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La bottega dell’orefice della famiglia

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Abstract

L’Autrice propone una lettura “giuridica” dell’opera di Karol Wojtyla illustrandone la capacità di illuminare il senso dell’istituto familiare.

 

Karol Wojtyla, diventato poi papa Giovanni Paolo II, nel 1960 pubblicò, con lo pseudonimo Andrej Jawien, il testo teatrale “La bottega dell’orefice”, in tre atti sull’amore coniugale: I “I richiami”, sulla coppia di fidanzati; II “Lo sposo”, sulla coppia in crisi; III “I figli”, sulla preparazione del matrimonio dei figli attraverso l’analisi del matrimonio dei genitori. Sarebbe interessante rileggere alcuni brani dell’opera in chiave moderna e giuridica, perché ogni coppia e famiglia è “teatro” e “spettacolo”, qualcosa che si guarda e che, quindi, suscita emozioni e comporta ruoli, dialoghi, monologhi, cambi di scena, improvvisazioni, ripetizioni.

 “[…] non esistevo quasi più per lui. Forse mi tradiva – non so, perché anch’io non mi occupavo più della sua vita. Mi era diventato indifferente. Forse, dopo il lavoro, andava a giocare a carte, dalle bevute tornava molto tardi, senza una parola, e se ne gettava là una rispondevo col silenzio” (da “La bottega dell’orefice”). Descrizione profonda e sempre più attuale della mancata comunicazione nella coppia.

“La vita si trasformava sempre di più nella pesante coesistenza di due che occupavano sempre meno posto uno nell’altro. Ora rimane solo l’insieme dei doveri, un insieme convenzionale e mutevole, sempre più spoglio del puro sapore dell’entusiasmo. E così poco ci unisce, così poco” (da “La bottega dell’orefice”). Descrizione profonda e sempre più attuale della mancata comunione nella vita di coppia (nell’articolo 1 della legge 1° dicembre 1970, n. 898 “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio” si parla di “comunione spirituale e materiale”).

La coppia si costruisce e si costituisce sulla comunicazione e comunione e ogni coppia coniugale trova il proprio codice e il proprio canale concordando l’indirizzo della vita familiare (articolo 144 codice civile) perché quel che rileva è che i coniugi si ritrovino allo “stesso indirizzo di vita” e che siano “colleghi di vita”.

“[…] l’amore è una sintesi di due esistenze che convergono a un certo punto e da due diventano una sola” (da “La bottega dell’orefice”). La vita di coppia non è fusione o confusione ma sintesi, ovvero composizione. Quella composizione che si manifesta nel consenso, dal consenso matrimoniale al consenso al rapporto sessuale.

“Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi” (articolo 16 par. 2 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani). “Consenso”, da “consentire”, sentire insieme, avere lo stesso sentimento, e questo presuppone conoscenza e consapevolezza, innanzitutto di sé per averla poi dell’altro, così il consenso può essere “libero” e “pieno” (libertà e pienezza, quanto di più proprio della persona) e si può fare in modo che continui a essere tale.

“I miei genitori vivono come due esseri estranei, non c’è l’unione di cui si dovrebbe sognare quando si accetta la vita in comune e si vuole anche offrirla. Non sarà un errore, mio caro, non ci passerà presto? Non mi lascerai un bel giorno, come ha fatto mio padre, un estraneo nella nostra casa – o non ti lascerò forse io come ha fatto mia madre, divenuta altrettanto estranea? Può dunque l’amore umano durare quanto la vita di un uomo? Forse l’affetto che mi invade è proprio amore ma sento dentro di me un presagio che viene dal futuro – questa è la paura” (dal III atto de “La bottega dell’orefice”). Sono molte le coppie che vivono con divisione, e non con condivisione, sino all’estraneità, una delle cause che rende “intollerabile la prosecuzione della convivenza” (articolo 151 codice civile).

