La consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite nella nuova responsabilità medica
Sommario
1. Introduzione
2. Aspetti generali dell’istituto
3. Tecniche e strategie difensive dopo la riforma Gelli-Bianco
4. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
Il tema della responsabilità medica è molto ampio nonostante l’attenzione sia stata a lungo rivolta sulla nuova responsabilità penale e civile dell’esercente la professione sanitaria. Uno degli aspetti della riforma Gelli-Bianco che ha conservato delle peculiarità è rappresentato dalla novità introdotta dall’articolo 8 della legge numero 24 dell’8 marzo 2017. A ben vedere, la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite funge d’ausilio al giudice per il compimento di singoli atti, ove è richiesto una particolare qualifica e conoscenza specifica.
In tale prospettiva assume maggiore rilevanza la frase dell’insigne giurista Piero Calamandrei:«Il C.T.U. è l’occhiale del giudice, colui che lo aiuta a vedere oltre le proprie conoscenze personali». Sul punto il pensiero giuridico non può fare altro che ricollegarsi alla riflessione di un secondo celebre studioso: Francesco Carnelutti, il quale si era speso per una recisa separazione dell’istituto della perizia da quello della prova, in modo da riconfigurare in senso soggettivo l’istituto attorno all’ausiliario del giudice, ovvero il consulente tecnico. Ad ogni modo, appare utile sottolineare che la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (articolo 696 bis del codice di diritto processuale civile) non è l’accertamento tecnico preventivo (articolo 696 del codice di diritto processuale civile), ragion per cui fin da subito occorrerà tenere ben distinti i due istituti nel corso della trattazione del presente contributo.
2. Aspetti generali dell’istituto
Tra le novità apportate in materia di sicurezza delle cure e di responsabilità professionale del personale sanitario si evidenzia sul piano del diritto processuale civile l’opportunità per il danneggiato, in via preliminare, di presentare il ricorso per l’esperimento di una consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (articolo 696 bis del codice di diritto processuale civile). Tale procedura costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento.
In alternativa è fatta salva l’opportunità di procedere con altra procedura conciliativa rappresentata dalla mediazione civile obbligatoria in materia di responsabilità medica, così come regolamentato dal decreto legislativo numero 28 del 4 marzo 2010.
Con l’esperimento del ricorso, di cui all’ articolo 696 bis del codice di diritto processuale civile, viene offerta alle parti la possibilità di fare chiarezza sull’oggetto della domanda, sia sull’an sia sul quantum debeatur, ove il consulente assume un compito particolare e delicato prima dell’inizio della causa di merito. Al riguardo il consulente tecnico d’ufficio (C.T.U.) nominato dal giudice ha non solo il dovere di rispondere ai capitoli di prova nell’ambito della perizia da effettuare, ma deve cercare anche un accordo possibile tra le parti redigendo l’eventuale verbale conciliativo.
Sulle ragioni e generalità dell’istituto appare utile evidenziare che il ricorso 696 bis del codice di diritto processuale civile rappresenta un’opportunità per le parti, le quali potranno avvalersi di tale procedura anche in assenza dello stato di periculum in mora, quale requisito previsto, invece, per l’accertamento tecnico preventivo (A.T.P.), di cui all’articolo 696 del codice di diritto processuale civile, nell’ambito della classica cornice giuridica rappresentata dalla forma d’istruzione anticipata nel diritto processuale comune.
Un’altra peculiarità a favore delle parti si prospetta, nel procedimento di cui all’articolo 696 bis del codice di diritto processuale civile, dall’eventuale accordo da raggiungere che deve essere sottoscritto nel processo verbale di conciliazione curato dal C.T.U. Sul tema si evidenzia l’esenzione dell’imposta di registro e, quindi, un ragguardevole risparmio economico per le parti stesse, le quali otterranno un verbale conciliativo costituente titolo per ogni specie di esecuzione forzata.
Alla luce di quanto sin qui esposto risulta più che manifesta la volontà legislativa apparsa molto fiduciosa verso le Alternative Dispute Resolution (A.D.R.).
A ben vedere, la conoscenza anticipata del futuro e, quindi, il probabile esito della causa di merito faciliterebbe il raggiungimento di un accordo. Tuttavia, giova rilevare che tra i “nemici” della mediazione si materializza l’assoluta mancanza di un danno punitivo nell’ordinamento italiano, anche se, di recente, i giudici di legittimità (Suprema Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza numero 16601 del 5 luglio 2017) hanno dato cittadinanza ai punitive damages pur non aprendo le porte ad un evento epocale, atteso che fanno il loro ingresso mediante una mera rivisitazione del limite posto all’ordine pubblico interno.
