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La responsabilità del contagio da HIV del coniuge: colpa con previsione o dolo eventuale?

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Quinta Penale, Sentenza 16 aprile 2012, n. 38388

1. Le massime

Ricorre colpa cosciente allorché il soggetto, pur rappresentandosi l’evento a rischio come possibile risultato della sua condotta, agisca confidando che detto evento potrebbe anche non avvenire ed escludendo che dalla sua condotta possano derivare conseguenze dannose.

Sussiste l’elemento psicologico del dolo eventuale quando l’agente, pur non avendo di mira il fatto a rischio, abbia accettato – nella proiezione della propria azione verso la realizzazione di un fatto primario – la concreta possibilità del suo verificarsi, in un necessario rapporto eziologico con l’azione medesima: una simile accettazione importa che l’autore non respinga il manifestarsi del rischio e non adegui la propria condotta in maniera coerente e funzionale a manifestare una controvolontà verso l’evento diverso rispetto a quello primariamente voluto (nella specie, la Corte ritiene sussistere il dolo eventuale nella condotta lesiva del marito che, nonostante sapesse di essere sieropositivo, non soltanto seguitava a consumare rapporti sessuali non protetti con la moglie, tenuta all’oscuro dell’infezione nel timore che il metterla al corrente avrebbe causato la compromissione del loro matrimonio, ma impediva alla stessa – a contagio avvenuto – di curarsi adeguatamente, ritardando, con la propria condotta, sia la diagnosi sia la terapia, così determinando un complessivo aggravamento delle condizioni di salute della consorte).

2. Il caso

Tizio veniva condannato dal Tribunale di Velletri in quanto ritenuto responsabile del reato di lesioni personali, aggravato dal rapporto di coniugio con la persona offesa, nonché dal fatto che dalla condotta criminosa fosse derivata una malattia tale da mettere a repentaglio la vita della vittima Caia, cui egli aveva trasmesso il virus della immunodeficienza mediante rapporti sessuali consumati senza precauzione, nella consapevolezza di essere affetto da HIV, così provocando alla moglie una malattia, probabilmente insanabile, con pericolo di vita.

La Corte di Appello capitolina, in riforma della sentenza del Tribunale di Velletri, assolveva Tizio perché il fatto non costituisce reato, ritenendo il difetto di prova circa il fatto che il contagio di Caia fosse avvenuto con rapporti sessuali consumati in epoca successiva rispetto alla data di comunicazione della diagnosi a Tizio. Il giudice di seconde cure riteneva che non vi fosse prova che l’imputato nutrisse motivi di ragionevole sospetto che i sintomi manifestatisi prima del suo ricovero potessero dipendere da infezione da HIV e che, quindi, quale portatore dell’infezione, egli potesse essere veicolo di contagio. Tale assunto veniva suffragato dalla Corte grazie alle risultanze della perizia espletata, secondo cui le manifestazioni dell’infezione prendono forma in sintomi di allarmante significatività soltanto con ampio ritardo rispetto all’insorgere dell’infezione.

Avverso la sentenza di appello, proponeva ricorso per cassazione la procura generale presso la Corte di Appello di Roma, deducendone difetto di motivazione in relazione alla contestazione mossa a Tizio non soltanto di avere contagiato Caia con la propria condotta omissiva, bensì anche di averle impedito con mezzi fraudolenti il tempestivo ricorso a terapie specifiche, le quali avrebbero impedito l’aggravarsi del suo complessivo stato di salute.

3. La decisione

Il supremo collegio accoglie le tesi spiegate dalla procura generale, valorizzando quanto emerso nel corso della fase di merito: a) durante il periodo trascorso in ospedale Tizio aveva impedito alla moglie di conoscere la vera ragione del proprio ricovero, adducendo a pretesto che i sanitari potevano comunicare esclusivamente con il paziente; b) dopo le dimissioni, l’imputato assumeva farmaci in confezioni private dell’etichetta, dichiarando alla moglie che si trattava di cortisone; c) ai primi sintomi di Caia, oltre ad opporsi al ricovero di lei in ospedale, la accompagnava dal medico di famiglia, riferendo al sanitario che la donna era semplicemente depressa e che ad una banale depressione fossero riconducibili i sintomi da lei accusati. Soltanto l’intervento di altro medico, richiesto dalla madre di Caia, consentiva a quest’ultima di ricoverarsi e di ottenere la corretta diagnosi.

