzione, da parte del giudice a quo, della violazione di un parametro costituzionale ulteriore rispetto a quelli precedentemente evocati (l’art. 111 Cost., in particolare sotto il profilo di una pretesa compromissione dell’imparzialità del giudice): censura che – nella prospettazione del rimettente – si presenta come meramente rafforzativa della denuncia, già in precedenza operata, della violazione degli artt. 3 e 24 Cost. connessa alla «ridotta verificabilità» degli elementi sulla cui base la polizia giudiziaria ha proceduto alla perquisizione, che si assume derivare dal diritto vivente censurato; che le odierne questioni debbono essere, quindi, dichiarate anch’esse manifestamente inammissibili; che quanto, invece, alle questioni concernenti l’art. 103 t.u. stupefacenti, questa Corte, con la sentenza n. 252 del 2020 – successiva all’ordinanza di rimessione –, ha già accolto identiche questioni (sollevate dal medesimo giudice a quo con una delle precedenti ordinanze) in riferimento agli artt. 13 e 14 Cost. (con assorbimento della censura di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU), dichiarando costituzionalmente illegittimo il comma 3 del citato art. 103 t.u. stupefacenti, nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate (con atto motivato, secondo quanto precisato nella motivazione della sentenza); che in conformità al costante indirizzo della giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 206, n. 192 e n. 184 del 2021, n. 125 del 2020), le odierne questioni debbono essere, dunque, dichiarate manifestamente inammissibili perché ormai prive di oggetto, avendo la citata sentenza n. 252 del 2020 rimosso, in parte qua e con effetto ex tunc, la norma che determinava il denunciato contrasto con i parametri costituzionali evocati».

In virtù di queste complessive argomentazioni, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni concernenti l’art. 191 cod. proc. pen. e le altre riguardanti l’art. 103 DPR 309/1990.


4) Il commento

4.1) La chiusura della Consulta

Il giudice a quo deve crederci molto nella questione riferita al citato art. 191.

Nell’ordinanza non si manca di sottolinearlo: «quanto alle questioni di legittimità costituzionale che investono l’art. 191 cod. proc. pen., va rilevato che questa Corte si è già pronunciata due volte su questioni sostanzialmente sovrapponibili alle odierne, sollevate dal medesimo giudice in riferimento agli stessi parametri costituzionali (fatta eccezione per l’art. 111 Cost.) con otto precedenti ordinanze di rimessione (le prime due delle quali emesse in veste di Giudice dell’udienza preliminare del medesimo Tribunale di Lecce)».

Sebbene sia solo una congettura indimostrabile, sembra quasi di cogliere una punta di fastidio della Consulta verso quel giudice periferico – sempre lo stesso anche se in ruoli diversi – che continua a proporre le sue argomentazioni a dispetto della sequela di insuccessi.

Certo è, comunque la si voglia pensare, che ne dice di cose quel giudice.

Parla di una duplice convalida – di una perquisizione e un sequestro – motivata solo per il sequestro ma silente sulle ragioni della perquisizione e vi scorge una palese violazione dell’art. 14 Cost. che estende espressamente agli atti intrusivi del domicilio le garanzie accordate alla libertà personale dell’art. 13.

Racconta di una perquisizione chiesta dalla polizia giudiziaria sulla base di una segnalazione anonima di reato (come tale inutilizzabile ex art. 240 cod. proc. pen.), autorizzata oralmente dal PM e poi da questi convalidata senza un rigo di motivazione.

Afferma che ammettere una sanatoria ex post di tali violazioni, come fa la giurisprudenza costante di legittimità, equivale a negare tutela ai cittadini vittime di abusi della polizia giudiziaria e si risolve in un paradosso: sono inefficaci fin dalla loro origine le leggi dichiarate incostituzionali, rimangono invece efficaci gli atti di p.g. lesivi di diritti costituzionali dei cittadini.

Dice il molto altro che è stato evidenziato in precedenza.