Ragion per cui, appare ben lontana l’avvicinamento della nostra tradizione giuridica occidentale di civil law a quella dei Paesi anglosassoni di common law, laddove il concetto di deterrence deve mirare a dissuadere l’individuo dal violare il dovere giuridico. Difatti, una sanzione preventiva che mini, dal punto di vista economico, le risorse del danneggiante nell’illecito civile invoglierebbe quest’ultimo a provare una mediazione con la controparte. In mancanza avremo la recidività della condotta e quindi della violazione.
Di conseguenza l’apertura concettuale ai danni punitivi non appare impossibile in casi specifici in Italia, laddove prevenzione e precauzione devono essere collocate al primo posto permettendo, così, la perfetta riuscita dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie con l’ausilio di un mediatore tra le parti.
In virtù di quanto sin qui argomentato è doveroso rimarcare l’importanza del ruolo del C.T.U. nel procedimento di cui all’articolo 696 bis del codice di diritto processuale civile. Difatti, il consulente tecnico deve informare correttamente le parti sul probabile esito della causa di merito, in modo da poter dissuadere le stesse dal coltivare il giudizio cercando una conciliazione. A tal fine apparirà utile formulare una diagnosi circoscritta e precisa sui risvolti giuridici futuri dovendo, tra l’altro, il C.T.U. prospettare il possibile esito della causa di merito alla luce della perizia che andrà a redigere. Tuttavia anche questo potrebbe non bastare.
A ben guardare, la casistica dimostra come le parti siano divise sulla ricostruzione dei fatti e, pertanto, l’anticipata conoscenza dei risultati dell’istruzione non raggiunge spesso il fine ultimo della conciliazione. Ad ogni buon conto è doveroso precisare che tanto più è complessa la questione giuridica, ancor più difficile risulterà la prospettazione di una futura previsione sull’esito del processo ordinario, già parzialmente istruito.
Le superiori considerazioni consentono una rilettura della procedura che non sempre permette una soluzione concordata della lite, poiché il modus operandi del C.T.U. non può sempre raggiungere come risultato una prognosi precisa della futura decisione di merito da parte del giudice. D’altronde, il consulente tecnico può solo anticipare, secondo la propria porzione d’istruzione, l’esito di un futuro giudizio tra le parti, ove, la relazione peritale (quale risultato ultimo della consulenza tecnica d’ufficio) non può essere qualificata come mezzo di prova in senso proprio, perché la finalità è rappresentata dall’aiutare il magistrato nella valutazione degli elementi acquisiti.
3. Tecniche e strategie difensive dopo la riforma Gelli-Bianco
Come si è affermato in precedenza l’articolo 8 della legge di riforma offre l’opportunità di introitare il giudizio ai sensi dell’articolo 696 bis del codice di diritto processuale civile, ovvero mediante la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite. Tale ricorso è alternativo al decreto legislativo numero 28 del 4 marzo 2010, in quanto è possibile esperire il procedimento di mediazione e, in caso di fallimento del predetto tentativo conciliativo, si potrà introitare il giudizio di cognizione con atto di citazione, di cui all’articolo 163 del codice di diritto processuale civile.
La differenza tra i due procedimenti non è solamente connessa alle spese di giustizia, in quanto se la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite non si conclude entro sei mesi, al fine di salvare gli effetti della domanda sarà necessario esperire il procedimento sommario di cognizione, di cui all’articolo 702 bis del codice di diritto processuale civile, entro il termine perentorio di novanta giorni fissato dal giudice. Inoltre, giova rilevare che la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite si gioca su un doppio binario di responsabilità con la struttura e il medico con due criteri di accertamenti diversi, nel primo caso ai sensi dell’articolo 1218 del codice civile, mentre nel secondo ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile. Di contro, nel giudizio di cognizione la citazione può essere alternativa tra le due parti.
Per quanto concerne, invece, l’esperimento del preliminare tentativo conciliativo previsto dal decreto legislativo numero 28 del 4 marzo 2010, nell’ambito della mediazione civile obbligatoria in materia di responsabilità medica, si è visto arginare l’aumento esponenziale delle controversie che affollano quotidianamente le aule di giustizia, a fronte di un sistema giudiziario lento nella definizione dei processi, nonché inadeguato ad un’economia che dovrebbe essere basata sulla certezza dei traffici commerciali e dei relativi investimenti.
In tale prospettiva, la mediazione civile obbligatoria ha rappresentato il primo baluardo verso la limitazione del contenzioso civile.
Nell’ambito della responsabilità medica il ricorso alla mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale atteggiandosi, pertanto, a condizione di accesso alla tutela giurisdizionale, al pari della consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, così come introdotta dalla riforma Gelli-Bianco.
