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La pensione di reversibilità: il problema della ripartizione tra coniuge superstite ed ex coniuge divorziato

1. DEFINIZIONE ED INQUADRAMENTO SISTEMATICO DELLA PENSIONE DI REVERSIBILITA’

Il trattamento di pensione ai superstiti può rivestire due forme: quella indiretta, che spetta ai componenti del nucleo familiare alla morte di un lavoratore assicurato, che aveva accumulato, anche in epoche diverse, almeno 15 anni di contribuzione oppure 5 anni di contributi, di cui almeno 3 nel quinquennio precedente la scomparsa; quella di reversibilità se la persona deceduta era già titolare di pensione di anzianità, vecchiaia o inabilità.

La morte del lavoratore pensionato determina per i familiari superstiti il venir meno di una fonte di reddito sulla quale gli stessi avevano potuto fare affidamento fino a quel momento.

Di conseguenza, la legge considera la morte quale evento protetto, cioè quale elemento generatore di un bisogno che viene individuato come socialmente rilevante ed al quale è necessario provvedere con adeguate prestazioni.

La formulazione originaria dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970 disciplinava unicamente, in caso di morte del divorziato, l’ipotesi di concorso fra coniuge superstite ed ex coniuge.

Nel testo modificato dalla legge n. 436 del 1978, pur essendo prevista l’ipotesi di inesistenza di un coniuge superstite avente diritto alla pensione di reversibilità, in nessun caso era attribuito al coniuge divorziato un diritto al trattamento in esame.

La norma non stabiliva alcuna automaticità nell’attribuzione ed il giudice era chiamato a decidere sull’an e sul quantum della pensione di reversibilità per il divorziato, considerando le particolari contingenze del caso concreto e la situazione determinatasi dopo la morte dell’ex coniuge obbligato alla somministrazione dell’assegno.

L’art. 13 della legge n. 74/1987, modificando ulteriormente l’art. 9 della legge n. 898 del 1970, stabilisce che:

“2. In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza.

3. Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal Tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno di cui all’art. 5. Se in tale condizione si trovano più persone, il Tribunale provvede a ripartire fra tutti la pensione e gli altri assegni, nonché a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove nozze.”

Con la riforma del 1987, l’intervento del Tribunale non è più indispensabile per valutare lo stato di bisogno dell’ex coniuge divorziato e diviene solo eventuale, ad esempio in caso di contestazione dei requisiti indicati dalla legge per l’attribuzione della pensione di reversibilità.

In sostanza, il giudice ha soltanto il compito di ripartire correttamente, sulla base del dettato normativo, le quote di pensione.

Ulteriore conseguenza della novella legislativa è l’estensione dell’ambito degli aventi diritto alla pensione di reversibilità con l’introduzione di un nuovo soggetto titolare, il coniuge divorziato, al quale viene applicato, sussistendo determinati presupposti, il trattamento previsto per il coniuge superstite.

Sorge, quindi, in capo all’ex coniuge un diritto autonomo e concorrente in pari grado con quello del coniuge superstite all’unico trattamento di reversibilità.

2. I MAGGIORI PROBLEMI APPLICATIVI

Le questioni diffusamente dibattute riguardano:

a) l’individuazione del fine perseguito dal legislatore nell’attribuire all’ex coniuge divorziato il diritto ad una quota della pensione di reversibilità e la natura di tale diritto;

b) i criteri in base ai quali debba essere effettuata la ripartizione: se è indubbio che la disposizione in esame faccia riferimento alla “durata del rapporto”, è altrettanto palese che non viene specificato se tale elemento di valutazione debba considerarsi esclusivo o possa concorrere con altri; se nella nozione di rapporto si debba far riferimento alla durata legale del matrimonio o alla convivenza effettiva; quali eventuali altri fattori possano essere vagliati dal giudice ed in che modo;

c) il soggetto obbligato al pagamento degli arretrati di reversibilità all’ex coniuge, a seguito della sentenza emanata del giudice ai sensi dell’art. 9, comma 3, della legge n. 898 del 1970, che ridetermina con effetti retroattivi le quote di pensione.

3. IL DIRITTO ALLA PENSIONE DI REVERSIBILITA’ DEL CONIUGE DIVORZIATO

Il fondamento del trattamento di reversibilità si rinviene nella precedente esistenza della comunità familiare e nel reciproco apporto di entrambi i coniugi alla situazione patrimoniale della famiglia.

Da tale assunto di fondo deriva la compartecipazione ai diritti e alle aspettative economiche acquisite dell’altro coniuge.

Il diritto al trattamento, quindi, sorge nel coniuge divorziato in via autonoma, nel momento della morte del pensionato, in forza di un’aspettativa maturata nel corso della vita matrimoniale.

Dottrina e giurisprudenza tendono ad affermarne la natura previdenziale.

Infatti, il beneficiario risulta titolare, senza limitazioni quantitative, a prescindere dalla durata del matrimonio e dall’entità dell’assegno divorzile, qualora il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza di divorzio.

In effetti, non si richiede più alcun giudizio in ordine allo stato di bisogno dell’ex coniuge, essendo lo stesso presunto per effetto della percezione di un assegno divorzile.

Tale assunto viene avvalorato anche dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 159 del 12 gennaio 1998, nella quale si legge che: “…la disposizione in esame attribuisce al coniuge divorziato un diritto che non è la continuazione, mutato il debitore, di quello all’assegno divorzile del quale era titolare nei confronti dell’ex coniuge avanti la sua morte; ma è un autonomo diritto - di natura squisitamente previdenziale - alla pensione di reversibilità collegato automaticamente alla fattispecie legale, di modo che prescinde da ogni pronunzia giurisdizionale che, ove necessaria, ha natura meramente dichiarativa”.

Assai meno pacifica è la natura del diritto in caso di concorso con il coniuge superstite.

Secondo una prima impostazione (Cass., sez. I, sent. n. 7079 del 05-07-1990; Cass., sez. I, sent. n. 2003 del 12-03-1990; Cass., sez. I, sent. n. 1813 del 20-02-1991), esso consisterebbe nella partecipazione ad una quota di un diritto altrui (quello del coniuge superstite, avente natura previdenziale) in quanto mera prosecuzione dell’assegno di divorzio.

Quindi, non avrebbe consistenza di autonomo diritto di natura previdenziale, in ragione dei pregressi rapporti con l’originario titolare del trattamento pensionistico, ma quella di mera prestazione patrimoniale con finalità di carattere assistenziale.

