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La vicenda dei marò italiani nel diritto internazionale

Lo scorso 4 novembre, in occasione della Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha deposto una corona all’Altare della Patria ed in presenza di numerose autorità italiane, durante la cerimonia di consegna delle decorazioni dell’Ordine militare d’Italia, ha colto l’occasione per complimentarsi con il governo ed i ministri degli Esteri e della Difesa per gli «sforzi che stanno conducendo sul piano internazionale e su quello dell’organizzazione interna delle forze armate»[1]. Nel corso della cerimonia, il Presidente Napolitano relativamente ai due marò italiani detenuti in India, ha affermato che si continuerà «a compiere ogni tenace sforzo per riportarli a casa», riportando alla mente una vicenda che da quasi un anno è sulle prime pagine di tutti i giornali.

Il caso dei marò italiani detenuti in India ha scatenato vivaci dibattiti nell’opinione pubblica indiana e italiana arrivando, in alcuni casi, ad assumere toni accesi. Sebbene le notizie giunte sino a noi possano dare adito a più di un dubbio relativamente a quanto accaduto al largo delle coste indiane, la vicenda può essere esaminata alla luce della Convenzione internazionale sul diritto del mare[2].

Anche se si può essere portati a pensare che si tratti di una questione di politica internazionale che concerne le relazioni fra India ed Italia[3], nel presente articolo si esaminerà la vicenda dal punto di vista del diritto internazionale cercando di rimanere il più possibile oggettivi relativamente ai fatti narrati. La vicenda dei due marò, oltre a suscitare grande interesse nell’opinione pubblica di India e Italia, ha fornito l’occasione per approfondire alcuni aspetti relativi al diritto internazionale marittimo che sono emersi nel corso degli ultimi anni e che hanno portato all’adozione di nuove misure per combattere la pirateria marittima[4], quali ad esempio, le normative che disciplinano la presenza a bordo delle navi di personale armato[5] Nonostante il notevole dispiegamento di forze navali impiegate al fine di contrastare il fenomeno, sempre costante ed in continua crescita[6], si è reso necessario concedere agli armatori la possibilità di imbarcare team armati sulle navi che percorrono le rotte di mare più colpite dai pirati. L’International Maritime Organization (da ora innanzi IMO)[7] è stata chiara nel raccomandare l’utilizzo di misure non violente al fine di combattere gli atti di pirateria[8], tuttavia, i rimedi proposti fino ad ora, si sono mostrati inefficaci[9] ed in seguito alle pressioni esercitate da alcuni armatori aderenti all’International Parcel Tanker Association, l’agenzia delle NU ha adottato per la prima volta due circolari nelle quali si prevede l’utilizzo di scorte armate a bordo delle navi[10].

Sebbene l’IMO auspichi che la lotta alla pirateria sia condotta nell’ambito di operazioni coordinate dalla NATO, dall’Unione Europea o dai singoli Stati (come avviene ormai da anni)[11], il suo consenso all’utilizzo di agenti armati imbarcati sulle navi impegnate nella lotta alla pirateria, ha fornito l’occasione agli Stati che non si erano ancora muniti di una legislazione in tal senso, di valutare la possibilità di introdurre norme apposite volte a regolarne la presenza. Un esempio è dato dalla legge italiana n. 130 del 2 agosto 2011[12],, che per la prima volta nel nostro Paese, ha autorizzato gli armatori a imbarcare sulle navi che navigano nelle zone di mare ad “alto rischio di pirateria” team di militari e contractors[13]. Grazie a tale legge, è stato possibile imbarcare a bordo della Enrica Lexie i fucilieri della marina militare italiana, i quali, secondo il diritto internazionale consuetudinario, godrebbero della cd. immunità funzionale[14]. Facendo riferimento a tale regime, le discussioni tra Italia ed India relative alla zona di mare in cui sono avvenuti i fatti, appaiono irrilevanti[15]. Il regime dell’immunità funzionale infatti, consiste nel divieto per gli Stati di esercitare la propria giurisdizione penale nei confronti degli organi di uno Stato straniero che hanno agito iure imperii. In sostanza, la giurisdizione sugli organi statali appartiene allo Stato di nazionalità di quest’ultimi e non allo Stato del foro in cui è avvenuto l’illecito. Nel caso dei marò, anche volendo supportare la tesi che sostiene che l’illecito sia avvenuto nelle acque territoriali indiane, la giurisdizione spetterebbe comunque all’Italia e non all’India.