“L’amore deve essere forse un compromesso? O non deve invece nascere da una lotta continua per l’amore dell’altro?” (da “La bottega dell’orefice”). Amare non è scendere a compromessi, ma ascendere all’altro e insieme verso l’amore. Scendere a compromessi è mettere da parte qualcosa di sé o dell’altro e, alla lunga, ci si inaridisce o inasprisce. Scendere a compromessi è perdere qualcosa sino a perdere se stessi.

Il matrimonio, invece, è prendere l’uno dall’altro e dell’altro.

“Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri” (articolo 143 comma 1 codice civile). Il legislatore della riforma di diritto di famiglia (legge n. 151 del 19 maggio 1975) ha introdotto due verbi significativi, “acquistare” e “assumere”. Stessi diritti e medesimi doveri non significa usare nel rapporto tra coniugi il bilancino dell’orefice, fare le stesse cose e soppesarle (cambiare lo stesso numero di volte il pannolino ai bambini, dare loro il biberon, andare a buttare la busta dei rifiuti,… tra le azioni quotidiane più recriminate), ma significa reciprocità nel rispetto come nell’abbraccio, come nel coito, proprio secondo l’etimologia di “coppia”, che è “copula, legame, congiunzione”. Mentre nel testo previgente dell’articolo 143 codice civile si diceva che “Il matrimonio impone ai coniugi l’obbligo reciproco della…”, nel novellato articolo 143 comma 2 codice civile si legge che “Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla…”: un “flusso” che coinvolge entrambi e un “moto a luogo” dell’uno verso l’altro.

“[…] mi ascoltava ma senza preoccuparsi molto di quello che dicevo. Così il mio rancore è aumentato ancora. Non mi ama più – ho dovuto riconoscere – se non si accorge più della mia tristezza. Non riuscivo a darmi pace e non sapevo come impedire la crepa: (all’inizio i suoi margini si sono fermati ma da un momento all’altro potevano disgiungersi ancora di più – in ogni caso sentivo che ormai non si sarebbero più riaccostati)” (da “La bottega dell’orefice”). Non ascoltare, non accorgersi della sofferenza dell’altro, tacere non è “non far niente di male” ma è non ottemperare all’obbligo coniugale reciproco all’assistenza morale e materiale di cui all’articolo 143 comma 2 codice civile.

“Siamo diventati per loro un varco che devono attraversare con difficoltà per entrare in case nuove – nel rifugio delle loro anime. Sarebbe già molto se non inciampassero. – Viviamo in loro per lungo tempo. Quando crescono in fretta sembra che diventino inaccessibili, impermeabili come l’argilla, ma ormai sono impregnati di noi. E anche se si chiudono esteriormente rimaniamo lo stesso dentro di loro e fa quasi paura il pensarci – la loro vita è come una verifica del nostro operato, di ciò che è stata la nostra sofferenza” (da “La bottega dell’orefice”). Una descrizione della relazione genitori-figli realistica, sempre attuale e ricca di spunti per le varie scienze umane. La genitorialità è il massimo saggio comprovante e corroborante l’adultità: i genitori non devono dare o far di tutto per dare le migliori cose, ma per dare il meglio di sé, perché non esistono genitori perfetti ma devono esistere genitori presenti e persistenti. La legge 10 dicembre 2012, n. 219 “Disposizioni in materia di riconoscimento di figli naturali”, che ha novellato alcune disposizioni del codice civile in materia di genitorialità (denominata “responsabilità genitoriale”) e filiazione, ha introdotto nell’articolo 315 bis un’importante disposizione che vale in ogni situazione familiare: “Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti”.

I genitori, perciò, devono dare ai figli principalmente la possibilità di crescere (avere una loro vita, ricordando che “crescere” ha la stessa radice di “creare”), una famiglia in cui crescere e rapporti significativi con i parenti che sono e siano punti di riferimento durante la crescita. È la traduzione di quanto previsto nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “Riconosciuto che il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione”. Affinché non ci si ritrovi a dire “una prova della spartizione della colpa tra noi due”, come alla fine del poema drammatico.

La famiglia è una vera bottega (etimologicamente “granaio, deposito”) dell’orefice in cui si lavora il materiale più prezioso, la vita, per farne i gioielli più belli, nuove vite di giorno in giorno.