Ciò era particolarmente evidente in base alla pregressa disciplina, che attribuiva – come sottolineato in precedenza – al giudice la discrezionalità della relativa attribuzione.

Del resto, questo risulterebbe anche dalla normativa attuale, la quale prevede tra i presupposti del diritto alla quota della pensione di reversibilità la titolarità dell’assegno divorzile, che, a sua volta, richiede l’assenza di mezzi adeguati.

Tale opinione è stata totalmente contraddetta dalle Sezioni Unite della Cassazione che hanno affermato la natura assolutamente previdenziale del diritto dell’ex coniuge (sentenza n. 159 del 12-01-98), come confermato anche dalla giurisprudenza successiva (Cass., sez. I, 13-06-1998, n. 5926; Cass., sez. I, 28-12-1998, n. 12847; Cass., sez. I, 20-05-1999, n. 4902).

In primo luogo, dato che il criterio legislativo previsto per la ripartizione della pensione fra gli aventi diritto è quello della durata del rapporto matrimoniale, si presuppone che i diritti dei due soggetti concorrenti abbiano la medesima natura.

Inoltre, poiché è indiscussa la natura previdenziale del diritto di credito nel caso di cui al secondo comma dell’art. 9 della l. n. 898 del 1970, come modificato, si osserva che, non riconoscendo la natura previdenziale del credito del coniuge divorziato ex art. 9, comma terzo, si verificherebbe un’irrazionale disparità di trattamento tra coniugi divorziati derivante dalla presenza o dall’assenza del coniuge superstite.

La Corte costituzionale ha espressamente optato per una soluzione intermedia che tiene conto della duplice natura assistenziale e previdenziale dei diritti concorrenti del coniuge superstite e dell’ex coniuge.

Nella sentenza n. 419/1999, infatti, si legge espressamente che “la pensione di reversibilità realizza una funzione solidaristica in una duplice direzione: nei confronti di entrambi gli interessati, consente sia la conservazione di un diritto patrimoniale (di natura previdenziale) collegato al periodo in cui sussisteva il rapporto coniugale di ognuno, sia la prosecuzione del sostentamento garantito (in forma diretta realizzando “una forma di ultrattività della solidarietà coniugale” o tramite assegno divorzile) dal reddito del coniuge deceduto.”

4. I CRITERI DI RIPARTIZIONE

La formulazione dell’articolo 9, comma 3, che contempla esclusivamente “la durata del rapporto”, pone la questione se il legislatore abbia stabilito un unico criterio di giudizio, oppure vi sia lo spazio per una valutazione di più ampio respiro, che tenga conto di altri fattori.

Nel senso dell’unicità del criterio si sono espresse le Sezioni unite con la sentenza n. 159/1998, la cui ampia e complessa motivazione poggia innanzitutto su argomenti di carattere letterale.

Infatti, la disciplina introdotta nel 1987 prevede espressamente un unico criterio e, anche se menziona il presupposto della titolarità dell’assegno divorzile, non fa rinvio agli elementi ex articolo 5, comma 6, svincolando la concreta attribuzione e la misura del trattamento di reversibilità da qualsiasi collegamento con i criteri che sovrintendono al riconoscimento di quell’assegno ed alla determinazione del suo quantum.

Tale soluzione è coerente con la natura prettamente previdenziale del diritto del coniuge divorziato, acquisito in ragione dell’apporto dato al precedente rapporto matrimoniale, a prescindere da un eventuale stato di bisogno.

Inoltre, in questo modo si attua l’intento del legislatore di ancorare la decisione del giudice ad un criterio certo e preciso.

Questo orientamento, seguito da alcune sentenze di legittimità (cfr. ex multis, Cass., sez. I, sent. n. 5926 del 13-06-1998), ha suscitato le perplessità della giurisprudenza di merito, per le conseguenze palesemente inique cui avrebbe potuto condurre.

In effetti, si sarebbe realizzata, da un lato, un’ingiustificata divaricazione dalla regolamentazione della quantificazione dell’assegno di divorzio cui l’attribuzione pensionistica è geneticamente legata e, dall’altro, si sarebbe dovuto prescindere dalle differenti condizioni economiche, anche macroscopiche dei soggetti fra i quali si ripartisce la pensione.

Infatti, l’ex coniuge divorziato, il cui rapporto matrimoniale si sia lungamente protratto, avrebbe avuto diritto alla quasi integralità del trattamento pensionistico, mentre il coniuge superstite, sposatosi poco prima del decesso, pur vertendo in stato di bisogno, non avrebbe potuto contare su un sostegno significativo.

Così la Corte d’appello di Trento, con l’ordinanza di remissione alla Corte costituzionale emessa il 20 ottobre 1998, ha sollevato la questione di legittimità dell’articolo 9, comma 3, della l. n. 898 del 1970 per violazione dei principi di razionalità e solidarietà sociale ex artt. 3 e 38 Cost., nella parte in cui non consente di utilizzare alcun altro criterio, concorrente o correttivo, oltre a quello della “durata del rapporto”.

Con una sentenza interpretativa di rigetto (la citata decisione n. 419/1999), il Giudice delle leggi ha ripudiato la tesi delle Sezioni unite, ritenendo che la ripartizione debba avvenire in base al criterio prevalente della durata del rapporto, opportunamente corretto e mitigato attraverso la considerazione di criteri perequativi, come l’ammontare dell’assegno divorzile e le condizioni economiche delle parti.

Infatti, l’articolo 9, comma 3, impone di tener conto del criterio della durata, ma non esclude correttivi, lasciati alla prudente valutazione del giudice.

Proprio per assicurare questa ponderazione il comma 3, a differenza del comma 2, prevede la necessità della pronuncia giudiziale.

Invero, “la diversa interpretazione, che porta alla ripartizione dell’ammontare della pensione esclusivamente in attuazione di una proporzione matematica, non giustificherebbe, tra l’altro, la scelta del legislatore di investire il tribunale per una statuizione priva di ogni elemento valutativo, potendo la ripartizione secondo quel criterio automatico essere effettuata direttamente dall’ente che eroga la pensione, come avviene in altri casi nei quali la ripartizione fra più soggetti che concorrono al trattamento di reversibilità è stabilita in base ad aliquote fissate direttamente dal legislatore. Del resto, quando il legislatore ha inteso stabilire in modo rigido e automatico i criteri per la determinazione di prestazioni patrimoniali dovute all’ex coniuge, ha usato una diversa espressione testuale, direttamente significativa della percentuale di ripartizione e del periodo da considerare; ciò che avviene, ad esempio, per l’indennità di fine rapporto, ripartita tra il coniuge e l’ex coniuge in una percentuale determinata ed in proporzione agli anni in cui il rapporto di lavoro che vi dà titolo è coinciso con il matrimonio (art. 12-bis della legge n. 898 del 1970)”.

