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John Dewey: una fede comune per la democrazia e l’umanità

Fleurs dans un vase, gauguin
Fleurs dans un vase, gauguin

Quando si pensa alla filosofia americana, oggi giorno è facile associarvi l’etichetta generale di “filosofia analitica”, inserendola dunque nell’alveo di una tradizione di pensiero che giunge dall’Europa ma che si è insediata soprattutto nei Paesi anglosassoni.

Ma se si risale indietro nel tempo, si incontrerà un tipo di filosofia assai diverso, originale, autoctono, sviluppatasi negli Stati Uniti ma in dialogo continuo con le innovazioni europee, una filosofia nata in America ma di impatto globale.

Se è vero che il pragmatismo americano, questo il nome di tale approccio alla filosofia, non è un movimento coeso ed unitario, è anche vero che vi si può ritrovare una qualche continuità di intuizioni e di temi tra autore ed autore.

Ma non è questo il luogo per delineare una storia del pragmatismo, quanto quello deputato a sviscerare proprio uno di questi temi “pragmatisti”, forse il meno evidente a prima vista, nell’opera di un autore sicuramente tra i più rappresentativi di tale corrente di pensiero.

Il tema della religione e del suo ruolo nella vita umana, già affrontato da William James in una America ancora puritana e a tratti fondamentalista, verrà infatti ripreso da John Dewey nel libro (inizialmente una serie di conferenze) qui analizzato. Intitolato A Common Faith, il libro è la summa di alcuni interventi pubblici del filosofo americano, allora ultrasettantenne, sul tema della “Religione alla luce della scienza e della filosofia”.

Il Dewey filosofo della religione potrà giungere nuovo a chi lo conosce soprattutto come psicologo, logico, filosofo politico, studioso di estetica e riformatore dell’educazione.

Ma leggendo l’opera si capisce bene come tale incursione nel campo degli studi religiosi non è affatto peregrina: la religione si salda in Dewey perfettamente alle questioni politiche e a quelle educative, alla questione più propriamente civile e pubblica, insomma.

A differenza dell’intimismo di James, che si propone di analizzare il rapporto con il sacro tramite l’osservazione dei bisogni individuali di realizzazione e senso, Dewey riporta la discussione sulla scena politica di un Paese religiosamente in crisi, dilaniato dal contrasto tra fondamentalisti e progressisti e alle prese con un pluralismo religioso sempre presente in nuce nella società americana.

Ma, lo preciso fin da subito, Dewey non vuole affatto “salvare” la religione dalla sua crisi indotta dalla modernità, anzi: egli la vuole decisamente accantonare e si mostra assai critico nei confronti dei credi religiosi. Un Dewey dunque caustico, ateo militante, anticlericale e giacobino? Niente affatto.

Pur essendo innegabilmente ostile alle religioni tradizionali e al loro ruolo sociale e politico, egli si impegna (ammirevolmente, a mio avviso) a non riprodurre stanche critiche alla religione, bensì a proporre anche una pars costruens.

In essa, il filosofo pragmatista cercherà di proporre una nuova “fede comune” che prescinda dal sovrannaturale, dalla chiusura dogmatica e dall’eccezionalismo.

L’opera, complessa pur nella sua brevità, è divisa in tre parti: in ognuna di esse si porterà avanti il progetto di questa nuova fede, prendendo le distanze dalla religione ma osservando e trattenendo quanto di positivo in essa si trovi.

La prima sezione dell’opera, intitolata “L’antitesi tra religione e religiosità”, verte sulla distinzione fondamentale tra “sentimento religioso” e “religione”.

Dewey si rifà ad una panoramica sulla storia delle religioni che è messa a disposizione dal fiorire di studi etnologico-antropologici del tempo.

Fin dalle prime pagine emerge infatti la vaghezza del termine “religione”, al di là di ogni intento definitorio: la storia ci documenta ogni possibile forma di culto e di rito, senza alcuna somiglianza tra gli oggetti di culto e le pratiche cultuali.

Dal teismo cristiano al totemismo, dalla meditazione all’orgia sacra, le “religioni” sono difficilmente riconducibili a tratti sostanziali condivisi.

Tuttavia, esse hanno qualcosa in comune: esse mostrano un atteggiamento religioso di fondo. Tale atteggiamento può essere assunto nei confronti di qualunque oggetto, è un modo d’essere soggettivo, non una caratteristica dell’oggetto.