Tutta la condotta successiva al contagio, a giudizio della corte, è stata erroneamente ritenuta irrilevante sol perché successiva al contagio: ciò ha comportato che le menzogne, gli artifici, i raggiri posti in essere da Tizio non siano stati tenuti nella dovuta considerazione ai fini della decisione. Difatti, rileva la Corte, al primo evento – costituito dal contagio da HIV – da imputarsi all’iniziale condotta omissiva dell’imputato, è seguito, in danno della moglie, l’evento ulteriore costituito dal peggioramento delle sue condizioni di salute e dal pericolo di vita, accertato all’atto del ricovero in ospedale e causato anch’esso dall’inscindibile complesso di condotte omissive e fraudolente poste in essere da Tizio.

La Corte evidenzia come sia ravvisabile nella specie un unico processo causativo originato dalla condotta di Tizio, cui ha messo capo il verificarsi del contagio e dell’insanabile aggravamento delle condizioni di salute di Caia. Tizio ha posto in essere una condotta ove sono ravvisabili due momenti: I) l’uno omissivo, consistito nella mancata comunicazione alla donna della propria malattia e del rischio del contagio; II) l’altro ostativo, in relazione all’impedimento – con menzogne, artifici, simulazioni – di tempestiva predisposizione di interventi di cura volti a scongiurare il peggioramento della malattia.

Il giudice di appello, errando, ha valorizzato soltanto il primo momento, omettendo di dare il dovuto risalto al secondo.

Ove ci si fermasse alla sola considerazione del momento omissivo, quello causativo del contagio, a giudizio della Suprema Corte, TIzio risponderebbe di lesioni personali aggravate dalla previsione dell’evento, in quanto l’imputato – pur rappresentandosi l’evento a rischio come possibile risultato della sua condotta – ha agito confidando che il contagio avrebbe potuto anche non avvenire ed ha escluso che la salute della moglie potesse subire dei danni. A sostegno di una simile tesi milita anche il modesto livello culturale dell’imputato che – nonostante le informazioni ottenute dai medici – era indotto a maturare la convinzione che, essendo lui sotto terapia, nulla di male sarebbe potuto succedere a sua moglie. In proposito, lo stesso medico ospedaliero che aveva in cura Tizio affermava che questi, venuto a conoscenza della propria sieropositività, aveva taciuto il proprio stato alla moglie <<per non perderla>>.

Tuttavia, nella specie, accanto al momento omissivo della condotta, vi è stato anche un momento successivo in cui la condotta si è manifestata in positivo con la pluralità di atteggiamenti <<fraudolenti>> di Tizio, diretti a ritardare le cure di cui la moglie necessitava.

Sebbene Tizio non intendesse – con la condotta successiva al contagio – determinare l’aggravamento e l’irreversibilità della malattia di Caia, egli tuttavia accettava la concreta possibilità che ciò si verificasse, pur avendo primariamente di mira l’obiettivo di mantenere inalterato il rapporto coniugale.

Un simile compendio di risultanze probatorie rivela, a giudizio della Corte, la ricorrenza dell’elemento soggettivo del dolo, nella forma del così detto dolo eventuale, utile ad integrare la più grave ipotesi delittuosa di lesioni personali gravissime.

Viene quindi censurata, in quanto del tutto errata, la motivazione della decisione impugnata ove esclude la ricorrenza dell’elemento psicologico del dolo eventuale in quanto impostata sulla valutazione e sulla ricostruzione del solo segmento iniziale della condotta di Tizio e non anche sulle condotte posteriori al contagio.

La Corte dichiara nulla la sentenza della Corte di Appello di Roma e quella del Tribunale, oltre che per la ragione indicata, per l’avvenuta estinzione del reato, essendone decorso il relativo termine prescrizionale.

4. I precedenti

Richiamati in sentenza, in tema di dolo eventuale, i seguenti precedenti del giudice di legittimità: sez. 4, n. 28231 del 24.6.09, rv 244693; sez. 5, n. 44712 del 17.9.08, rv 242610, sez. 1, n. 832 dell’8.11.1995; sez. 4 n. 11024 del 10.10.1996, rv 207333; sez. 5, n. 18568 del 21.1.2011.