Si evidenzia, dunque, uno sforzo teso a garantire la massima equità nella ripartizione del beneficio, che si traduce in un maggiore potere discrezionale affidato al giudice, che deve adattare elasticamente il criterio temporale-matematico alla casistica che di volta in volta si presenterà.

Tali conclusioni interpretative sono state recepite da numerose pronunce di legittimità (cfr. Cass., sez. I, sent. n. 8113 del 14-06-2000; Cass., sez. I, sent. n. 5060 del 9 marzo 2006; Cass., sez. I, sent. n. 2092 del 31-01-2007; Cass., sez. Lavoro, sent. n. 10669 del 10-05-07), nelle quali viene ribadito il principio illustrato, così che l’applicazione del rigoroso criterio matematico legato al computo della durata del rapporto è stata corretta con il riferimento alle condizioni economiche delle parti, all’ammontare dell’assegno, agli altri criteri ex articolo 5, comma 6, nonché a qualunque elemento della fattispecie concreta che meriti di essere valorizzato per realizzare il fine solidaristico proprio dell’istituto.

Di conseguenza, il giudice di merito potrà considerare anche l’esistenza di un periodo di convivenza prematrimoniale del secondo coniuge con il de cuius, come evidenziato dalla Cassazione con la sentenza n. 18199 del 18-08-2006, nella quale si sottolinea che: “La ripartizione del trattamento di reversibilità, in caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, deve essere effettuata oltre che sulla base del criterio della durata dei rispettivi matrimoni, anche ponderando ulteriori elementi, correlati alla finalità solidaristica che presiede al trattamento di reversibilità, tra i quali va ricompressa la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali; e siccome per convivenza prematrimoniale deve intendersi quella caratterizzata da un grado di stabilità e da comportamenti dei conviventi corrispondenti, in un’effettiva comunione di vita, all’esercizio di diritti e doveri connotato da reciprocità e corrispettività, a essa non può equipararsi il semplice fidanzamento non accompagnato da effettiva convivenza tra i promessi sposi…”.

In tal senso, anche altre recenti sentenze individuano tra gli elementi correttivi del criterio base le situazioni di separazione di fatto antecedenti lo scioglimento del vincolo matrimoniale (cfr., ex multis, Cass., sez. I, sent. n. 23379 del 16-12-2004).

Quindi, l’applicazione ponderata di tali criteri non esclude che al coniuge, il cui rapporto risulti di minor durata, venga assegnata una quota maggiore della pensione di reversibilità.

L’evoluzione interpretativa descritta non può che essere condivisa.

Essa è espressione di un orientamento più razionale rispetto alla pedissequa applicazione del criterio matematico proposta dalle Sezioni Unite del 1998 ed appare idonea sia a considerare ragioni di giustizia sostanziale sia a adeguare la decisione alla particolarità del caso concreto.

5. IL SOGGETTO TENUTO AL PAGAMENTO DEGLI ARRETRATI DI REVERSIBILITA’ ALL’EX CONIUGE

Il provvedimento che accerta il diritto ad una quota della pensione di reversibilità, in favore dell’ex coniuge ed in presenza del coniuge superstite, ha natura costitutiva, ma efficacia ex tunc.

Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza (cfr., ex multis, Cass., cit., sent. n. 2092/2007; Cass., sez. I, sent. n. 15837 del 14-12-2001; Cass., sez. I, sent. n. 6272 del 30-03-2004), considerato che, in base all’art. 9, l. n. 898 del 1970, detta quota ha natura di credito pensionistico, la relativa decorrenza, cui deve uniformarsi il disposto della sentenza che ripartisce tale trattamento, non può non corrispondere alle norme in materia che fanno riferimento al primo giorno del mese successivo a quello del decesso del dante causa.

Ad una simile conclusione non si oppone la natura costitutiva della decisione, sussistendo già al momento del decesso le condizioni che giustificano l’attribuzione della quota di reversibilità.

Prima di tale accertamento, l’ente erogatore – che potrebbe addirittura non essere a conoscenza della stessa esistenza di coniugi divorziati – corrisponde legittimamente l’assegno di reversibilità al coniuge superstite.

Peraltro, posto che gli effetti della sentenza retroagiscono al momento del decesso, si pone il problema del recupero da parte del coniuge divorziato delle somme in precedenza erogate al coniuge superstite ed in particolare del soggetto obbligato a corrisponderle (se l’ente erogatore ovvero il coniuge superstite che ne ha beneficiato).

Secondo un primo orientamento della dottrina e della giurisprudenza, l’ente erogatore, avendo già corrisposto i ratei della pensione in favore del coniuge superstite, non potrebbe essere esposto al rischio di dover duplicare i pagamenti.

Trattandosi dell’attribuzione di una quota del trattamento pensionistico, l’ente non potrebbe considerarla cogente se non in presenza di un provvedimento camerale di natura costitutiva e, quindi, dalla data della sentenza del giudice, mentre gli arretrati dovrebbero essere posti a carico solo del coniuge superstite (cfr. Cass., sez. I, sent. n. 9528 del 12-11-1994).

Secondo tale interpretazione, i rapporti che intercorrono fra coniuge divorziato, coniuge superstite ed ente erogatore sarebbero regolati dall’art. 1189 c.c. Di conseguenza, la restituzione di quanto pagato, nelle more della sentenza, al coniuge superstite andrebbe risolta con il versamento della somma percepita in eccedenza da quest’ultimo al coniuge divorziato.

In realtà, la norma codicistica appena richiamata regola la vicenda del pagamento fatto a chi appariva essere il creditore, ma non lo era.

Nel caso in esame, invece, il coniuge superstite, nel momento in cui riceve il pagamento, non appare essere il creditore, ma è l’unico creditore.