Dewey è però veloce a smarcare la sua posizione da quella di chi, proprio in quegli anni, usava la dicitura “esperienza religiosa” per fini apologetici. Per costoro, tale sentimento è frutto della genuina azione del divino nell’uomo: se pregare Dio dà sentimenti di pace e serenità, ciò è prova della realtà dell’azione divina. Beffardamente, Dewey mostra come tale ragionamento sottenda ciò che si vorrebbe provare e come si applichi persino ad istanze contraddittorie.

Dunque, se il musulmano e il taoista, così come il cattolico e il nativo americano, possono addurre a prova del loro credo l’esperienza religiosa, cosa ne possiamo trarre? Dewey lo spiega chiaramente: che esiste una disposizione totalizzante dell’animo umano verso una unificazione di sé e del mondo in un unico schema unificante.

Grazie all’immaginazione (e qui egli si rifà al Santayana di Interpretations of Poetry and Religion), l’uomo può rendere coese le proprie esperienze e dare loro la possibilità di coagularsi in una visione del mondo coesa. E qui Dewey inizia a smettere i panni del critico delle religioni per assumere quelli, a lui più consoni, di filosofo politico. Perché riservare tale sentimento, così potente, a ideali sovrannaturali e “religiosi”? Non vi sono forse simili spinte emotive e ideali anche presso chi fa riforme politico-sociali, o chi si dà alla filantropia? Ecco dunque i prodromi per una laicizzazione (e politicizzazione) del sentimento religioso.

Ma è opportuno insistere su un aspetto emerso da quanto detto: abbiamo visto come la religiosità unifichi il mondo in un insieme coerente e sensato di fatti ed esperienze.

Spesso, la religione tradizionale avverte tale mondo naturale come ostile e richiede dunque di conseguenza un intervento sovrannaturale per farvi fronte.

Similmente, l’ateo radicale avverte il mondo come ostile all’uomo ma non pensa si possa influenzarne il corso. Un sentimento religioso ma laico si pensa in relazione con il mondo, avverte la propria dipendenza da esso, ma si affida alla propria naturale capacità di interazione con l’ambiente per fare fronte al male. Se una visione pessimista e soprannaturalista vede nel sacro l’unica forza redentrice del mondo, altrimenti condannato, l’ideale deweyano si prospetta un mondo in cui bene o male sono frammisti e modificabili, non metafisicamente dati ma dipendenti dal corso d’azione umana.

Questo tentativo di armonizzarsi con il mondo, ma non in vista di un mondo già dato ma di un mondo migliore, sarà meglio delineato nel successivo capitolo.

Come detto, Dewey si augura una progressiva “morte” del sovrannaturale, elemento non solo estrinseco al sentimento religioso di per sé preso, ma anche dannoso. Infatti, la scienza moderna ha avuto la possibilità di svilupparsi grazie ad un compromesso tra teologia e sapere naturale: il meccanicismo rendeva possibile lo studio dei fenomeni naturali, ma l’uomo rimaneva un mistero e come tale doveva rimanere.

L’autore non concede niente alle tesi concilianti che vedono in sintonia il naturalismo e il misticismo: per il filosofo americano il naturalismo non è un escamotage metodologico ma una visione del mondo olistica. Come tale, essa deve includere anche gli aspetti del mondo che per adesso sono stati sottratti alla indagine scientifica.

La dimensione mistica sembrava un baluardo del religioso in un mondo secolarizzato, ma come nota Dewey, non ci sono argomenti per negare a priori l’indagine scientifica dell’uomo. Una volta liberata la scienza da questi ultimi ostacoli, si potrà sostituire ad un ideale religioso centrato sull’esistenza del sacro un ideale processuale, inesistente nel presente, puramente regolativo, davvero ideale.

Così facendo, si adotterà anche per gli ideali politici e sociali lo stile della scienza: non vi sono obblighi sostanziali ma solo procedure formali condivise, orientate immaginativamente da un ideale condiviso volto a dare una direzione alle nostre azioni nel presente.

Come detto prima, l’atteggiamento di Dewey nei confronti del mondo mira ad un riconoscimento dell’interdipendenza di uomo ed ambiente: a tal proposito il pensatore statunitense non ha problemi a parlare di Dio. In questo caso, esso non è però un’entità sacra esistente.

Tale concezione teista classica riconosce in Dio una realtà ideale ma sostanzialmente esistente, mentre Dewey si concentra su una concezione di Dio assolutamente diversa: per Dewey esso è puramente immaginato, non va ritenuto affatto reale nel tempo presente ma piuttosto un punto di arrivo.

In polemica con gli atei radicali del suo tempo, Dewey mantiene il nome di Dio per designare tale realtà ideale per dare efficacia all’esperienza religiosa e per mettere in luce la sua intima connessione con il mondo, non più lontano, freddo ed ostile, ma qualcosa di costantemente posto in relazione con l’uomo.