1. Le massime

Ricorre colpa cosciente allorché il soggetto, pur rappresentandosi l’evento a rischio come possibile risultato della sua condotta, agisca confidando che detto evento potrebbe anche non avvenire ed escludendo che dalla sua condotta possano derivare conseguenze dannose.

Sussiste l’elemento psicologico del dolo eventuale quando l’agente, pur non avendo di mira il fatto a rischio, abbia accettato – nella proiezione della propria azione verso la realizzazione di un fatto primario – la concreta possibilità del suo verificarsi, in un necessario rapporto eziologico con l’azione medesima: una simile accettazione importa che l’autore non respinga il manifestarsi del rischio e non adegui la propria condotta in maniera coerente e funzionale a manifestare una controvolontà verso l’evento diverso rispetto a quello primariamente voluto (nella specie, la Corte ritiene sussistere il dolo eventuale nella condotta lesiva del marito che, nonostante sapesse di essere sieropositivo, non soltanto seguitava a consumare rapporti sessuali non protetti con la moglie, tenuta all’oscuro dell’infezione nel timore che il metterla al corrente avrebbe causato la compromissione del loro matrimonio, ma impediva alla stessa – a contagio avvenuto – di curarsi adeguatamente, ritardando, con la propria condotta, sia la diagnosi sia la terapia, così determinando un complessivo aggravamento delle condizioni di salute della consorte).

2. Il caso

Tizio veniva condannato dal Tribunale di Velletri in quanto ritenuto responsabile del reato di lesioni personali, aggravato dal rapporto di coniugio con la persona offesa, nonché dal fatto che dalla condotta criminosa fosse derivata una malattia tale da mettere a repentaglio la vita della vittima Caia, cui egli aveva trasmesso il virus della immunodeficienza mediante rapporti sessuali consumati senza precauzione, nella consapevolezza di essere affetto da HIV, così provocando alla moglie una malattia, probabilmente insanabile, con pericolo di vita.

La Corte di Appello capitolina, in riforma della sentenza del Tribunale di Velletri, assolveva Tizio perché il fatto non costituisce reato, ritenendo il difetto di prova circa il fatto che il contagio di Caia fosse avvenuto con rapporti sessuali consumati in epoca successiva rispetto alla data di comunicazione della diagnosi a Tizio. Il giudice di seconde cure riteneva che non vi fosse prova che l’imputato nutrisse motivi di ragionevole sospetto che i sintomi manifestatisi prima del suo ricovero potessero dipendere da infezione da HIV e che, quindi, quale portatore dell’infezione, egli potesse essere veicolo di contagio. Tale assunto veniva suffragato dalla Corte grazie alle risultanze della perizia espletata, secondo cui le manifestazioni dell’infezione prendono forma in sintomi di allarmante significatività soltanto con ampio ritardo rispetto all’insorgere dell’infezione.

Avverso la sentenza di appello, proponeva ricorso per cassazione la procura generale presso la Corte di Appello di Roma, deducendone difetto di motivazione in relazione alla contestazione mossa a Tizio non soltanto di avere contagiato Caia con la propria condotta omissiva, bensì anche di averle impedito con mezzi fraudolenti il tempestivo ricorso a terapie specifiche, le quali avrebbero impedito l’aggravarsi del suo complessivo stato di salute.

3. La decisione

Il supremo collegio accoglie le tesi spiegate dalla procura generale, valorizzando quanto emerso nel corso della fase di merito: a) durante il periodo trascorso in ospedale Tizio aveva impedito alla moglie di conoscere la vera ragione del proprio ricovero, adducendo a pretesto che i sanitari potevano comunicare esclusivamente con il paziente; b) dopo le dimissioni, l’imputato assumeva farmaci in confezioni private dell’etichetta, dichiarando alla moglie che si trattava di cortisone; c) ai primi sintomi di Caia, oltre ad opporsi al ricovero di lei in ospedale, la accompagnava dal medico di famiglia, riferendo al sanitario che la donna era semplicemente depressa e che ad una banale depressione fossero riconducibili i sintomi da lei accusati. Soltanto l’intervento di altro medico, richiesto dalla madre di Caia, consentiva a quest’ultima di ricoverarsi e di ottenere la corretta diagnosi.