Se analizziamo la vicenda dal punto di vista dell’India, la quale non considera il regime dell’immunità funzionale e se ci soffermiamo sugli eventi, possiamo far rientrare il caso dei marò negli “incidenti” accaduti in mare[16]. In questo caso, è essenziale accertare se la vicenda si sia verificata nelle acque territoriali indiane o nelle zone d’alto mare. Secondo il diritto internazionale se gli eventi sono avvenuti in alto mare, la giurisdizione appartiene allo Stato di bandiera della nave[17] e la vicenda dei marò non è quindi, rientrante nella giurisdizione indiana. La nave italiana Erica Lexie è stata bloccata, condotta presso il porto di Kochi e organi di polizia indiani vi sono saliti a bordo. Secondo il diritto internazionale, ciò non sarebbe potuto accadere, non avendo l’India giurisdizione in materia.

Tuttavia, se consideriamo la tesi del governo indiano, il quale sostiene che i marò si trovavano nelle acque territoriali di sua competenza, il fatto che la nave italiana sia approdata nel porto di Kochi, espressione del principio bene captus male detentus (secondo il quale le ex colonie britanniche applicano il principio delle corti di common law), rappresenta per l’India una condizione idonea e sufficiente a legittimare la propria giurisdizione. Ciò nonostante, è bene notare, le disposizioni del diritto internazionale disciplinino il contrario[18].

In seguito all’analisi delle varie ipotesi presentate dai governi di India e Italia e alla luce di quanto disciplinato dal diritto internazionale, possiamo affermare che il regime dell’immunità degli Stati, conformemente alle norme di diritto internazionale marittimo, sia senz’altro quello da prediligere. Oltre ad essere applicabile nel caso specifico, i protagonisti della vicenda sono infatti, due fucilieri di marina e in quanto tali, due organi dello Stato italiano, tale regime farebbe venire meno anche il problema relativo alla contesa esistente tra India ed Italia relativamente alla zona di mare in cui è avvenuta la vicenda.

In conclusione, si può affermare che il caso dell’Enrica Lexie ha permesso di rilevare alcuni punti di criticità della normativa internazionale del diritto del mare. L’articolo 97 della Convenzione di Montego Bay parla di “qualunque altro incidente di navigazione nell’alto mare”, ma l’applicazione della norma sembra non essere chiara a livello internazionale. Alla luce di quanto accaduto, sarebbe opportuno fare chiarezza sulla sua interpretazione ed estendere tale disposizione anche ai casi di incidenti nei quali l’uso della forza è stato espressamente previsto nell’esercizio di misure antipirateria di portata internazionale. Al fine di risolvere il contenzioso diplomatico che vede coinvolte da quasi un anno Italia ed India, sarebbe auspicabile una presa di posizione da parte delle Nazioni Unite, magari attraverso un intervento decisivo del Consiglio di sicurezza che già in passato ha emanato diverse risoluzioni in materia di pirateria marittima[19]. Il CdS potrebbe fare definitivamente chiarezza sul caso dell’Enrica Lexie e su eventuali situazioni simili che potrebbero facilmente verificarsi nell’ambito delle delicate azioni di contrasto alla pirateria marittima. Un intervento in tal senso potrebbe favorire il dialogo all’interno della comunità internazionale nei riguardi dell’irrisolto tema della pirateria, oltre a contribuire efficacemente a garantire il ritorno dei due marò in Italia.



[1] Il Presidente Napolitano ha fatto riferimento anche «all’importante progetto di razionalizzazione strutturale della Difesa attualmente all’approvazione del Parlamento». Si legga la notizia pubblicata al link: www.corriere.it/politica/12_novembre_04/napolitano-crisi-coesione_7a42c892-2665-11e2-8015-d7b141f471a2.shtml.

[2] La stampa italiana si è ampiamente occupata della questione dei due marò catturati in India. Si segnalano alcuni tra gli articoli dei maggiori quotidiani italiani: www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-02-21/perquisita-enrica-lexie-secondo-162324.shtml?uuid=Aa0UKOvE&fromSearch; www.mondo.panorama.it/world-news/Maro-arrestati-per-i-periti-indiani-gli-spari-sono-venuti-dai-loro-fucili; www.repubblica.it/esteri/2012/02/22/news/mar_italiani_arrestati_in_india_de_mistura_a_delhi_per_trattare-30299109/.