Si tratta di un pagamento legittimamente effettuato in favore del coniuge che risulta essere creditore da parte dell’ente erogatore, che non avrebbe potuto sospendere i pagamenti nei confronti del coniuge superstite, posto che, come affermato dalla costante giurisprudenza più volte richiamata, solo all’esito della pronuncia giudiziale si costituisce in capo al coniuge divorziato il diritto alla quota di reversibilità nella misura da questa stabilita.

Sembra preferibile, quindi, seguire l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “la riferita decorrenza del trattamento di reversibilità, nel caso sopraindicato di concorso del coniuge superstite e del coniuge divorziato, nasce, per entrambi, nei confronti dell’Ente erogatore (Cass. n. 15837/2001, cit), onde a carico soltanto di quest’ultimo, e non anche del coniuge superstite che, nel frattempo, abbia percepito per intero e non pro quota il trattamento di reversibilità corrisposto dall’Ente medesimo, debbono essere posti gli arretrati spettanti al coniuge divorziato, sul trattamento anzidetto in proporzione alla quota riconosciuta dal giudice, a decorrere dal primo giorno del mese successivo a quello del decesso dell’ex coniuge.”

“Solo l’ente previdenziale, del resto, ha titolo per effettuare in modo corretto i conteggi relativi al computo delle somme nello specifico spettanti ai diversi beneficiari in relazione alla vigente normativa e potrà, quindi, recuperare (…) [dal coniuge superstite] le somme versate in eccesso e pagare al (…) [coniuge divorziato] quelle effettivamente spettanti in base alla ripartizione delle quote stabilite dal giudice, salva restando, ovviamente, la facoltà per l’ente previdenziale di recuperare dal coniuge superstite le somme versate in eccesso” (cfr., ex multis, Cass., cit., sent. n. 2092/2007; Cass., sez. I, sent. n. 23862 del 19-09-2008; Cass., sez. Lavoro, sent. n. 25220 del 30-11-2009).

Tale orientamento giurisprudenziale muove dal presupposto che la costituzione o l’intervento in giudizio dell’ente erogatore non integrano un’ipotesi di litisconsorzio necessario – come, invece, stabilito dalla sentenza della Cass., Sez. Lavoro, n. 15111 del 18-07-2005, con la quale la Corte ha ritenuto che “la controversia tra l’ex coniuge e il coniuge superstite per l’accertamento della ripartizione del trattamento di reversibilità deve necessariamente svolgersi in contraddittorio con l’ente erogatore atteso che, essendo il coniuge divorziato, al pari di quello superstite, titolare di un autonomo diritto di natura previdenziale, l’accertamento concerne i presupposti affinché l’ente assuma un’obbligazione autonoma, anche se nell’ambito di un’erogazione già dovuta, nei confronti di un ulteriore soggetto” – e non sono strettamente funzionali ad evitare le temute duplicazioni di pagamento.

Si è rilevato al riguardo che l’unica questione da dirimere sarebbe quella della ripartizione interna tra gli aventi diritto all’unico trattamento pensionistico, con effetti solo riflessi sull’ente, che non avrebbe da contraddire in merito alla concreta applicazione di un criterio di riparto cui è estraneo.

In realtà, ad avviso dello scrivente, l’ente erogatore è parte, in qualità di debitore, di quel rapporto che la sentenza intende modificare; pertanto, la decisione non sembra del tutto indifferente rispetto alle sue posizioni soggettive.

Tale assunto interpretativo si basa sulla considerazione che, per l’ente, non è irrilevante corrispondere la pensione ad un soggetto piuttosto che ad un altro, poiché le caratteristiche soggettive del beneficiario possono incidere sulla durata e, quindi, sull’entità della prestazione.

Occorre, infine, analizzare la questione delle modalità con le quali gli enti erogatori devono soddisfare il diritto del coniuge divorziato a percepire le quote relative al periodo precedente il deposito della pronuncia del giudice.

Qualora la decisione giudiziaria non abbia statuito espressamente in ordine al soggetto tenuto al pagamento degli arretrati, il coniuge divorziato può ottenerli in unica soluzione dall’ente erogatore, che può, quindi, recuperare le somme versate chiedendone la restituzione al coniuge superstite.

La rivalsa dell’ente erogatore, però, può essere condizionata dal lungo lasso di tempo intercorso tra la liquidazione del trattamento pensionistico ed il provvedimento di restituzione, che ingenera nel percipiente il legittimo affidamento di essere il creditore della pensione effettivamente erogata.

Se, invece, la sentenza ha fatto riferimenti a necessari conguagli, tale statuizione legittimerebbe l’ente a trattenere una quota parte dei pagamenti dovuti al coniuge superstite, nei limiti del quinto dell’importo della prestazione pensionistica e a girare tale trattenuta al coniuge divorziato.

Qualora il debitore sia titolare di una pensione di reversibilità il cui importo non consenta il recupero mediante trattenuta sulla prestazione pensionistica, l’ente che procede alla notifica dell’indebito invia la richiesta di pagamento, anche rateale – mediante bollettino di conto corrente o assegno bancario – con l’avvertimento che, scaduto infruttuosamente il termine di 30 giorni, sarà dato corso all’azione legale per la restituzione coattiva delle somme indebitamente percepite.

Nel caso in cui sussistano particolari circostanze relative all’importo dell’indebito, alle condizioni economiche e all’età anagrafica del debitore, il responsabile dell’ente creditore, su richiesta dell’interessato, può concordare con lo stesso un determinato piano di recupero.

Si tratta di una prassi invalsa nelle più recenti circolari dell’Inps riguardanti la restituzione degli indebiti pensionistici che appare applicabile anche agli altri enti erogatori in modo da salvaguardare, da un lato, le dotazioni di bilancio del soggetto obbligato alla corresponsione degli arretrati al coniuge divorziato e, dall’altro, la necessità di tutela dello stato di bisogno del coniuge superstite, percettore in buona fede di somme, superiori a quelle spettanti, che si presume siano destinate al soddisfacimento delle esigenze di vita propria e dei familiari.

Una volta intervenuta la decisione del giudice ai sensi dell’art. 9, comma 3, della legge n. 898 del 1970, invece, il recupero di quanto pagato al coniuge superstite dopo la domanda giudiziale introdotta dal coniuge divorziato è legittimo per l’intero, atteso che, a partire dal momento in cui viene notificato il ricorso, il coniuge superstite è a conoscenza della pendenza di un giudizio che potrebbe condurre con effetti retroattivi alla rideterminazione della sua pensione di reversibilità.