Tutta la condotta successiva al contagio, a giudizio della corte, è stata erroneamente ritenuta irrilevante sol perché successiva al contagio: ciò ha comportato che le menzogne, gli artifici, i raggiri posti in essere da Tizio non siano stati tenuti nella dovuta considerazione ai fini della decisione. Difatti, rileva la Corte, al primo evento – costituito dal contagio da HIV – da imputarsi all’iniziale condotta omissiva dell’imputato, è seguito, in danno della moglie, l’evento ulteriore costituito dal peggioramento delle sue condizioni di salute e dal pericolo di vita, accertato all’atto del ricovero in ospedale e causato anch’esso dall’inscindibile complesso di condotte omissive e fraudolente poste in essere da Tizio.

La Corte evidenzia come sia ravvisabile nella specie un unico processo causativo originato dalla condotta di Tizio, cui ha messo capo il verificarsi del contagio e dell’insanabile aggravamento delle condizioni di salute di Caia. Tizio ha posto in essere una condotta ove sono ravvisabili due momenti: I) l’uno omissivo, consistito nella mancata comunicazione alla donna della propria malattia e del rischio del contagio; II) l’altro ostativo, in relazione all’impedimento – con menzogne, artifici, simulazioni – di tempestiva predisposizione di interventi di cura volti a scongiurare il peggioramento della malattia.

Il giudice di appello, errando, ha valorizzato soltanto il primo momento, omettendo di dare il dovuto risalto al secondo.

Ove ci si fermasse alla sola considerazione del momento omissivo, quello causativo del contagio, a giudizio della Suprema Corte, TIzio risponderebbe di lesioni personali aggravate dalla previsione dell’evento, in quanto l’imputato – pur rappresentandosi l’evento a rischio come possibile risultato della sua condotta – ha agito confidando che il contagio avrebbe potuto anche non avvenire ed ha escluso che la salute della moglie potesse subire dei danni. A sostegno di una simile tesi milita anche il modesto livello culturale dell’imputato che – nonostante le informazioni ottenute dai medici – era indotto a maturare la convinzione che, essendo lui sotto terapia, nulla di male sarebbe potuto succedere a sua moglie. In proposito, lo stesso medico ospedaliero che aveva in cura Tizio affermava che questi, venuto a conoscenza della propria sieropositività, aveva taciuto il proprio stato alla moglie <<per non perderla>>.

Tuttavia, nella specie, accanto al momento omissivo della condotta, vi è stato anche un momento successivo in cui la condotta si è manifestata in positivo con la pluralità di atteggiamenti <<fraudolenti>> di Tizio, diretti a ritardare le cure di cui la moglie necessitava.

Sebbene Tizio non intendesse – con la condotta successiva al contagio – determinare l’aggravamento e l’irreversibilità della malattia di Caia, egli tuttavia accettava la concreta possibilità che ciò si verificasse, pur avendo primariamente di mira l’obiettivo di mantenere inalterato il rapporto coniugale.

Un simile compendio di risultanze probatorie rivela, a giudizio della Corte, la ricorrenza dell’elemento soggettivo del dolo, nella forma del così detto dolo eventuale, utile ad integrare la più grave ipotesi delittuosa di lesioni personali gravissime.

Viene quindi censurata, in quanto del tutto errata, la motivazione della decisione impugnata ove esclude la ricorrenza dell’elemento psicologico del dolo eventuale in quanto impostata sulla valutazione e sulla ricostruzione del solo segmento iniziale della condotta di Tizio e non anche sulle condotte posteriori al contagio.

La Corte dichiara nulla la sentenza della Corte di Appello di Roma e quella del Tribunale, oltre che per la ragione indicata, per l’avvenuta estinzione del reato, essendone decorso il relativo termine prescrizionale.

4. I precedenti

Richiamati in sentenza, in tema di dolo eventuale, i seguenti precedenti del giudice di legittimità: sez. 4, n. 28231 del 24.6.09, rv 244693; sez. 5, n. 44712 del 17.9.08, rv 242610, sez. 1, n. 832 dell’8.11.1995; sez. 4 n. 11024 del 10.10.1996, rv 207333; sez. 5, n. 18568 del 21.1.2011.