È impossibile negare che questo molto pone una domanda di senso e richiede una risposta rassicurante.

La speranza, quindi, è che in casi del genere la risposta della Corte costituzionale, quale che sia, spieghi bene e plausibilmente perché sì o perché no, perché sono fondati o infondati i timori del giudice a quo sul paventato deficit di tutela di libertà essenziali e in che modo, se fondati, si possano mettere in sicurezza le libertà minacciate.

Questa speranza rimane però delusa e l’ordinanza commentata non va molto oltre quell’ipotizzato senso di fastidio verso il disturbatore seriale di Lecce.

La Consulta si limita sostanzialmente a riconoscere, richiamando il concetto già espresso nella sentenza n. 219/2019, che la previsione normativa dell’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di divieti stabiliti dalla legge introduce un meccanismo preclusivo che dissolve l’idoneità probatoria degli atti vietati.

Aggiunge che i divieti probatori hanno natura eccezionale e che le norme che li sanciscono sono di stretta interpretazione sicché è impossibile collegare all’inutilizzabilità il regime del vizio derivato che il legislatore processuale (art. 185 cod. proc. pen.) ha previsto per le nullità.

Perviene per questa via a considerare altamente manipolativa e quindi inammissibile la pronuncia suggerita dal giudice rimettente allorché chiede di rendere inutilizzabili gli atti di sequestro sul presupposto dell’estensione agli stessi dei pretesi vizi che affliggerebbero gli atti di perquisizione che li hanno preceduti. Le scelte di politica processuale spettano infatti solo al legislatore.

Questo è tutto.

La dichiarata continuità dell’ordinanza n. 116 con la citata sentenza n. 219 rende legittimo attingerne elementi per comprendere meglio la posizione della Consulta.

Nella decisione del 2019 si richiama, condividendolo, l’indirizzo interpretativo di legittimità secondo il quale la propagazione della sanzione agli atti derivati, valida per le nullità, «non si applica in materia di inutilizzabilità, riguardando quest’ultima solo le prove illegittimamente acquisite e non quelle la cui acquisizione sia avvenuta in modo autonomo e nelle forme consentite».

La medesima decisione contesta inoltre al giudice rimettente di avere «omesso qualsiasi riferimento, se non altro per confutarne gli argomenti, a quanto questa Corte ha avuto modo di affermare nella ordinanza n. 332 del 2001, con la quale è stata dichiarata la manifesta inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale riguardanti l’art. 41 t.u. pubblica sicurezza e l’art. 191 cod. proc. pen., quest’ultimo censurato, in riferimento all’art. 24 Cost., «nella parte in cui tale disposizione – alla luce, anche, della interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità – consente l’utilizzazione di prove che derivano, non solo in via diretta, ma anche “in via mediata”, da un atto posto in essere in violazione di divieti, e, in particolare, nella parte in cui consente l’utilizzazione del risultato di una perquisizione nulla».

Aggiunge una chiusa finale: «Va da sé, peraltro, che se è vero quanto afferma il giudice a quo a proposito del fatto che le regole che stabiliscono divieti probatori riposano essenzialmente sulla esigenza di introdurre misure volte anche a disincentivare possibili “abusi” – è noto, al riguardo, che nei sistemi di common law la finalità prevalente delle exclusionary rules è proprio quella di deterrence – è altrettanto vero che un simile obiettivo viene in ogni modo perseguito dall’ordinamento attraverso la persecuzione diretta, in sede disciplinare o, se del caso, anche penale, della condotta “abusiva” che possa essere stata posta in essere dalla polizia giudiziaria, come d’altra parte espressamente affermato in varie occasioni dalla giurisprudenza di legittimità (ad esempio, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 28 aprile-25 maggio 2006, n. 18438)».


4.2) Cosa si potrebbe dire ancora

La posizione assunta dalla Corte costituzionale sulla sostanziale intangibilità dell’inutilizzabilità se non per via legislativa non ha riscosso consensi unanimi.