Destituita la religione come sovrannaturalismo, di essa rimangono dunque due tematiche fondamentali: prima di tutto una certa tonalità emotiva ed esperienziale, ossia l’esperienza religiosa (caratterizzata da una devozione particolare e da una unificazione biografica del Sè e del mondo) e per seconda cosa una sensazione di profonda connessione con le forze del mondo, non assoggettate tramite il ricorso alla religione ma studiate e comprese tramite l’umana intelligenza. Alla fede sovrannaturale, esistente ma al di là di questo mondo Dewey contrappone una fede immanente, procedurale ed ideale, rivolta al futuro e portata avanti con i mezzi dell’intelligenza naturale umana.

Arrivata al capitolo conclusivo, la trattazione di Dewey entra nel vivo, trattando dell’aspetto del fenomeno religioso più vicino all’interesse teorico dell’autore. Indagando infatti il tema del ruolo sociale della religione, Dewey raggiunge qui la più completa definizione della sua proposta.

L’autore qui è trenchant, diretto: non ci sono stati per le religioni organizzate tradizionali rivolgimenti più incisivi e d’impatto che quelli legati al mutamento del ruolo sociale delle istituzioni religiose. Se la scienza ha fatto molto per mutare le credenze delle persone religiose, essa ha lasciato abbastanza imperturbati gli aspetti centrali delle dottrine religiose. Ma nessun credente può ignorare il fatto che ci siano istituzioni politiche, economiche, educative e sociali che sono animate da intenti e metodologie puramente laici. Anzi, persino il più fondamentalista dei credenti sarà di fatto abituato ad accettare senza problemi che molte istituzioni quotidianamente incontrate non siano animate da una relazione con il sacro.

Nascono insomma dei genuini valori sociali, senza discendenza stretta e diretta dai valori sacrali e religiosi. Anzi, spesso proprio i valori religiosi vengono messi in contrapposizione con i valori sociali, accusando la religione di aver impoverito la vita sociale politica svalutandone per secoli il valore.

E per quanto ci sia chi svaluta ogni valore sociale che non sia legato al sacro, molti teologi liberali e progressisti cercano ora di coniugare la condanna del mondo profano con una sincera attenzione alla dimensione sociale. Dewey è però caustico nei confronti di questi ultimi: considerando quanto i valori sociali laici siano sminuiti implicitamente dalla religione, coniugare impegno democratico e sacralità è come montare due cavalli che corrono in direzioni opposte (immagine dell’autore).

La posizione deweyana si prospetta un netto distacco dai valori sacrali che sacrificano la vita di questo mondo a quella del mondo che verrà. Solo una concezione laica e umanista dei valori potrebbe essere adatta a informare la vita politica e sociale. Entrano qui in gioco le scienze sociali, a cui l’autore dà il compito di smarcare le vicende umane dall’influenza della religione. Quest’ultima ha tutto l’interesse a mantenere imponderabili e misteriose le cause dei fenomeni sociali, mentre un umanesimo naturalizzato avrebbe tutto l’interesse a comprendere scientificamente questa dimensione.

Una volta compresi questi fenomeni, grazie alla spinta ideale di una società migliore, si creerà un mondo più umano, in cui non sarà una realtà trascendente l’unico motore della vita umana.

In conclusione, vorrei tracciare un quadro complessivo della proposta dell’autore.

Scritto quasi ottant’anni fa, Una fede comune è ormai un testo classico, attuale ma datato allo stesso tempo. Un certo entusiasmo per la scienza (in particolare la nascente psicologia e le scienze sociali) sembra a tratti un po’ romanticamente superato. A ciò contribuisce una certa estrinsecità delle metodologie della scienza rispetto alla trattazione dell’autore: la riflessione sulle scienze è lasciata infatti a margine quando si riflette sul loro ruolo sociale.

Ma a parte queste ingenuità (evidentissime quando si tratta delle scienze sociali), la proposta del Dewey filosofo della scienza è fondamentalmente una enorme rivendicazione della centralità del metodo scientifico nella vita umana: il naturalismo di Dewey non può essere più militante, un monito perentorio a chi si lascia andare a facili irenismi nel trattare del rapporto tra scienza e religione.

La scienza per Dewey non è solamente un metodo specifico: essa è un atteggiamento intellettuale più ampio, che va oltre la sfera delle discipline naturali ma che comporta un più ampio concetto della conoscenza umana e del suo rapporto con la vita. La democrazia e la scienza sono in questa sua ottica soltanto due modi di intendere la stessa “comunità di ricerca” di peirciana memoria.