[3] Sono numerosi coloro che si sono espressi sulla vicenda ricercando una risposta in motivazioni di carattere geo-politico. Si segnala in merito un interessante articolo di F. MARINO, India-Italia, L’Enrica Lexie e il colonialismo, pubblicato su Limes, Rivista italiana di geopolitica, il 25.02.2012, al sito internet: www.temi.repubblica.it/limes/india-italia-lenrica-lexie-i-maro-e-il-colonialismo/32717?com=32717#scrivicommenti.

[4] La pirateria marittima è considerata un crimen juris gentium ed è definita agli artt. 101 e ss. della Convenzione di Montego Bay del 1982. La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare è stata aperta alle firme a Montego Bay, in Giamaica nel 1982 ed è entrata in vigore in data 16 novembre 1994, in seguito al deposito del sessantesimo strumento di ratifica da parte della Guyana. L’articolo 101 definisce pirateria «ogni atto illecito di violenza o di sequestro, o ogni atto di rapina, commesso a fini privati dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave o di un aeromobile privati», e implica che tali atti siano «rivolti nell’alto mare, contro un’altra nave o aeromobile o contro persone o beni da essi trasportati; contro una nave o un aeromobile, oppure contro persone e beni, in un luogo che si trovi fuori della giurisdizione di qualunque Stato».

[5] Alla pirateria marittima si applica il principio della giurisdizione universale. Secondo il principio della giurisdizione universale se il crimine è compiuto nelle acque territoriali, la competenza spetta allo Stato costiero, se invece, si tratta di azioni compiute nell’alto mare, la giurisdizione relativa agli atti di pirateria compete a tutti gli Stati. Nella vicenda dell’Enrica Lexie, il principio della giurisdizione universale non rileva, non si tratta infatti, di un episodio di pirateria marittima.

[6] Per un aggiornamento costante sul numero degli attacchi di pirateria nel mondo si rimanda al sito internet: www.icc-ccs.org/piracy-reporting-centre/piracynewsafigures.

[7] L’IMO è l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite, nata nel 1948 con lo scopo di promuovere gli standard qualitativi nel settore della navigazione L’organizzazione, con l’aiuto di propri comitati tecnici quali ad esempio, il Maritime Safety Commitee, classifica nei propri report sulla pirateria marittima tutte le azioni che ricadono nella fattispecie descritta agli artt. 101 e ss della Convenzione di Montego Bay e gli atti di pirateria che avvengono in acque territoriali e che sono considerati “armed robbery”, secondo quanto disposto dalla circolare MSC/984. Per maggiori informazioni sulle attività svolte dall’IMO si rimanda al sito ufficiale dell’organizzazione: www.imo.org/Pages/home.aspx.

[8] Alcuni esempi in tal senso sono dati dall’indicazione dell’uso di idranti e dall’utilizzo del filo spinato a bordo delle navi. Per un approfondimento sulle circolari dell’IMO si vada al sito internet: www.imo.org/Documents/IMO_Piracy_Guidance.pdf.

[9] In proposito si legga l’articolo di F. DI PIETRO, Possibili soluzioni per combattere la pirateria. Personale armato a bordo delle navi: spunti di riflessione, in filodiritto.it alla pagina web: www.filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=2849.

[10] In particolare, si rimanda alle circolari: MSC.1/Circ.1405/Rev.2 del 25 Maggio 2012 (www.imo.org/OurWork/Security/PiracyArmedRobbery/Guidance/Documents/MSC.1-Circ.1405-Rev2.pdf) in cui si afferma che «The use of PCASP should not be considered as an alternative to Best Management Practices (BMP) and other protective measures. Placing armed guards on board as a means to secure and protect the ship and its crew should only be considered after a risk assessment has been carried out» e MSC.1/Circ.1406/Rev.1del 16 Settembre 2011(www.imo.org/OurWork/Security/PiracyArmedRobbery/Guidance/Documents/MSC.1Circ.1406-Rev-1.pdf), nella quale l’IMO precisa che: «These interim recommendations provide considerations on the use of privately contracted armed security personnel (PCASP) if and when a flag State determines that such a measure would be appropriate and lawful».

