Il quorum deliberativo del referendum abrogativo: profili di illegittimità costituzionale

Il quorum deliberativo del referendum abrogativo: profili di illegittimità costituzionale
ABSTRACT
L’art. 75 comma 4 della Costituzione, il quale stabilisce che il referendum abrogativo di una legge ordinaria è approvato solo ove abbia partecipato alla votazione la maggioranza degli “aventi diritto al voto”, va esaminato anche alla luce dell’art. 138 della stessa Costituzione, il quale, per il referendum abrogativo delle leggi costituzionali e/o di revisione costituzionale, prevede che quest’ultimo debba considerarsi valido laddove abbia riportato la maggioranza dei “voti” e non la partecipazione degli “aventi diritto”. Quindi viene stabilito, per la cancellazione di una legge ordinaria, un quorum più alto rispetto a quello stabilito per l’eliminazione di una legge (costituzionale e/o di revisione costituzionale), che, tuttavia, è gerarchicamente sovraordinata rispetto alla stessa legge ordinaria.
Pertanto la previsione di cui all’art. 75 comma, poiché caratterizzata da una sproporzione di trattamento tra norme di rilevanza diversa, assume la valenza di una illegittimità ex art. 3 Costituzione.
Article 75, paragraph 4 of the Constitution, which establishes that a referendum to repeal an ordinary law is approved only if a majority of those "entitled to vote" have participated, must also be examined in light of Article 138 of the Constitution, which, for referendums to repeal constitutional and/or constitutional amendment laws, provides that the latter must be considered valid when it receives a majority of "votes" and not the participation of those "entitled to vote." Therefore, a higher quorum is established for the repeal of an ordinary law than that required for the elimination of a law (constitutional and/or constitutional amendment), which, however, is hierarchically superior to the ordinary law itself.
Therefore, the provision in Article 75, paragraph 4, because it involves disproportionate treatment between provisions of different relevance, constitutes an unlawful act pursuant to Article 3 of the Constitution.
L’art. 27 della Legge 87/1953 prevede che la Corte Costituzionale, quando sancisce l’illegittimità di una legge, “dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata”. Quindi, se “altre disposizioni legislative”, attualmente applicate a sfavore di una fascia ampia di cittadini, possono essere eliminate grazie al ricorso che “un solo cittadino” ha fatto contro una legge ad esse collegata (e dichiarata incostituzionale), dovrebbe valere il principio per cui una legge può essere eliminata mediante il referendum abrogativo anche se questo è stato approvato solo da una parte della popolazione (ossia i “votanti”), ossia anche se alla consultazione non ha partecipato la maggioranza della popolazione stessa (ossia gli “aventi diritto”).
Article 27 of Law 87/1953 provides that the Constitutional Court, when declaring a law unconstitutional, "shall also declare the other legislative provisions whose unconstitutionality arises as a consequence of the decision adopted." Therefore, if "other legislative provisions," currently applied to the detriment of a broad segment of citizens, can be eliminated thanks to the appeal filed by "a single citizen" against a related law (and declared unconstitutional), the principle should apply according to which a law can be eliminated through an abrogative referendum even if it was approved by only a portion of the population (i.e., the "voters"), that is, even if the majority of the population (i.e., those "eligible to vote") did not participate.
L’art. 75 della Costituzione, nel disciplinare il referendum abrogativo, stabilisce, al comma 4, che “la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto”.
Ai sensi dell’art. 48 della Costituzione, l’esercizio del diritto di voto è anche “dovere civico”. La norma non distingue tra il voto alle elezioni politiche (o comunque alle elezioni in generale) ed il voto espresso tramite referendum. Di conseguenza, almeno dal punto di vista della configurazione del voto in termini di “dovere”, elezioni e referendum sono sullo stesso piano.
L’inadempimento a tale dovere viene in qualche modo “sanzionato”? No. Chi non vota non riceve alcuna sanzione, anche perché la norma parla di “dovere civico”, che è un qualcosa di meno vincolante rispetto all’adempimento di un “obbligo giuridico”: chi non ottempera ad un “obbligo” di legge è passibile di sanzione, mentre chi non adempie ad un “dovere civico” potrà essere tacciato di scarsa sensibilità alle problematiche sociali, umane ed economiche del Paese, ma non potrà essere destinatario di misure afflittive in quanto queste non sono previste da nessuna norma.