Se da Peirce Dewey adotta la centralità della dimensione collettiva della ricerca, portandola a livello politico, è da James che deriva il fondamentale concetto (mai chiamato così nell’opera deweyana, però) di “migliorismo”. Il migliorismo jamesiano è una spinta emotiva e cognitiva all’approfittare degli aspetti variabili del mondo per mettere in luce altri mondi possibili e attuarli: contro al pessimismo metafisico ed alla sua controparte ottimista, James propone una realtà in cui l’uomo può agire nel mondo per alterarne l’equilibrio tra male e bene.

Il mondo, per tutti i pragmatisti (e per alcuni sviluppi fondamentali della filosofia contemporanea) non è dato una volta per tutte in una costituzione metafisica, bensì è plurale, relazionale ed aperto. Unendo la nozione di comunità di ricerca con quella di migliorismo (e pluralismo), Dewey non solo ci mostra qui la validità della sua proposta, ma ci offre una sintesi preziosa di temi ed argomenti pragmatisti.

Venendo ora al tema centrale dell’opera, osserviamo cosa si può trarre dalla proposta deweyana. La religione che Dewey ha di fronte è una religione di altri tempi, assai diversa da quella odierna: come molti studiosi hanno osservato, le religioni sono sempre più presenti nell’arena pubblica e sempre meno ostili alla vita sociale laica. Tuttavia, alcuni elementi di esse si possono ancora ricondurre alle tendenze criticate nel denso volumetto dell’autore: ancora oggi molti cercano spiegazioni alternative a quelle offerte dalla scienza per il fenomeno umano, quando non per i fenomeni del mondo naturale.

Anche qui, il filosofo statunitense risulta una voce di ammonimento di fronte a chi prontamente separa la sfera scientifica da quella religiosa, ignorando attriti, contatti e zone contese tra le due.

Arriviamo ora al tema più importante tra quelli trattati nell’opera.

Non c’è movimento politico, sociale ed ideologico che non possa beneficiare dalla ricostruzione che Dewey traccia nelle sue conferenze. La nozione di ideale non è vuota o puramente romantica: chiunque conosca l’opera di Dewey sa bene che per il pensatore americano è centrale una concezione sperimentale dell’agire.

La nostra mente deve essere stimolata da una questione per poter dare senso ai fenomeni e formulare domande, reperire strumenti esplicativi e giungere a risposte.

Formulare un ideale vuole quindi dire rendere esplorabili le zone del mondo prima non tematizzate alla luce di una questione nuova.

Si pensi per esempio a quanto la causa femminista abbia stimolato la riflessione sull’oggettività scientifica o sull’uso linguistico, reinterpretati alla luce di un ideale di giustizia che mobilitava completamente le energie delle persone.

La potenza dell’ideale non è dunque psicologica e basta, ma ha valore euristico: essa apre il mondo alla nostra comprensione mostrandoci nuovi schemi interpretativi. Dai future studies ai movimenti sociali, dalla politica alla scienza, la puntuale e profonda disamina che John Dewey qui ci offre del ruolo dell’ideale nella condotta umana è fondamentale per i più svariati settori dell’attività umana.

Pur essendoci elementi datati, a tratti forse un po’ ingenui ad occhi contemporanei, l’opera di Dewey riposa tutta su questa grande conquista intellettuale, ovvero una definizione pratica, operativa dell’idealità. Contro le volgari e semplicistiche distinzioni tra la “teoria” e la “pratica”, gli “idealisti” e le persone concrete, il pensatore americano, e con lui il pragmatismo tutto, ci mostra punti di incontro e terre di confine e porta alla luce proficue influenze reciproche tra il pensare e l’agire.

Letture consigliate:

Rosa M. Calcaterra, Giovanni Maddalena, Giancarlo Marchetti, Il pragmatismo. Dalle origini agli sviluppi contemporanei, Carocci, Roma, 2015

AA.VV., Il pragmatismo, UTET, 1970.

William James, The Variety of Religious Experience, Versione online gratuita disponibile su Project Gutenberg

William James, Pragmatism. A new ways for some old ways of thinking, Versione online gratuita disponibile su Project Gutenberg

John Dewey, Reconstruction in philosophy, Versione online gratuita disponibile su Project Gutenberg

Pierfrancesco Stagi, Storia della filosofia della religione contemporanea, Mimesis, Filosofie, 2019

Anna M. Nieddu, Vinicio Busacchi (a cura di), Pragmatismo ed ermeneutica. Soggettività, storicità, rappresentazione, Mimesis, Milano-Udine, 2019