C’è chi estende la critica perfino alla formula decisoria [1].

La tesi fa perno su due argomentazioni essenziali.

La prima è che l’espressione “prove acquisite” contenuta nel primo comma dell’art. 191 può essere intesa in due modi: può cioè significare prove ammesse in violazione di un divieto probatorio sancito necessariamente da una norma processuale ed è questo in effetti il significato accreditato in prevalenza dal diritto vivente [2]; oppure, ed è questa l’opzione preferita da Ferrua (il quale ritiene la prima una pura tautologia che renderebbe superfluo l’art. 191) può significare “prove ottenute, reperite o raccolte” ed in questo caso sarebbero tali non solo le prove non ammesse dalla legge ma anche tutte le altre che siano il frutto di una violazione di legge; rientrerebbero dunque nella nozione le cose trovate e sequestrate in conseguenza di una perquisizione illegittima.

La seconda è l’irrilevanza dell’invalidità derivata e con essa della differenza tra inutilizzabilità e nullità per la soluzione della questione posta dal giudice rimettente.

Ciò perché l’invalidità derivata non attiene alla materia probatoria e la dipendenza tra atti di cui all’art. 185 cod. proc. pen. non è causale ma giuridica e riguarda il caso in cui un atto è il presupposto necessario per il compimento di un altro. Il che è come dire appunto che l’invalidità derivata non attiene alle prove ma agli atti cosiddetti propulsivi, cioè necessari in una serie procedimentale.

In questa accezione è chiaro che l’invalidità di un sequestro non può dipendere dall’invalidità della perquisizione poiché quest’ultima non è indispensabile per il primo.

Ne deriva che l’invalidità del sequestro può derivare soltanto dalla seconda accezione di prova acquisita di cui si è detto prima.

Certo è, conclude Ferrua, che questi rilievi dimostrano l’erroneità della pronuncia di inammissibilità che avrebbe dovuto essere sostituita da una di merito.

Senza contare – aggiunge l’Autore – che la Corte ha una lunga tradizione di sentenze manipolative (lo sono tutte quelle additive) e che, in ogni caso, la decisione della Consulta, proprio perché considera manipolativa qualunque questione che attenga al rapporto tra perquisizione e sequestro, ne rende impossibile la proponibilità.

C’è anche chi [3] condivide la tesi dell’impossibilità dell’inutilizzabilità derivata: «Mentre la nullità derivata, anche là dove applicabile alla prova invalida, attiene ad un regime di tassatività perimetrato su casi determinati (art. 178 comma 1 lett. c) c.p.p.), non solo speciali (art. 213 comma 3 c.p.p.; art. 224 bis commi 2 e 7 c.p.p.; art. 359 bis comma 3 c.p.p.), così da integrarsi per un collegamento non meramente accidentale tra le due prove in relazione a specifiche violazioni individuabili a monte, la tassatività della inutilizzabilità, come si è più volte rilevato, può essere ritenuta se e nella misura in cui i divieti probatori possano ritenersi tassativi e, quindi, in primo luogo, individuabili in concreto, oltre che applicabili oppure no al di fuori del loro ambito o in casi coincidenti quanto a ratio sottostante. In sostanza, il paradosso della tassatività della inutilizzabilità è dato dalla indeterminatezza della previsione generale, che si traduce nei divieti indeterminati alla fonte, ma determinabili in concreto […] Se la categoria della inutilizzabilità è dunque sottratta per sua natura ad un criterio tradizionale o formale di tassatività, risulta allora impraticabile il percorso verso la creazione di una sottocategoria o figura di ‘inutilizzabilità derivata’ che ricaverebbe il suo titolo genetico da un’originaria indeterminatezza».