Questa conclusione, tuttavia, potrebbe mutare nel caso in cui si voglia inquadrare il mancato esercizio del diritto – dovere di voto nell’ambito del generale adempimento, previsto dall’art. 2 della Cost., dei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Se un “dovere” è “inderogabile”, ciò vuol dire che al suo adempimento non ci si può sottrarre, e che pertanto un eventuale inadempimento dovrebbe dar luogo a delle sanzioni, altrimenti non si spiegherebbe l’inderogabilità, ossia l’imperatività, del medesimo. Il punto, quindi, è vedere se il dovere “civico” di voto è un dovere “inderogabile”, perché, se si dimostra questo, allora si può ritenere che, come “sanzione” per coloro i quali non abbiano votato, possa valere il principio per cui, anche nel caso dei referendum abrogativi, la consultazione elettorale sia valida con il voto del 50% + uno dei votanti, e non, come è attualmente, con il 50% + uno degli aventi diritto. Se l’avente diritto, non votando e quindi non esercitando il diritto stesso, si è, contestualmente, reso responsabile anche dell’inadempimento ad un dovere “inderogabile”, allora “la sanzione” a suo carico per tale inadempimento potrebbe essere rappresentata dal fatto che egli debba accettare la volontà espressa da coloro che, aventi diritto come lui, abbiano invece adempiuto al dovere sopra citato e che quindi siano stati “votanti”, qualunque sia stata questa volontà (sia confermativa sia abrogativa della legge).
Il referendum abrogativo nasce per eliminare dall’ordinamento una norma che il legislatore, evidentemente, non ritiene né opportuno né necessario eliminare. Il legislatore, titolare del potere di decidere se mantenere o meno in vita una norma, non la ha mai cancellata e perciò ha stabilito di mantenerla, ma al cittadino (avente diritto al voto) viene data la possibilità di prendere una decisione diversa e quindi di sostituirsi al legislatore.
La domanda è la seguente: questa “sostituzione al legislatore” costituisce, per gli aventi diritto al voto, un “dovere inderogabile”?
L’art. 50 della Cost. disciplina l’iniziativa legislativa popolare, prevedendo che “tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi”. Chiedere al Parlamento di “emanare” una legge, è una facoltà (“possono”), e non un “obbligo”. Quindi – si potrebbe dire – anche il recarsi alle urne per “eliminare” una legge (referendum abrogativo) è una facoltà, e non un “obbligo”.
Inoltre, ai sensi dell’art. 67 Cost., il Parlamento, titolare del potere legislativo, “esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Le leggi possono essere emanate anche contro la volontà degli elettori o comunque a prescindere da quest’ultima, ed è proprio questo il motivo per il quale, ai fini della validità delle elezioni politiche, con cui i cittadini nominano i membri del Parlamento e cioè gli autori delle stesse leggi, non occorre il voto della maggioranza degli “aventi diritto”, ossia di “tutti” i cittadini con diritto di voto, ma è sufficiente la maggioranza dei votanti. E’ inutile richiedere la partecipazione di “tutti” gli elettori, se poi tanto chi verrà eletto, stante l’assenza di un vincolo di mandato, potrà legiferare anche contro la volontà di questi ultimi.
Ai sensi dell’art. 1 Cost., “la sovranità appartiene al popolo”, e quindi il referendum abrogativo, se si conclude con la cancellazione della legge, non rischia alcun “ribaltone” da parte del legislatore, poiché quest’ultimo non può reintrodurre la norma abrogata dalla volontà popolare (o, per lo meno, così si ritiene). Pertanto il referendum è un diritto “esclusivamente popolare”. E’ questo il motivo per cui l’esito della consultazione referendaria, proprio perché non è modificabile da parte del legislatore, richiede, ai fini della sua validità, la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto, e cioè di “tutti” i cittadini titolari del voto, ossia della maggioranza del “popolo”, inteso nella sua più vasta accezione.
Tuttavia, è anche opportuno fare le seguenti considerazioni.
• L’art. 138 Cost., nel disciplinare le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, prevede che queste possano essere sottoposte a referendum quando ne fanno richiesta (oltre che 5 Consigli Regionali) anche 500.000. elettori, e stabilisce che “la legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi”.