1. DEFINIZIONE ED INQUADRAMENTO SISTEMATICO DELLA PENSIONE DI REVERSIBILITA’

Il trattamento di pensione ai superstiti può rivestire due forme: quella indiretta, che spetta ai componenti del nucleo familiare alla morte di un lavoratore assicurato, che aveva accumulato, anche in epoche diverse, almeno 15 anni di contribuzione oppure 5 anni di contributi, di cui almeno 3 nel quinquennio precedente la scomparsa; quella di reversibilità se la persona deceduta era già titolare di pensione di anzianità, vecchiaia o inabilità.

La morte del lavoratore pensionato determina per i familiari superstiti il venir meno di una fonte di reddito sulla quale gli stessi avevano potuto fare affidamento fino a quel momento.

Di conseguenza, la legge considera la morte quale evento protetto, cioè quale elemento generatore di un bisogno che viene individuato come socialmente rilevante ed al quale è necessario provvedere con adeguate prestazioni.

La formulazione originaria dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970 disciplinava unicamente, in caso di morte del divorziato, l’ipotesi di concorso fra coniuge superstite ed ex coniuge.

Nel testo modificato dalla legge n. 436 del 1978, pur essendo prevista l’ipotesi di inesistenza di un coniuge superstite avente diritto alla pensione di reversibilità, in nessun caso era attribuito al coniuge divorziato un diritto al trattamento in esame.

La norma non stabiliva alcuna automaticità nell’attribuzione ed il giudice era chiamato a decidere sull’an e sul quantum della pensione di reversibilità per il divorziato, considerando le particolari contingenze del caso concreto e la situazione determinatasi dopo la morte dell’ex coniuge obbligato alla somministrazione dell’assegno.

L’art. 13 della legge n. 74/1987, modificando ulteriormente l’art. 9 della legge n. 898 del 1970, stabilisce che:

“2. In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza.

3. Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal Tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno di cui all’art. 5. Se in tale condizione si trovano più persone, il Tribunale provvede a ripartire fra tutti la pensione e gli altri assegni, nonché a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove nozze.”

Con la riforma del 1987, l’intervento del Tribunale non è più indispensabile per valutare lo stato di bisogno dell’ex coniuge divorziato e diviene solo eventuale, ad esempio in caso di contestazione dei requisiti indicati dalla legge per l’attribuzione della pensione di reversibilità.

In sostanza, il giudice ha soltanto il compito di ripartire correttamente, sulla base del dettato normativo, le quote di pensione.

Ulteriore conseguenza della novella legislativa è l’estensione dell’ambito degli aventi diritto alla pensione di reversibilità con l’introduzione di un nuovo soggetto titolare, il coniuge divorziato, al quale viene applicato, sussistendo determinati presupposti, il trattamento previsto per il coniuge superstite.

Sorge, quindi, in capo all’ex coniuge un diritto autonomo e concorrente in pari grado con quello del coniuge superstite all’unico trattamento di reversibilità.

2. I MAGGIORI PROBLEMI APPLICATIVI

Le questioni diffusamente dibattute riguardano:

a) l’individuazione del fine perseguito dal legislatore nell’attribuire all’ex coniuge divorziato il diritto ad una quota della pensione di reversibilità e la natura di tale diritto;

b) i criteri in base ai quali debba essere effettuata la ripartizione: se è indubbio che la disposizione in esame faccia riferimento alla “durata del rapporto”, è altrettanto palese che non viene specificato se tale elemento di valutazione debba considerarsi esclusivo o possa concorrere con altri; se nella nozione di rapporto si debba far riferimento alla durata legale del matrimonio o alla convivenza effettiva; quali eventuali altri fattori possano essere vagliati dal giudice ed in che modo;

c) il soggetto obbligato al pagamento degli arretrati di reversibilità all’ex coniuge, a seguito della sentenza emanata del giudice ai sensi dell’art. 9, comma 3, della legge n. 898 del 1970, che ridetermina con effetti retroattivi le quote di pensione.

3. IL DIRITTO ALLA PENSIONE DI REVERSIBILITA’ DEL CONIUGE DIVORZIATO

Il fondamento del trattamento di reversibilità si rinviene nella precedente esistenza della comunità familiare e nel reciproco apporto di entrambi i coniugi alla situazione patrimoniale della famiglia.

Da tale assunto di fondo deriva la compartecipazione ai diritti e alle aspettative economiche acquisite dell’altro coniuge.

Il diritto al trattamento, quindi, sorge nel coniuge divorziato in via autonoma, nel momento della morte del pensionato, in forza di un’aspettativa maturata nel corso della vita matrimoniale.

Dottrina e giurisprudenza tendono ad affermarne la natura previdenziale.

Infatti, il beneficiario risulta titolare, senza limitazioni quantitative, a prescindere dalla durata del matrimonio e dall’entità dell’assegno divorzile, qualora il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza di divorzio.

In effetti, non si richiede più alcun giudizio in ordine allo stato di bisogno dell’ex coniuge, essendo lo stesso presunto per effetto della percezione di un assegno divorzile.

Tale assunto viene avvalorato anche dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 159 del 12 gennaio 1998, nella quale si legge che: “…la disposizione in esame attribuisce al coniuge divorziato un diritto che non è la continuazione, mutato il debitore, di quello all’assegno divorzile del quale era titolare nei confronti dell’ex coniuge avanti la sua morte; ma è un autonomo diritto - di natura squisitamente previdenziale - alla pensione di reversibilità collegato automaticamente alla fattispecie legale, di modo che prescinde da ogni pronunzia giurisdizionale che, ove necessaria, ha natura meramente dichiarativa”.

Assai meno pacifica è la natura del diritto in caso di concorso con il coniuge superstite.

Secondo una prima impostazione (Cass., sez. I, sent. n. 7079 del 05-07-1990; Cass., sez. I, sent. n. 2003 del 12-03-1990; Cass., sez. I, sent. n. 1813 del 20-02-1991), esso consisterebbe nella partecipazione ad una quota di un diritto altrui (quello del coniuge superstite, avente natura previdenziale) in quanto mera prosecuzione dell’assegno di divorzio.

Quindi, non avrebbe consistenza di autonomo diritto di natura previdenziale, in ragione dei pregressi rapporti con l’originario titolare del trattamento pensionistico, ma quella di mera prestazione patrimoniale con finalità di carattere assistenziale.