[11] Si ricordano tra le più importanti, la missione Combined Task Force 151 coadiuvata dalla NATO, l’operazione Ocean Schield dell’amministrazione americana e l’operazione Atalanta dell’Unione Europea, oltre alle operazioni delle marine militari dei singoli Stati impegnati nella lotta alla pirateria. Si vedano i siti internet: www.navy.mil/submit/display.asp?story_id=41687 e www.eunavfor.eu.

[12] La legge è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 181 del 5 agosto 2011 ed è consultabile al sito internet: www.marina.difesa.it/attivita/operativa/nmp/Documents/Legge%202%20agosto%202011%20n.130.pdf.

[13] In particolare, l’articolo 5 della legge 130/2011 prevede che il personale che verrà utilizzato nell’espletamento del servizio anti-pirateria utilizzi «armi in dotazione delle navi, appositamente predisposte per la loro custodia, detenute previa autorizzazione del Ministro dell’interno». Inoltre, viene evidenziato che l’impiego delle guardie armate «è consentito esclusivamente a bordo delle navi predisposte per la difesa da atti di pirateria mediante l’attuazione di almeno una delle vigenti tipologie ricomprese nelle «best management practices» di autoprotezione del naviglio definite dall’IMO». Queste precisazioni devono essere lette facendo riferimento a quanto disposto dagli artt. 107 e 110 della Convenzione di Montego Bay del 1982 che stabiliscono che solo le navi da guerra o in servizio governativo possono effettuare un sequestro per atti di pirateria o esercitare il cd. diritto di visita sulle navi sospette. La legge 130/2011 prevede che l’imbarco di team armati a bordo delle navi sia sottoposto a condizione che l’imbarco avvenga su navi mercantili battenti bandiera italiana.

[14] Si tratta di una prassi internazionale risalente al caso Mc Leod del 1840 e confermata dalla più autorevole dottrina. Si legga in proposito l’intervista rilasciata a Il Giornale.it da N. RONZITTI, il quale afferma che «i nostri militari hanno agito per conto dello Stato italiano e quindi godono dell’immunità funzionale, per questo non possono essere arrestati dalle autorità indiane». È possibile leggere l’intervista all’indirizzo: www.ilgiornale.it/news/vanno-rilasciati-sono-protetti-dall-immunit.html.

[15] Italia ed India hanno posizioni contrastanti riguardo al luogo in cui si è verificata la vicenda che ha visto coinvolti i due marò italiani. L’Italia è propensa a ritenere che i fatti siano avvenuti nelle acque dell’alto mare, mentre l’India sostiene che gli eventi si siano verificati nelle acque territoriali indiane.

[16] In particolare, bisogna applicare l’art. 97 della Convenzione di Montego Bay del 1982, considerando i colpi sparati dai fucilieri di marina “ogni altro incidente della navigazione”.

[17] Secondo l’art. 92 della Convenzione di Montego Bay la giurisdizione universale si applica solo ad alcuni casi specifici del diritto internazionale, tra i quali la pirateria marittima, la tratta degli schiavi, etc. Per approfondimenti sul tema si legga M. M. ROSARIA, Il principio della giurisdizione universale e la giustizia penale internazionale, CEDAM (Collana Luiss Dipartimento di scienze giuridiche), 2012.

[18] Si legga l’articolo di F. CAFFIO e N. RONZITTI, La pirateria, che fare per sconfiggerla, a cura dello IAI (Istituto Affari Internazionali), approfondimento, n. 44, aprile 2012 e pubblicato al sito internet: www.parlamento.it.

[19] Le misure prese dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in materia di pirateria, riguardano in particolare le zone di mare al largo della Somalia, Paese maggiormente colpito dal fenomeno. In proposito si legga: M.C. NOTO, La repressione della pirateria in Somalia: le misure coercitive del Consiglio di Sicurezza e la competenza giurisdizionale degli Stati, in “Comunità Internazionale”, 2009, p. 453 e sgg e A. TANCREDI, Di pirati e «Stati Falliti»: Il Consiglio di Sicurezza autorizza il ricorso alla forza nelle acque territoriali della Somalia, in “Rivista di diritto internazionale”, 2008, pp. 937 e sgg.