Vi è, quindi, una disparità di trattamento tra il referendum volto all’abrogazione di una norma di legge statale e quello finalizzato alla cancellazione di una legge costituzionale (o di revisione costituzionale): il quorum deliberativo previsto per il primo è più ampio (maggioranza degli “aventi diritto”) rispetto a quello stabilito per il secondo (“maggioranza dei votanti”).
Questa disparità ha un fondamento giuridico?
La legge costituzionale – così come quella di revisione – è gerarchicamente sovraordinata rispetto alla legge ordinaria, e pertanto dovrebbe richiedere, ai fini della sua eliminazione, un quorum deliberativo più ampio rispetto a quello rappresentato dai “votanti”: maggiore è la rilevanza assunta dalla norma all’interno dell’ordinamento, e più complesso dovrebbe essere l’iter che dovrebbe condurre (in ipotesi) alla sua abrogazione; pertanto, il quorum dovrebbe essere lo stesso previsto per il referendum di abrogazione di una norma statale (per l’appunto, la maggioranza degli “aventi diritto”). Ma così non è.
Di conseguenza, l’art. 75 comma 4, nel prevedere che “la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto”, anziché la maggioranza dei “votanti”, stabilisce un principio del tutto sproporzionato rispetto a quello dettato dall’art. 138 Cost. per la cancellazione di una norma che è di rango superiore a quella ordinaria, sproporzione la quale si traduce nella violazione del principio (costituzionale) di gerarchia delle fonti normative. Per tale ragione, l’art. 75 comma 4 deve essere considerato incostituzionale.
• Il referendum abrogativo è finalizzato alla cancellazione di una legge dall’ordinamento.
Anche le sentenze con cui la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità di una norma, hanno questo effetto.
L’art. 27 della Legge 87/1953 prevede che la Corte, quando sancisce l’illegittimità della legge oggetto del ricorso, “dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata”. La sentenza della Corte giunge all’esito di un ricorso che “un singolo” cittadino ha proposto. Ebbene, gli effetti di tale sentenza – ossia la declaratoria di illegittimità della legge – si estendono anche ad altre norme che sono a quest’ultima collegate e che fino ad oggi sono state applicate contro “altri cittadini”, i quali pertanto adesso possono beneficiare della sentenza stessa – ossia dell’impugnazione fatta da “uno” di loro – per vedersi annullati gli effetti (per essi sfavorevoli) discendenti dalle suddette norme, e ciò pur senza mai aver impugnato queste ultime: infatti, l’effetto estensivo di cui all’art. 27 si produce automaticamente.
Allora il discorso è il seguente: se una norma può essere cancellata dall’ordinamento (effetto estensivo), a beneficio di alcuni cittadini, anche grazie al ricorso proposto da un altro cittadino contro un’altra norma dichiarata incostituzionale, allora dovrebbe valere il principio per cui una norma può essere cancellata dall’ordinamento (referendum abrogativo) grazie al voto espresso da una parte soltanto dei cittadini (ossia “i votanti”), indipendentemente dal “consenso” dei cittadini “aventi diritto al voto”.
• L’art. 123 Cost., nel disciplinare lo Statuto Regionale, stabilisce che questo “è sottoposto a referendum popolare qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione ne faccia richiesta un cinquantesimo degli elettori della Regione o un quinto dei componenti il Consiglio regionale”. Esso precisa che “lo statuto sottoposto a referendum non è promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti validi”.
A differenza di quel che è previsto dall’art. 75 per il referendum abrogativo (maggioranza degli “aventi diritto”), per la validità dell’esito del referendum avente ad oggetto lo Statuto della Regione è sufficiente la partecipazione della maggioranza dei “votanti”.
Vi è, quindi, una disparità di trattamento tra il referendum volto all’abrogazione di una norma di legge statale e quello finalizzato alla cancellazione dello Statuto Regionale: il quorum deliberativo previsto per il primo è più ampio rispetto a quello stabilito per il secondo.
Questa disparità ha un fondamento giuridico?
Sotto il profilo territoriale sì, in quanto la legge statale, avendo come destinataria l’intera comunità di cittadini, deve coerentemente richiedere, ai fini della sua abrogazione, una maggioranza più elevata rispetto a quella prevista per l’eliminazione di una norma – quella regionale – la quale ha effetto solo per una ristretta parte della comunità (ossia per i residenti nel territorio regionale).