Ciò era particolarmente evidente in base alla pregressa disciplina, che attribuiva – come sottolineato in precedenza – al giudice la discrezionalità della relativa attribuzione.

Del resto, questo risulterebbe anche dalla normativa attuale, la quale prevede tra i presupposti del diritto alla quota della pensione di reversibilità la titolarità dell’assegno divorzile, che, a sua volta, richiede l’assenza di mezzi adeguati.

Tale opinione è stata totalmente contraddetta dalle Sezioni Unite della Cassazione che hanno affermato la natura assolutamente previdenziale del diritto dell’ex coniuge (sentenza n. 159 del 12-01-98), come confermato anche dalla giurisprudenza successiva (Cass., sez. I, 13-06-1998, n. 5926; Cass., sez. I, 28-12-1998, n. 12847; Cass., sez. I, 20-05-1999, n. 4902).

In primo luogo, dato che il criterio legislativo previsto per la ripartizione della pensione fra gli aventi diritto è quello della durata del rapporto matrimoniale, si presuppone che i diritti dei due soggetti concorrenti abbiano la medesima natura.

Inoltre, poiché è indiscussa la natura previdenziale del diritto di credito nel caso di cui al secondo comma dell’art. 9 della l. n. 898 del 1970, come modificato, si osserva che, non riconoscendo la natura previdenziale del credito del coniuge divorziato ex art. 9, comma terzo, si verificherebbe un’irrazionale disparità di trattamento tra coniugi divorziati derivante dalla presenza o dall’assenza del coniuge superstite.

La Corte costituzionale ha espressamente optato per una soluzione intermedia che tiene conto della duplice natura assistenziale e previdenziale dei diritti concorrenti del coniuge superstite e dell’ex coniuge.

Nella sentenza n. 419/1999, infatti, si legge espressamente che “la pensione di reversibilità realizza una funzione solidaristica in una duplice direzione: nei confronti di entrambi gli interessati, consente sia la conservazione di un diritto patrimoniale (di natura previdenziale) collegato al periodo in cui sussisteva il rapporto coniugale di ognuno, sia la prosecuzione del sostentamento garantito (in forma diretta realizzando “una forma di ultrattività della solidarietà coniugale” o tramite assegno divorzile) dal reddito del coniuge deceduto.”

4. I CRITERI DI RIPARTIZIONE

La formulazione dell’articolo 9, comma 3, che contempla esclusivamente “la durata del rapporto”, pone la questione se il legislatore abbia stabilito un unico criterio di giudizio, oppure vi sia lo spazio per una valutazione di più ampio respiro, che tenga conto di altri fattori.

Nel senso dell’unicità del criterio si sono espresse le Sezioni unite con la sentenza n. 159/1998, la cui ampia e complessa motivazione poggia innanzitutto su argomenti di carattere letterale.

Infatti, la disciplina introdotta nel 1987 prevede espressamente un unico criterio e, anche se menziona il presupposto della titolarità dell’assegno divorzile, non fa rinvio agli elementi ex articolo 5, comma 6, svincolando la concreta attribuzione e la misura del trattamento di reversibilità da qualsiasi collegamento con i criteri che sovrintendono al riconoscimento di quell’assegno ed alla determinazione del suo quantum.

Tale soluzione è coerente con la natura prettamente previdenziale del diritto del coniuge divorziato, acquisito in ragione dell’apporto dato al precedente rapporto matrimoniale, a prescindere da un eventuale stato di bisogno.

Inoltre, in questo modo si attua l’intento del legislatore di ancorare la decisione del giudice ad un criterio certo e preciso.

Questo orientamento, seguito da alcune sentenze di legittimità (cfr. ex multis, Cass., sez. I, sent. n. 5926 del 13-06-1998), ha suscitato le perplessità della giurisprudenza di merito, per le conseguenze palesemente inique cui avrebbe potuto condurre.

In effetti, si sarebbe realizzata, da un lato, un’ingiustificata divaricazione dalla regolamentazione della quantificazione dell’assegno di divorzio cui l’attribuzione pensionistica è geneticamente legata e, dall’altro, si sarebbe dovuto prescindere dalle differenti condizioni economiche, anche macroscopiche dei soggetti fra i quali si ripartisce la pensione.

Infatti, l’ex coniuge divorziato, il cui rapporto matrimoniale si sia lungamente protratto, avrebbe avuto diritto alla quasi integralità del trattamento pensionistico, mentre il coniuge superstite, sposatosi poco prima del decesso, pur vertendo in stato di bisogno, non avrebbe potuto contare su un sostegno significativo.

Così la Corte d’appello di Trento, con l’ordinanza di remissione alla Corte costituzionale emessa il 20 ottobre 1998, ha sollevato la questione di legittimità dell’articolo 9, comma 3, della l. n. 898 del 1970 per violazione dei principi di razionalità e solidarietà sociale ex artt. 3 e 38 Cost., nella parte in cui non consente di utilizzare alcun altro criterio, concorrente o correttivo, oltre a quello della “durata del rapporto”.

Con una sentenza interpretativa di rigetto (la citata decisione n. 419/1999), il Giudice delle leggi ha ripudiato la tesi delle Sezioni unite, ritenendo che la ripartizione debba avvenire in base al criterio prevalente della durata del rapporto, opportunamente corretto e mitigato attraverso la considerazione di criteri perequativi, come l’ammontare dell’assegno divorzile e le condizioni economiche delle parti.

Infatti, l’articolo 9, comma 3, impone di tener conto del criterio della durata, ma non esclude correttivi, lasciati alla prudente valutazione del giudice.

Proprio per assicurare questa ponderazione il comma 3, a differenza del comma 2, prevede la necessità della pronuncia giudiziale.

Invero, “la diversa interpretazione, che porta alla ripartizione dell’ammontare della pensione esclusivamente in attuazione di una proporzione matematica, non giustificherebbe, tra l’altro, la scelta del legislatore di investire il tribunale per una statuizione priva di ogni elemento valutativo, potendo la ripartizione secondo quel criterio automatico essere effettuata direttamente dall’ente che eroga la pensione, come avviene in altri casi nei quali la ripartizione fra più soggetti che concorrono al trattamento di reversibilità è stabilita in base ad aliquote fissate direttamente dal legislatore. Del resto, quando il legislatore ha inteso stabilire in modo rigido e automatico i criteri per la determinazione di prestazioni patrimoniali dovute all’ex coniuge, ha usato una diversa espressione testuale, direttamente significativa della percentuale di ripartizione e del periodo da considerare; ciò che avviene, ad esempio, per l’indennità di fine rapporto, ripartita tra il coniuge e l’ex coniuge in una percentuale determinata ed in proporzione agli anni in cui il rapporto di lavoro che vi dà titolo è coinciso con il matrimonio (art. 12-bis della legge n. 898 del 1970)”.