Lo scorso 4 novembre, in occasione della Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha deposto una corona all’Altare della Patria ed in presenza di numerose autorità italiane, durante la cerimonia di consegna delle decorazioni dell’Ordine militare d’Italia, ha colto l’occasione per complimentarsi con il governo ed i ministri degli Esteri e della Difesa per gli «sforzi che stanno conducendo sul piano internazionale e su quello dell’organizzazione interna delle forze armate»[1]. Nel corso della cerimonia, il Presidente Napolitano relativamente ai due marò italiani detenuti in India, ha affermato che si continuerà «a compiere ogni tenace sforzo per riportarli a casa», riportando alla mente una vicenda che da quasi un anno è sulle prime pagine di tutti i giornali.

Il caso dei marò italiani detenuti in India ha scatenato vivaci dibattiti nell’opinione pubblica indiana e italiana arrivando, in alcuni casi, ad assumere toni accesi. Sebbene le notizie giunte sino a noi possano dare adito a più di un dubbio relativamente a quanto accaduto al largo delle coste indiane, la vicenda può essere esaminata alla luce della Convenzione internazionale sul diritto del mare[2].

Anche se si può essere portati a pensare che si tratti di una questione di politica internazionale che concerne le relazioni fra India ed Italia[3], nel presente articolo si esaminerà la vicenda dal punto di vista del diritto internazionale cercando di rimanere il più possibile oggettivi relativamente ai fatti narrati. La vicenda dei due marò, oltre a suscitare grande interesse nell’opinione pubblica di India e Italia, ha fornito l’occasione per approfondire alcuni aspetti relativi al diritto internazionale marittimo che sono emersi nel corso degli ultimi anni e che hanno portato all’adozione di nuove misure per combattere la pirateria marittima[4], quali ad esempio, le normative che disciplinano la presenza a bordo delle navi di personale armato[5] Nonostante il notevole dispiegamento di forze navali impiegate al fine di contrastare il fenomeno, sempre costante ed in continua crescita[6], si è reso necessario concedere agli armatori la possibilità di imbarcare team armati sulle navi che percorrono le rotte di mare più colpite dai pirati. L’International Maritime Organization (da ora innanzi IMO)[7] è stata chiara nel raccomandare l’utilizzo di misure non violente al fine di combattere gli atti di pirateria[8], tuttavia, i rimedi proposti fino ad ora, si sono mostrati inefficaci[9] ed in seguito alle pressioni esercitate da alcuni armatori aderenti all’International Parcel Tanker Association, l’agenzia delle NU ha adottato per la prima volta due circolari nelle quali si prevede l’utilizzo di scorte armate a bordo delle navi[10].

Sebbene l’IMO auspichi che la lotta alla pirateria sia condotta nell’ambito di operazioni coordinate dalla NATO, dall’Unione Europea o dai singoli Stati (come avviene ormai da anni)[11], il suo consenso all’utilizzo di agenti armati imbarcati sulle navi impegnate nella lotta alla pirateria, ha fornito l’occasione agli Stati che non si erano ancora muniti di una legislazione in tal senso, di valutare la possibilità di introdurre norme apposite volte a regolarne la presenza. Un esempio è dato dalla legge italiana n. 130 del 2 agosto 2011[12],, che per la prima volta nel nostro Paese, ha autorizzato gli armatori a imbarcare sulle navi che navigano nelle zone di mare ad “alto rischio di pirateria” team di militari e contractors[13]. Grazie a tale legge, è stato possibile imbarcare a bordo della Enrica Lexie i fucilieri della marina militare italiana, i quali, secondo il diritto internazionale consuetudinario, godrebbero della cd. immunità funzionale[14]. Facendo riferimento a tale regime, le discussioni tra Italia ed India relative alla zona di mare in cui sono avvenuti i fatti, appaiono irrilevanti[15]. Il regime dell’immunità funzionale infatti, consiste nel divieto per gli Stati di esercitare la propria giurisdizione penale nei confronti degli organi di uno Stato straniero che hanno agito iure imperii. In sostanza, la giurisdizione sugli organi statali appartiene allo Stato di nazionalità di quest’ultimi e non allo Stato del foro in cui è avvenuto l’illecito. Nel caso dei marò, anche volendo supportare la tesi che sostiene che l’illecito sia avvenuto nelle acque territoriali indiane, la giurisdizione spetterebbe comunque all’Italia e non all’India.