La stessa Autrice, tuttavia, intravede un percorso alternativo, in questi termini: «la eliminazione dal quadro probatorio della prova illegittima è garantita da quello che si era definito lo stesso effetto intrinseco della inutilizzabilità che, coniugato al principio di autosufficienza che connota la sanzione, si esprime in sintesi nel concetto di relazione sottostante alla fattispecie. Che si misuri con un provvedimento o con un atto, l’inutilizzabilità non necessita di estensione, bastando l’illegittimità a funzionare in sé da sbarramento all’atto cui inerisce, quale che sia, senza che possa essere opposta la insussistenza di un principio ad hoc ovvero la inapplicabilità di una regola prevista per la nullità. L’eccezione sollevata dalla difesa in sede di atti di acquisizione dibattimentale o nel procedimento cautelare o negli atti di impugnazione circa la presenza di un atto illegittimo, non può essere rigettata solo per via della assenza di una norma che preveda la contaminazione degli atti susseguenti o della inapplicabilità della regola in ordine alla derivazione della nullità, come afferma la giurisprudenza costante. Ritenuta la violazione del divieto probatorio, la valutazione deve avere riguardo all’oggetto o al mezzo su cui si infrange il vizio, concentrandosi sulla effettività e, volendo, ultrattività dell’offesa all’interesse tutelato dalla regola di esclusione violata. Non si tratta di un giudizio sulla complessiva equità del processo, nell’ottica della giurisprudenza europea, ma di un controllo dovuto di legalità, anche solo suscitato dal dubbio che l’atto irrituale segnalato dalla difesa possa sacrificare potenzialmente, oltre al diritto evidenziato nella eccezione, altri diritti tutelati nel processo ovvero nel procedimento» [4].

Quanto poi al rapporto tra perquisizione illegittima e sequestro, la Galantini lo inquadra così [5]: «è da ritenere che sia la stessa illegittimità della perquisizione a sancire il decadere del potere istruttorio, che si è già consumato nel compimento dell’atto di perquisizione. Anche a fronte della tesi già sostenuta in passato circa la sussistenza di un divieto probatorio nell’art. 352 comma 1 c.p.p. a tutela della corretta organizzazione dell’attività investigativa in funzione della genuinità dell’accertamento, si può ritenere che la invalidità del sequestro di polizia giudiziaria sia insita nella violazione originaria. Volendo trovare conforto nella giurisprudenza sovranazionale, la casistica della Corte dei diritti offre l’affermazione per cui è la perquisizione in sé, indipendentemente dagli atti conseguenti e a prescindere dalla utilità o no dei risultati, a generarne l’illegittimità in assenza di garanzie adeguate nella sua esecuzione. Ed è significativo l’epilogo della pronuncia là dove condanna lo Stato italiano per l’assenza di una disposizione del codice che preveda lo strumento del riesame anche contro il decreto che dispone la perquisizione, così accentuando l’incidenza della irritualità in sé dell’atto di ricerca della prova. D’altra parte, la giurisprudenza eurounitaria può inoltre essere di interesse per quanto ha stabilito, se pure su un fronte diverso dal rapporto perquisizione-sequestro, a tutela del diritto alla vita privata. Nella logica del principio di proporzionalità, la Corte di giustizia ha affermato che le intercettazioni disposte da autorità incompetente si risolvono in atti non previsti dalla legge e quindi non utilizzabili, per via della insussistenza di un potere a disporle alle origini, ‘persino quando solo tali elementi siano atti a dimostrare la commissione dei reati’. Altra conferma può rinvenirsi nella giurisprudenza europea, dove è stato riconosciuto il principio per cui le dichiarazioni rese in un contesto irrituale non possono essere utilizzate anche qualora costituiscano corpo del reato».

Per poi concludere in questi termini [6]: «In fondo, prescindendo dall’inutile confronto con la ‘nullità derivata’, non si è lontani dalla logica seguita dalla stessa Corte costituzionale là dove insiste sul dissolvimento della idoneità probatoria della prova illegittima. Che si voglia insistere o no sul perpetuarsi della lesione per via di una fisiologica capacità di riprodursi del vizio, è la intrinseca irritualità di un atto che garantisce la difesa protratta degli interessi tutelati a monte, alla quale non può essere opposto un potere ormai solo virtuale, della cui insussistenza diviene controllore di legalità il giudice».