Si evidenzia, dunque, uno sforzo teso a garantire la massima equità nella ripartizione del beneficio, che si traduce in un maggiore potere discrezionale affidato al giudice, che deve adattare elasticamente il criterio temporale-matematico alla casistica che di volta in volta si presenterà.

Tali conclusioni interpretative sono state recepite da numerose pronunce di legittimità (cfr. Cass., sez. I, sent. n. 8113 del 14-06-2000; Cass., sez. I, sent. n. 5060 del 9 marzo 2006; Cass., sez. I, sent. n. 2092 del 31-01-2007; Cass., sez. Lavoro, sent. n. 10669 del 10-05-07), nelle quali viene ribadito il principio illustrato, così che l’applicazione del rigoroso criterio matematico legato al computo della durata del rapporto è stata corretta con il riferimento alle condizioni economiche delle parti, all’ammontare dell’assegno, agli altri criteri ex articolo 5, comma 6, nonché a qualunque elemento della fattispecie concreta che meriti di essere valorizzato per realizzare il fine solidaristico proprio dell’istituto.

Di conseguenza, il giudice di merito potrà considerare anche l’esistenza di un periodo di convivenza prematrimoniale del secondo coniuge con il de cuius, come evidenziato dalla Cassazione con la sentenza n. 18199 del 18-08-2006, nella quale si sottolinea che: “La ripartizione del trattamento di reversibilità, in caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, deve essere effettuata oltre che sulla base del criterio della durata dei rispettivi matrimoni, anche ponderando ulteriori elementi, correlati alla finalità solidaristica che presiede al trattamento di reversibilità, tra i quali va ricompressa la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali; e siccome per convivenza prematrimoniale deve intendersi quella caratterizzata da un grado di stabilità e da comportamenti dei conviventi corrispondenti, in un’effettiva comunione di vita, all’esercizio di diritti e doveri connotato da reciprocità e corrispettività, a essa non può equipararsi il semplice fidanzamento non accompagnato da effettiva convivenza tra i promessi sposi…”.

In tal senso, anche altre recenti sentenze individuano tra gli elementi correttivi del criterio base le situazioni di separazione di fatto antecedenti lo scioglimento del vincolo matrimoniale (cfr., ex multis, Cass., sez. I, sent. n. 23379 del 16-12-2004).

Quindi, l’applicazione ponderata di tali criteri non esclude che al coniuge, il cui rapporto risulti di minor durata, venga assegnata una quota maggiore della pensione di reversibilità.

L’evoluzione interpretativa descritta non può che essere condivisa.

Essa è espressione di un orientamento più razionale rispetto alla pedissequa applicazione del criterio matematico proposta dalle Sezioni Unite del 1998 ed appare idonea sia a considerare ragioni di giustizia sostanziale sia a adeguare la decisione alla particolarità del caso concreto.

5. IL SOGGETTO TENUTO AL PAGAMENTO DEGLI ARRETRATI DI REVERSIBILITA’ ALL’EX CONIUGE

Il provvedimento che accerta il diritto ad una quota della pensione di reversibilità, in favore dell’ex coniuge ed in presenza del coniuge superstite, ha natura costitutiva, ma efficacia ex tunc.

Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza (cfr., ex multis, Cass., cit., sent. n. 2092/2007; Cass., sez. I, sent. n. 15837 del 14-12-2001; Cass., sez. I, sent. n. 6272 del 30-03-2004), considerato che, in base all’art. 9, l. n. 898 del 1970, detta quota ha natura di credito pensionistico, la relativa decorrenza, cui deve uniformarsi il disposto della sentenza che ripartisce tale trattamento, non può non corrispondere alle norme in materia che fanno riferimento al primo giorno del mese successivo a quello del decesso del dante causa.

Ad una simile conclusione non si oppone la natura costitutiva della decisione, sussistendo già al momento del decesso le condizioni che giustificano l’attribuzione della quota di reversibilità.

Prima di tale accertamento, l’ente erogatore – che potrebbe addirittura non essere a conoscenza della stessa esistenza di coniugi divorziati – corrisponde legittimamente l’assegno di reversibilità al coniuge superstite.

Peraltro, posto che gli effetti della sentenza retroagiscono al momento del decesso, si pone il problema del recupero da parte del coniuge divorziato delle somme in precedenza erogate al coniuge superstite ed in particolare del soggetto obbligato a corrisponderle (se l’ente erogatore ovvero il coniuge superstite che ne ha beneficiato).

Secondo un primo orientamento della dottrina e della giurisprudenza, l’ente erogatore, avendo già corrisposto i ratei della pensione in favore del coniuge superstite, non potrebbe essere esposto al rischio di dover duplicare i pagamenti.

Trattandosi dell’attribuzione di una quota del trattamento pensionistico, l’ente non potrebbe considerarla cogente se non in presenza di un provvedimento camerale di natura costitutiva e, quindi, dalla data della sentenza del giudice, mentre gli arretrati dovrebbero essere posti a carico solo del coniuge superstite (cfr. Cass., sez. I, sent. n. 9528 del 12-11-1994).

Secondo tale interpretazione, i rapporti che intercorrono fra coniuge divorziato, coniuge superstite ed ente erogatore sarebbero regolati dall’art. 1189 c.c. Di conseguenza, la restituzione di quanto pagato, nelle more della sentenza, al coniuge superstite andrebbe risolta con il versamento della somma percepita in eccedenza da quest’ultimo al coniuge divorziato.

In realtà, la norma codicistica appena richiamata regola la vicenda del pagamento fatto a chi appariva essere il creditore, ma non lo era.

Nel caso in esame, invece, il coniuge superstite, nel momento in cui riceve il pagamento, non appare essere il creditore, ma è l’unico creditore.