Se analizziamo la vicenda dal punto di vista dell’India, la quale non considera il regime dell’immunità funzionale e se ci soffermiamo sugli eventi, possiamo far rientrare il caso dei marò negli “incidenti” accaduti in mare[16]. In questo caso, è essenziale accertare se la vicenda si sia verificata nelle acque territoriali indiane o nelle zone d’alto mare. Secondo il diritto internazionale se gli eventi sono avvenuti in alto mare, la giurisdizione appartiene allo Stato di bandiera della nave[17] e la vicenda dei marò non è quindi, rientrante nella giurisdizione indiana. La nave italiana Erica Lexie è stata bloccata, condotta presso il porto di Kochi e organi di polizia indiani vi sono saliti a bordo. Secondo il diritto internazionale, ciò non sarebbe potuto accadere, non avendo l’India giurisdizione in materia.

Tuttavia, se consideriamo la tesi del governo indiano, il quale sostiene che i marò si trovavano nelle acque territoriali di sua competenza, il fatto che la nave italiana sia approdata nel porto di Kochi, espressione del principio bene captus male detentus (secondo il quale le ex colonie britanniche applicano il principio delle corti di common law), rappresenta per l’India una condizione idonea e sufficiente a legittimare la propria giurisdizione. Ciò nonostante, è bene notare, le disposizioni del diritto internazionale disciplinino il contrario[18].

In seguito all’analisi delle varie ipotesi presentate dai governi di India e Italia e alla luce di quanto disciplinato dal diritto internazionale, possiamo affermare che il regime dell’immunità degli Stati, conformemente alle norme di diritto internazionale marittimo, sia senz’altro quello da prediligere. Oltre ad essere applicabile nel caso specifico, i protagonisti della vicenda sono infatti, due fucilieri di marina e in quanto tali, due organi dello Stato italiano, tale regime farebbe venire meno anche il problema relativo alla contesa esistente tra India ed Italia relativamente alla zona di mare in cui è avvenuta la vicenda.

In conclusione, si può affermare che il caso dell’Enrica Lexie ha permesso di rilevare alcuni punti di criticità della normativa internazionale del diritto del mare. L’articolo 97 della Convenzione di Montego Bay parla di “qualunque altro incidente di navigazione nell’alto mare”, ma l’applicazione della norma sembra non essere chiara a livello internazionale. Alla luce di quanto accaduto, sarebbe opportuno fare chiarezza sulla sua interpretazione ed estendere tale disposizione anche ai casi di incidenti nei quali l’uso della forza è stato espressamente previsto nell’esercizio di misure antipirateria di portata internazionale. Al fine di risolvere il contenzioso diplomatico che vede coinvolte da quasi un anno Italia ed India, sarebbe auspicabile una presa di posizione da parte delle Nazioni Unite, magari attraverso un intervento decisivo del Consiglio di sicurezza che già in passato ha emanato diverse risoluzioni in materia di pirateria marittima[19]. Il CdS potrebbe fare definitivamente chiarezza sul caso dell’Enrica Lexie e su eventuali situazioni simili che potrebbero facilmente verificarsi nell’ambito delle delicate azioni di contrasto alla pirateria marittima. Un intervento in tal senso potrebbe favorire il dialogo all’interno della comunità internazionale nei riguardi dell’irrisolto tema della pirateria, oltre a contribuire efficacemente a garantire il ritorno dei due marò in Italia.



[1] Il Presidente Napolitano ha fatto riferimento anche «all’importante progetto di razionalizzazione strutturale della Difesa attualmente all’approvazione del Parlamento». Si legga la notizia pubblicata al link: www.corriere.it/politica/12_novembre_04/napolitano-crisi-coesione_7a42c892-2665-11e2-8015-d7b141f471a2.shtml.

[2] La stampa italiana si è ampiamente occupata della questione dei due marò catturati in India. Si segnalano alcuni tra gli articoli dei maggiori quotidiani italiani: www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-02-21/perquisita-enrica-lexie-secondo-162324.shtml?uuid=Aa0UKOvE&fromSearch; www.mondo.panorama.it/world-news/Maro-arrestati-per-i-periti-indiani-gli-spari-sono-venuti-dai-loro-fucili; www.repubblica.it/esteri/2012/02/22/news/mar_italiani_arrestati_in_india_de_mistura_a_delhi_per_trattare-30299109/.