5) Il giudice insistente

Si ha notizia che con un’ordinanza depositata il 19 ottobre 2021 [7] il tribunale di Lecce ha nuovamente sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 191 cod. proc. pen. per contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97 comma 3, 111 e 117 Cost., «nella parte in cui non prevede che la sanzione della inutilizzabilità della prova, acquisita in violazione di un divieto di legge, si applichi anche alle c.d., ‘inutilizzabilità derivate’ e cioè ai risultati degli atti di ricerca o acquisizione della prova quando compiuti – fuori dei casi in cui la legge lo consenta – in danno di uno dei diritti inviolabili di cui agli artt. 13 e 14 Cost., e quindi nella parte in cui l’art. 191 c.p.p. non prevede che in tali casi l’inutilizzabilità si trasmetta alle ulteriori acquisizioni probatorie che direttamente ne discendano».

Il giudice rimettente ha inoltre sollevato la medesima questione in riferimento all’art. 352 cod. proc. pen. per contrasto con gli artt. 2, 13 e 14 Cost., laddove «non prevede che, nel caso in cui il P.M. non provveda a convalidare la perquisizione nei termini di legge, ne divengano inutilizzabili tutti i risultati probatori anche in termini di ‘inutilizzabilità derivata».

L’inserimento di un nuovo – e probabilmente più coerente – bersaglio normativo (il citato art. 352) potrebbe consentire alla Consulta un intervento che dovrebbe servire, per dirla con le parole della Galantini, «non tanto per creare un nuovo divieto in eventuale dissonanza con le scelte di politica processuale e additivo rispetto alla preclusione generale dell’art. 191 c.p.p., ma per riconoscere in una norma processuale il riflesso del divieto costituzionale che, per il suo stesso dettato, implica la perdita di efficacia di quanto ottenuto a seguito della sua violazione».

Si vedrà.

***

[1] P. Ferrua, Perquisizioni illegittime e sequestro: una singolare dichiarazione di inammissibilità dagli effetti dissuasivi, in Discrimen, 13 novembre 2019, a questo link.

[2] Per la verità, fu la stessa relazione al codice di procedura penale a chiarire (pag. 181) che «La sostituzione del concetto di “acquisizione” a quello di “ammissione”[2], nell’art. 191, è importante perché evidenzia come la disciplina della prova contenuta nel presente titolo sia, almeno tendenzialmente, rivolta a regolare anche l’attività della fase investigativa e non solo quella della decisione». È lecito per ciò stesso ritenere che l’inutilizzabilità riguarda non solo le prove formate nel contraddittorio ma anche qualsiasi elemento conoscitivo a vocazione probatoria. Tanto ciò è vero che già le Sezioni unite con la sentenza n. 16/2001 riferirono al concetto di inutilizzabilità «tanto le prove oggettivamente vietate quanto le prove comunque formate o acquisite in violazione – o con modalità lesive – dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione e, perciò, assoluti e irrinunciabili, a prescindere dallesistenza di un espresso o tacito divieto al loro impiego nel procedimento contenuto nella legge processuale».

[3] N. Galantini, Alla ricerca dell’inutilizzabilità derivata, in Sistema Penale, 24 marzo 2021, a questo link.

[4] N. Galantini, op. cit.

[5] N. Galantini, op. cit.

[6] N. Galantini, op. cit.

[7] Per una sintesi dell’ordinanza e dei profili di novità rispetto alle precedenti rimessioni, si veda N. Galantini, L’art. 191 c.p.p. a confronto con la ‘inutilizzabilità derivata’ in un nuovo giudizio costituzionale, in Sistema Penale, 18 gennaio 2022, a questo link.