Si tratta di un pagamento legittimamente effettuato in favore del coniuge che risulta essere creditore da parte dell’ente erogatore, che non avrebbe potuto sospendere i pagamenti nei confronti del coniuge superstite, posto che, come affermato dalla costante giurisprudenza più volte richiamata, solo all’esito della pronuncia giudiziale si costituisce in capo al coniuge divorziato il diritto alla quota di reversibilità nella misura da questa stabilita.

Sembra preferibile, quindi, seguire l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “la riferita decorrenza del trattamento di reversibilità, nel caso sopraindicato di concorso del coniuge superstite e del coniuge divorziato, nasce, per entrambi, nei confronti dell’Ente erogatore (Cass. n. 15837/2001, cit), onde a carico soltanto di quest’ultimo, e non anche del coniuge superstite che, nel frattempo, abbia percepito per intero e non pro quota il trattamento di reversibilità corrisposto dall’Ente medesimo, debbono essere posti gli arretrati spettanti al coniuge divorziato, sul trattamento anzidetto in proporzione alla quota riconosciuta dal giudice, a decorrere dal primo giorno del mese successivo a quello del decesso dell’ex coniuge.”

“Solo l’ente previdenziale, del resto, ha titolo per effettuare in modo corretto i conteggi relativi al computo delle somme nello specifico spettanti ai diversi beneficiari in relazione alla vigente normativa e potrà, quindi, recuperare (…) [dal coniuge superstite] le somme versate in eccesso e pagare al (…) [coniuge divorziato] quelle effettivamente spettanti in base alla ripartizione delle quote stabilite dal giudice, salva restando, ovviamente, la facoltà per l’ente previdenziale di recuperare dal coniuge superstite le somme versate in eccesso” (cfr., ex multis, Cass., cit., sent. n. 2092/2007; Cass., sez. I, sent. n. 23862 del 19-09-2008; Cass., sez. Lavoro, sent. n. 25220 del 30-11-2009).

Tale orientamento giurisprudenziale muove dal presupposto che la costituzione o l’intervento in giudizio dell’ente erogatore non integrano un’ipotesi di litisconsorzio necessario – come, invece, stabilito dalla sentenza della Cass., Sez. Lavoro, n. 15111 del 18-07-2005, con la quale la Corte ha ritenuto che “la controversia tra l’ex coniuge e il coniuge superstite per l’accertamento della ripartizione del trattamento di reversibilità deve necessariamente svolgersi in contraddittorio con l’ente erogatore atteso che, essendo il coniuge divorziato, al pari di quello superstite, titolare di un autonomo diritto di natura previdenziale, l’accertamento concerne i presupposti affinché l’ente assuma un’obbligazione autonoma, anche se nell’ambito di un’erogazione già dovuta, nei confronti di un ulteriore soggetto” – e non sono strettamente funzionali ad evitare le temute duplicazioni di pagamento.

Si è rilevato al riguardo che l’unica questione da dirimere sarebbe quella della ripartizione interna tra gli aventi diritto all’unico trattamento pensionistico, con effetti solo riflessi sull’ente, che non avrebbe da contraddire in merito alla concreta applicazione di un criterio di riparto cui è estraneo.

In realtà, ad avviso dello scrivente, l’ente erogatore è parte, in qualità di debitore, di quel rapporto che la sentenza intende modificare; pertanto, la decisione non sembra del tutto indifferente rispetto alle sue posizioni soggettive.

Tale assunto interpretativo si basa sulla considerazione che, per l’ente, non è irrilevante corrispondere la pensione ad un soggetto piuttosto che ad un altro, poiché le caratteristiche soggettive del beneficiario possono incidere sulla durata e, quindi, sull’entità della prestazione.

Occorre, infine, analizzare la questione delle modalità con le quali gli enti erogatori devono soddisfare il diritto del coniuge divorziato a percepire le quote relative al periodo precedente il deposito della pronuncia del giudice.

Qualora la decisione giudiziaria non abbia statuito espressamente in ordine al soggetto tenuto al pagamento degli arretrati, il coniuge divorziato può ottenerli in unica soluzione dall’ente erogatore, che può, quindi, recuperare le somme versate chiedendone la restituzione al coniuge superstite.

La rivalsa dell’ente erogatore, però, può essere condizionata dal lungo lasso di tempo intercorso tra la liquidazione del trattamento pensionistico ed il provvedimento di restituzione, che ingenera nel percipiente il legittimo affidamento di essere il creditore della pensione effettivamente erogata.

Se, invece, la sentenza ha fatto riferimenti a necessari conguagli, tale statuizione legittimerebbe l’ente a trattenere una quota parte dei pagamenti dovuti al coniuge superstite, nei limiti del quinto dell’importo della prestazione pensionistica e a girare tale trattenuta al coniuge divorziato.

Qualora il debitore sia titolare di una pensione di reversibilità il cui importo non consenta il recupero mediante trattenuta sulla prestazione pensionistica, l’ente che procede alla notifica dell’indebito invia la richiesta di pagamento, anche rateale – mediante bollettino di conto corrente o assegno bancario – con l’avvertimento che, scaduto infruttuosamente il termine di 30 giorni, sarà dato corso all’azione legale per la restituzione coattiva delle somme indebitamente percepite.

Nel caso in cui sussistano particolari circostanze relative all’importo dell’indebito, alle condizioni economiche e all’età anagrafica del debitore, il responsabile dell’ente creditore, su richiesta dell’interessato, può concordare con lo stesso un determinato piano di recupero.

Si tratta di una prassi invalsa nelle più recenti circolari dell’Inps riguardanti la restituzione degli indebiti pensionistici che appare applicabile anche agli altri enti erogatori in modo da salvaguardare, da un lato, le dotazioni di bilancio del soggetto obbligato alla corresponsione degli arretrati al coniuge divorziato e, dall’altro, la necessità di tutela dello stato di bisogno del coniuge superstite, percettore in buona fede di somme, superiori a quelle spettanti, che si presume siano destinate al soddisfacimento delle esigenze di vita propria e dei familiari.

Una volta intervenuta la decisione del giudice ai sensi dell’art. 9, comma 3, della legge n. 898 del 1970, invece, il recupero di quanto pagato al coniuge superstite dopo la domanda giudiziale introdotta dal coniuge divorziato è legittimo per l’intero, atteso che, a partire dal momento in cui viene notificato il ricorso, il coniuge superstite è a conoscenza della pendenza di un giudizio che potrebbe condurre con effetti retroattivi alla rideterminazione della sua pensione di reversibilità.