[3] Sono numerosi coloro che si sono espressi sulla vicenda ricercando una risposta in motivazioni di carattere geo-politico. Si segnala in merito un interessante articolo di F. MARINO, India-Italia, L’Enrica Lexie e il colonialismo, pubblicato su Limes, Rivista italiana di geopolitica, il 25.02.2012, al sito internet: www.temi.repubblica.it/limes/india-italia-lenrica-lexie-i-maro-e-il-colonialismo/32717?com=32717#scrivicommenti.

[4] La pirateria marittima è considerata un crimen juris gentium ed è definita agli artt. 101 e ss. della Convenzione di Montego Bay del 1982. La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare è stata aperta alle firme a Montego Bay, in Giamaica nel 1982 ed è entrata in vigore in data 16 novembre 1994, in seguito al deposito del sessantesimo strumento di ratifica da parte della Guyana. L’articolo 101 definisce pirateria «ogni atto illecito di violenza o di sequestro, o ogni atto di rapina, commesso a fini privati dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave o di un aeromobile privati», e implica che tali atti siano «rivolti nell’alto mare, contro un’altra nave o aeromobile o contro persone o beni da essi trasportati; contro una nave o un aeromobile, oppure contro persone e beni, in un luogo che si trovi fuori della giurisdizione di qualunque Stato».

[5] Alla pirateria marittima si applica il principio della giurisdizione universale. Secondo il principio della giurisdizione universale se il crimine è compiuto nelle acque territoriali, la competenza spetta allo Stato costiero, se invece, si tratta di azioni compiute nell’alto mare, la giurisdizione relativa agli atti di pirateria compete a tutti gli Stati. Nella vicenda dell’Enrica Lexie, il principio della giurisdizione universale non rileva, non si tratta infatti, di un episodio di pirateria marittima.

[6] Per un aggiornamento costante sul numero degli attacchi di pirateria nel mondo si rimanda al sito internet: www.icc-ccs.org/piracy-reporting-centre/piracynewsafigures.

[7] L’IMO è l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite, nata nel 1948 con lo scopo di promuovere gli standard qualitativi nel settore della navigazione L’organizzazione, con l’aiuto di propri comitati tecnici quali ad esempio, il Maritime Safety Commitee, classifica nei propri report sulla pirateria marittima tutte le azioni che ricadono nella fattispecie descritta agli artt. 101 e ss della Convenzione di Montego Bay e gli atti di pirateria che avvengono in acque territoriali e che sono considerati “armed robbery”, secondo quanto disposto dalla circolare MSC/984. Per maggiori informazioni sulle attività svolte dall’IMO si rimanda al sito ufficiale dell’organizzazione: www.imo.org/Pages/home.aspx.

[8] Alcuni esempi in tal senso sono dati dall’indicazione dell’uso di idranti e dall’utilizzo del filo spinato a bordo delle navi. Per un approfondimento sulle circolari dell’IMO si vada al sito internet: www.imo.org/Documents/IMO_Piracy_Guidance.pdf.

[9] In proposito si legga l’articolo di F. DI PIETRO, Possibili soluzioni per combattere la pirateria. Personale armato a bordo delle navi: spunti di riflessione, in filodiritto.it alla pagina web: www.filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=2849.

[10] In particolare, si rimanda alle circolari: MSC.1/Circ.1405/Rev.2 del 25 Maggio 2012 (www.imo.org/OurWork/Security/PiracyArmedRobbery/Guidance/Documents/MSC.1-Circ.1405-Rev2.pdf) in cui si afferma che «The use of PCASP should not be considered as an alternative to Best Management Practices (BMP) and other protective measures. Placing armed guards on board as a means to secure and protect the ship and its crew should only be considered after a risk assessment has been carried out» e MSC.1/Circ.1406/Rev.1del 16 Settembre 2011(www.imo.org/OurWork/Security/PiracyArmedRobbery/Guidance/Documents/MSC.1Circ.1406-Rev-1.pdf), nella quale l’IMO precisa che: «These interim recommendations provide considerations on the use of privately contracted armed security personnel (PCASP) if and when a flag State determines that such a measure would be appropriate and lawful».