Però va anche evidenziato che l’art. 29 della Legge 241/90 – nel prevedere che le norme ivi contenute e relative, tra l’altro, alla partecipazione dei privati al procedimento amministrativo e quindi all’adozione dell’atto provvedimentale, attengono ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili – attribuisce alle Regioni il potere di “prevedere livelli ulteriori di tutela” rispetto a quelli stabiliti dalla stessa Legge.
Ormai le “norme”, ossia le “disposizioni legislative”, vengono poste, in vari settori del diritto, sullo stesso piano delle “disposizioni amministrative”: si pensi al Codice dei Contratti Pubblici (D.lgs. 36/2023), il quale, all’art. 56, prevede che le norme ivi contenute – tra l’altro, tutte ispirate alla tutela della concorrenza e della massima apertura al mercato, principi questi di derivazione comunitaria – non si applicano nel caso di servizi aggiudicati da una stazione appaltante a un ente che sia una stazione appaltante o a un'associazione di stazioni appaltanti in base a un diritto esclusivo di cui esse beneficiano in virtù di disposizioni non soltanto legislative ma anche “amministrative”; oppure si pensi allo Statuto del Contribuente (Legge 212/2000), il quale, all’art. 5, attribuisce a quest’ultimo il diritto ad essere informato dall’Amministrazione Finanziaria in merito alla conoscenza delle disposizioni non soltanto legislative ma anche “amministrative”.
Quindi ormai la parificazione, sotto il profilo dell’efficacia cogente, degli atti amministrativi agli atti normativi, siccome è trasversale a vari settori (peraltro piuttosto rilevanti) del diritto, può essere considerata, in modo pressochè pacifico, uno dei principi generali dell’ordinamento.
Ci si aspetterebbe quindi che lo stesso potere che le Regioni hanno di stabilire a favore del cittadino, in materia di provvedimenti amministrativi, garanzie partecipative “ulteriori” rispetto a quelle rappresentate dalla legge statale, fosse previsto anche per quel che riguarda il quorum deliberativo previsto per il referendum abrogativo dello Statuto Regionale: pertanto, l’art. 123 Cost. dovrebbe prevedere, analogamente a quanto previsto dall’art. 75 comma 4 per il quorum deliberativo del referendum abrogativo di leggi ordinarie, che il voto referendario possa considerarsi valido solo con la partecipazione della maggioranza degli “aventi diritto” (ecco dove starebbe il “livello ulteriore di tutela”), non essendo a tal fine sufficiente la partecipazione della maggioranza dei “votanti” (perché questo rappresenta un “livello inferiore” di garanzia del cittadino).
In sostanza, ci si aspetterebbe che l’art. 123 Cost. si adeguasse a quello che ormai è un principio generale dell’ordinamento, ossia appunto l’equiparazione degli atti amministrativi agli atti normativi.
Invece l’art. 123 Cost. non prevede questo.
Ed allora – questa l’osservazione da fare – se le Regioni possono continuare a ritenere valido, per il referendum abrogativo dello Statuto Regionale, un quorum “meno tutelante” per i cittadini residenti (maggioranza dei votanti), nonostante che esse siano legittimate a prevedere, anche per la partecipazione dei cittadini agli atti normativi (vedi loro equiparazione agli atti amministrativi), forme ulteriori di garanzia, allora anche lo Stato dovrebbe considerarsi legittimato a ritenere valido, per il referendum abrogativo di una “sua” legge, un quorum “meno tutelante” (maggioranza dei votanti) rispetto a quello attuale (maggioranza degli aventi diritto). Se un Ente come la Regione può continuare a ritenere sufficiente – in base all’art. 123 Cost. – un quorum deliberativo ristretto per l’abrogazione dello Statuto Regionale, nonostante che tale Ente sia ormai legittimato dall’ordinamento a stabilire per il cittadino garanzie partecipative maggiori (“ulteriori”) di quelle previste dalla legge statale, allora eguale quorum potrà, a maggior ragione, essere ritenuto sufficiente dallo Stato per l’abrogazione di quelle che sono le “proprie” norme.