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L’ascolto del minore nei procedimenti civili di famiglia

Numerosi sono i procedimenti, soprattutto in ambito civile, davanti al Tribunale per i minorenni ed anche davanti al Tribunale ordinario, nei quali il bambino è il protagonista principale dell’intera vicenda umana in discussione ed anche il destinatario principale delle decisioni che ne emergeranno.

Ad esempio, il bambino potrebbe trovarsi coinvolto in un procedimento (di separazione o divorzio) che principalmente riguarda i suoi genitori, ma il cui esito finale ricade in maniera determinante sulla sua vita futura; o, ancora, potrebbe essere chiamato a descrivere fatti o avvenimenti dei quali è venuto a conoscenza e che sono fondamentali per la risoluzione di una vicenda che abbia rilevanza civile o penale; infine, potrebbe essere vittima di reato commesso da adulti o da minorenni, ovvero, essere egli stesso oggetto di indagini ed accertamenti in quanto autore di un fatto che costituisce reato.

In questo particolare ed insolito contesto è fondamentale poter garantire al minore la possibilità di far conoscere le proprie opinioni, le proprie aspettative, i propri sentimenti; soprattutto quando si dovrà decidere sulla sua vita futura.

Il termine ascolto non compare nella legge italiana, che in varie disposizioni prevede un diritto del minore di essere sentito. Ne deriva che ogni disposizione che prevede che il minore sia sentito deve essere letta attribuendo al sentire il significato che l’ascolto è venuto assumendo nelle convenzioni internazionali.

L’art. 12 della Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo del 1989 riconosce al bambino "il diritto di esprimere la propria opinione liberamente e in qualsiasi materia, dovendosi dare alle sue opinioni il giusto peso relativamente alla sua età e maturità. A tale scopo, in tutti i procedimenti giuridici o amministrativi che coinvolgono un bambino deve essere offerta l’occasione affinchè lo stesso venga udito direttamente o indirettamente per mezzo di un rappresentante o di una apposita istituzione, in accordo con le procedure della legislazione nazionale".

Quanto all’Italia, si è ritenuto in generale che la norma in esame abbia introdotto una previsione generalizzata di audizione del minore in tutte le procedure che lo riguardano, tanto che si è proposto di considerare l’ascolto del minore che abbia compiuto i dodici anni come obbligatorio in ogni procedimento giudiziario che lo coinvolga, a meno che il giudice non lo ritenga pregiudizievole o ininfluente con provvedimento motivato.

Anche la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli del 1996, disciplina chiaramente l’ascolto del minore in tutti i procedimenti che lo coinvolgono.

La Convenzione è stata definita un trattato per l’attuazione, in particolare, dell’art. 12 dell’accordo delle Nazioni Unite; infatti, dopo che nel Preambolo gli Stati manifestano la convinzione che i diritti e gli interessi preminenti dei minori debbano essere favoriti e che a tal fine i minori debbano avere la possibilità di esercitare tali diritti (in particolare nei procedimenti riguardanti i rapporti di famiglia che li riguardino), all’art. 3, viene sancito il diritto del fanciullo a:

·        ricevere tutte le informazioni pertinenti (lett. a);

·        essere consultato ed esprimere la propria opinione (lett. b);

·        essere informato sulle possibili conseguenze delle aspirazioni da lui manifestate e delle possibili conseguenze di ogni decisione (lett. c).

 L’art. 5, intitolato “Altri possibili diritti processuali”, stabilisce, inoltre, che “le Parti esaminano l’opportunità di riconoscere ai minori ulteriori diritti processuali nelle procedura giudiziarie che li riguardano, ed in particolare:

 a) il diritto di chiedere l’assistenza di una persona idonea di loro scelta, che li aiuti ad esprimere la loro opinione;

b) il diritto di chiedere, personalmente o tramite altre persone od organismi, la nomina di un diverso rappresentate, se del caso un avvocato;

c) il diritto di nominare un proprio rappresentante;

d) il diritto di esercitare, in tutto o in parte, le prerogative delle parti in simili procedure”.

La formulazione della norma, frutto di lunghi dibattiti e di faticosi compromessi in sede di Comitato di esperti, è assai restrittiva e riduce di molto l’obiettivo iniziale.

Essa infatti non pone obblighi agli Stati membri, ma solo li invita a valutare l’opportunità di introdurre nel diritto interno uno o più dei quattro diritti processuali elencati in ordine di crescente importanza.

Si va da una mera “assistenza” di persona di fiducia del minore (lettera d), istituto che in qualche modo ritroviamo anche nel nostro processo penale minorile (cfr. art. 12 d.p.r. 22.9.1988 n. 448), all’ipotesi massima di vera e propria capacità processale anticipata (lettera g), con ipotesi intermedie concernenti la nomina di un “diverso rappresentante”, vale a dire un rappresentante legale diverso dai genitori, e ciò anche al di fuori dalle ipotesi di conflitto di interessi previste nell’art. 4 più sopra commentato. La richiesta può essere effettuata dal minore stesso o da altre persone o organismi.

Il Rapporto esplicativo della Convenzione fornisce, in via esemplificativa, un elenco di possibili categorie di controversie familiari, tra cui l’affidamento, il diritto di visita, le azioni di stato, l’amministrazione dei beni del fanciullo, l’adozione, la decadenza e la limitazione della potestà genitoriale. Si sottolinea nel Rapporto che l’elenco non è tassativo, e si auspica che gli Stati ratificanti indichino un numero maggiore di controversie rispetto a quello minimo richiesto.

Il nostro Paese (che ha ratificato la Convenzione con legge n. 77/2003) ha esercitato tale facoltà di scelta in modo non del tutto condivisibile.