[11] Si ricordano tra le più importanti, la missione Combined Task Force 151 coadiuvata dalla NATO, l’operazione Ocean Schield dell’amministrazione americana e l’operazione Atalanta dell’Unione Europea, oltre alle operazioni delle marine militari dei singoli Stati impegnati nella lotta alla pirateria. Si vedano i siti internet: www.navy.mil/submit/display.asp?story_id=41687 e www.eunavfor.eu.

[12] La legge è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 181 del 5 agosto 2011 ed è consultabile al sito internet: www.marina.difesa.it/attivita/operativa/nmp/Documents/Legge%202%20agosto%202011%20n.130.pdf.

[13] In particolare, l’articolo 5 della legge 130/2011 prevede che il personale che verrà utilizzato nell’espletamento del servizio anti-pirateria utilizzi «armi in dotazione delle navi, appositamente predisposte per la loro custodia, detenute previa autorizzazione del Ministro dell’interno». Inoltre, viene evidenziato che l’impiego delle guardie armate «è consentito esclusivamente a bordo delle navi predisposte per la difesa da atti di pirateria mediante l’attuazione di almeno una delle vigenti tipologie ricomprese nelle «best management practices» di autoprotezione del naviglio definite dall’IMO». Queste precisazioni devono essere lette facendo riferimento a quanto disposto dagli artt. 107 e 110 della Convenzione di Montego Bay del 1982 che stabiliscono che solo le navi da guerra o in servizio governativo possono effettuare un sequestro per atti di pirateria o esercitare il cd. diritto di visita sulle navi sospette. La legge 130/2011 prevede che l’imbarco di team armati a bordo delle navi sia sottoposto a condizione che l’imbarco avvenga su navi mercantili battenti bandiera italiana.

[14] Si tratta di una prassi internazionale risalente al caso Mc Leod del 1840 e confermata dalla più autorevole dottrina. Si legga in proposito l’intervista rilasciata a Il Giornale.it da N. RONZITTI, il quale afferma che «i nostri militari hanno agito per conto dello Stato italiano e quindi godono dell’immunità funzionale, per questo non possono essere arrestati dalle autorità indiane». È possibile leggere l’intervista all’indirizzo: www.ilgiornale.it/news/vanno-rilasciati-sono-protetti-dall-immunit.html.

[15] Italia ed India hanno posizioni contrastanti riguardo al luogo in cui si è verificata la vicenda che ha visto coinvolti i due marò italiani. L’Italia è propensa a ritenere che i fatti siano avvenuti nelle acque dell’alto mare, mentre l’India sostiene che gli eventi si siano verificati nelle acque territoriali indiane.

[16] In particolare, bisogna applicare l’art. 97 della Convenzione di Montego Bay del 1982, considerando i colpi sparati dai fucilieri di marina “ogni altro incidente della navigazione”.

[17] Secondo l’art. 92 della Convenzione di Montego Bay la giurisdizione universale si applica solo ad alcuni casi specifici del diritto internazionale, tra i quali la pirateria marittima, la tratta degli schiavi, etc. Per approfondimenti sul tema si legga M. M. ROSARIA, Il principio della giurisdizione universale e la giustizia penale internazionale, CEDAM (Collana Luiss Dipartimento di scienze giuridiche), 2012.

[18] Si legga l’articolo di F. CAFFIO e N. RONZITTI, La pirateria, che fare per sconfiggerla, a cura dello IAI (Istituto Affari Internazionali), approfondimento, n. 44, aprile 2012 e pubblicato al sito internet: www.parlamento.it.

[19] Le misure prese dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in materia di pirateria, riguardano in particolare le zone di mare al largo della Somalia, Paese maggiormente colpito dal fenomeno. In proposito si legga: M.C. NOTO, La repressione della pirateria in Somalia: le misure coercitive del Consiglio di Sicurezza e la competenza giurisdizionale degli Stati, in “Comunità Internazionale”, 2009, p. 453 e sgg e A. TANCREDI, Di pirati e «Stati Falliti»: Il Consiglio di Sicurezza autorizza il ricorso alla forza nelle acque territoriali della Somalia, in “Rivista di diritto internazionale”, 2008, pp. 937 e sgg.