Sul piano della competenza territoriale si rileva che le istanze di conciliazione devono essere depositate presso un organismo sito nel luogo in cui si trova il giudice territorialmente competente dinanzi al quale, in caso di esito infausto della procedura conciliativa, deve essere incardinata l’eventuale successiva controversia.
Al riguardo la giurisprudenza si è pronunciata, più volte, in merito all’individuazione del foro di competenza, in materia di responsabilità medica, con riferimento alle strutture sanitarie coinvolte. All’uopo agevola operare una dicotomia tra Enti pubblici e privati, poiché nel primo caso il foro competente è rappresentato dal luogo ove ha sede la struttura ospedaliera, mentre nella seconda ipotesi il giudice competente è quello del luogo ove ha la residenza o il domicilio eletto il paziente.
Infine per quanto concerne il valore della domanda di cui è investito il mediatore, quest’ultima risulta, presumibilmente, elevata, laddove una sentenza di condanna per il medico che ha operato negligentemente, in una visione idealmente orientata, può costituire, comunque, un valore sociale tutelato dall’ordinamento giuridico.
Ciò posto, l’esito negativo della procedura conciliativa comporta la successiva riproposizione della domanda in sede giudiziale, dove la scelta del rito deve ricadere, tendenzialmente, sul giudizio ordinario di cognizione da avviare con atto di citazione.
In tale ottica, la scelta del rito sommario di cognizione appare un po’ forzata, qualora si instauri un giudizio dove l’effettivo danno deve essere provato e, pertanto, l’esigenza di una fase istruttoria non può definirsi sommaria nell’ambito dell’accertamento della responsabilità medica. Difatti, si evidenzia come la prova del pregiudizio e la lesione della serenità familiare, nonché le altre sofferenze e voci di danno da provare necessitano di un’ampia fase di accertamento che non può esaurirsi in una mera produzione documentale.
4. Considerazioni conclusive
La prospettazione di alcune riflessioni conclusive sul tema consente una rilettura dell’istituto che non si limita solo ad analizzare le recenti novità introdotte dalla riforma Gelli-Bianco.
A ben vedere, l’allargamento dei comportamenti da inquadrare nell’inadempimento professionale ha avuto il suo fulcro, proprio per ciò che concerne la responsabilità da malpractice medica, con l’aumento esponenziale dell’illecito in maniera non omogenea come per le altre attività autonome.
In primo luogo, non può negarsi che l’attività del medico ha ad oggetto un bene “primario” su cui non solo la Costituzione pone adeguato risalto e tutela, in quanto viene percepito con una forte sensibilità anche nell’opinione collettiva. D’altronde, il bene salute (articolo 32 della Costituzione) ha acquisito un’importanza sociale tale da rendere intollerabile qualsiasi errore compiuto dal professionista.
In secondo luogo deve porsi la dovuta attenzione sulla circostanza che, nell’ambito dell’attività medica, sono definitivamente venute meno le zone d’ombra alimentate nel passato dalla scarsa consapevolezza del cittadino disinformato. La pubblicità, non solo intesa quale fonte conoscitiva, ma definita anche quale pubblicità giuridica degli atti contribuiscono a porre in evidenza l’esatto operato del professionista.
Al riguardo, l’alea connessa all’esercizio della professione non segue, tuttavia, un percorso univoco nell’ambito della responsabilità nell’ars medica rispetto alle altre professioni intellettuali che continuano a godere di forte stima nella collettività. Eppure anche la figura del professionista sanitario riveste un ruolo indispensabile nella vita sociale.
Sarà una coincidenza, ma le grandi trasformazioni giuridiche degli ultimi anni, specie nell’area dell’illecito, vede una diminuzione di quel quid pluris nei riguardi dei professionisti intellettuali, da parte dei cittadini, quasi come un debito di riconoscimento consolidatosi nel tempo nell’immaginario collettivo. Ciò non accade con riferimento alla professione medica. Il dato potrebbe essere riletto come una rivincita del sistema patrimoniale che ha contraddistinto, a lungo, il diritto privato, il cui primato è stato progressivamente eroso dal processo di “depatrimonializzazione” avviato attraverso la rilettura degli istituti civilistici, secondo i valori “nuovi” della Costituzione italiana.
In ogni caso con la riforma Gelli-Bianco la dottrina ha rivolto completamente la sua attenzione sul medico, nell’ambito della nuova qualificazione normativa, dove la responsabilità aquiliana diviene regola generale da applicare. Tale tipizzazione della materia dovrebbe ricomporre la frattura tra la giurisprudenza e il legislatore.