 Anziché indicare categorie di controversie, il legislatore nazionale ha indicato, infatti, sette articoli del codice civile, di cui tre limitatamente ad un solo comma. Per di più, si tratta di norme che non è possibile raggruppare in ordine logico o per categorie omogenee.

Gli articoli del codice civile segnalati sono i seguenti:

- art. 145 (intervento del giudice in caso di disaccordo fra i coniugi circa l’indirizzo della vita familiare);

- art. 244 ultimo comma (azione di disconoscimento promossa dal curatore speciale dell’ultrasedicenne);

- art. 247 ultimo comma (legittimazione passiva nell’azione di disconoscimento, nel caso di morte del presunto padre o madre o figlio);

- art. 264 comma 2 (autorizzazione del figlio ultrasedicenne ad impugnare il riconoscimento);

- art. 274 (ammissibilità dell’azione giudiziale di paternità);

- art. 322 (annullabilità degli atti compiuti dai genitori in nome e per conto del figlio minore senza le autorizzazioni necessarie);

- art. 323 (atti vietati ai genitori).

E’ stato giustamente osservato che la Convenzione contiene norme di diversa natura, talune da ritenersi non autoapplictive o self-executing, altre invece suscettibili di immediata applicazione.

Tra le prime, sono da collocare tutte quelle che non contengono obblighi per gli Stati membri, ma si limitano ad attribuire delle facoltà, come per gli articoli 4 comma 2°, 5, 9 comma 2°, 13, ecc. Per la loro applicabilità nell’ordinamento interno è certamente necessaria una modifica normativa, che il governo ben avrebbe potuto effettuare con la delega prevista nel precedente d.d.l. ma che ora non ha il potere di introdurre.

Tra le seconde, da ritenersi autoapplicative e quindi immediatamente applicabili anche alla luce della fondamentale sentenza nr. 1/2002 della Corte Costituzionale e della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo, spicca l’art. 3, che come sopra si è detto riconosce al minore un triplice ordine di diritti: diritto all’informazione, diritto all’ascolto, diritto alla spiegazione degli effetti delle decisioni.

Lo stesso può dirsi circa l’art. 6, relativo al ruolo dell’autorità giudiziaria, che nella formazione della decisione ha il dovere preliminare di accertarsi della completezza delle informazioni in suo possesso ed in possesso del minore, nonché il dovere di “consultare il minore personalmente” e di tenere nel debito conto la sua opinione.

Si tratta di norme che, se applicate in maniera convinta e non meramente formale, sono capaci di incidere profondamente sulle modalità di condurre il processo in materia familiare, dando al minore un’attenzione e uno spazio che sino ad ora gli sono stati completamente negati sia dal legislatore sia dall’interprete.

Nella nozione riportata nelle Convenzioni internazionali, l’ascolto è il diritto del bambino di esprimere la sua opinione trovando orecchie e considerazione in chi lo ascolta.

Questa definizione dell’ascolto abbisogna di alcune sottolineature.

·        L’ascolto è una delle forme della comunicazione con il minore.

·        L’ascolto, definito dalla parte del minore, è il suo diritto, dopo essere stato informato, di esprimere la propria opinione, di avere un interlocutore che gli presti attenzione, sia capace di comprenderlo e da cui sia effettivamente compreso e, infine, di essere considerato in ciò che dice.

·        Definito dalla parte dell’interlocutore adulto, l’ascolto non attiene solo al campo dell’azione (sentire) ma al campo della comprensione.

·        L’ascolto concerne specialmente, quanto al suo oggetto, i problemi relativi al bambino nella procedura che lo concerne.

·        Sotto un profilo strettamente giuridico va sottolineato che le opinioni del fanciullo devono essere prese debitamente in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità, per cui deve essere attribuito un qualche rilievo giuridico ai contenuti della comunicazione del bambino sulle questioni che lo riguardano.

L’ascolto ha come soggetto attivo il minore. Esso costituisce manifestazione di desideri ed emozioni e, proprio per questo, può essere in qualche modo liberatorio.

Attraverso l’ascolto il minore, senza diventare parte, è presente nel procedimento e compartecipe consapevole del progetto che lo riguarda.

L’ascolto non può essere inteso come una semplice “presa d’atto” delle opinioni o delle decisioni del minore.

Ascoltare il minore significa, invece, permettergli di leggere dentro se stesso e cercare di capire, magari attraverso la collaborazione di personale specialistico, quelle che sono le sue aspirazioni, i suoi desideri, ma anche le sue paure e i suoi bisogni.

Nell’ascolto è necessario prestare molta attenzione al linguaggio utilizzato dal minore, ai suoi messaggi nascosti.

E’ fondamentale allentare le sue resistenze, cercare di far emergere le sue paure, i suoi vissuti, prestando molta attenzione all’ambiente familiare che lo riguarda.

La possibilità di “dare voce al minore” è condizionata necessariamente dalla sua famiglia, la quale percepisce l’intervento, del giudice o dello psicologo, come intrusivo.

Lavorare sulle relazioni parentali in un contesto mediativo che coinvolga in prima persona i genitori, permette di evidenziare maggiormente anche il ruolo del minore, il quale viene così a far parte di un processo di cambiamento non più dietro le quinte, ma in qualità di attore protagonista.

Ascoltare il minore significa dargli più spazio, più attenzione, accoglierlo e farsi accogliere nel suo mondo; ascoltare significa ascoltare anche i problemi dei suoi genitori, affinché questi si sentano maggiormente valorizzati nel loro ruolo genitoriale al punto da rendersi più disponibili a mutare i loro atteggiamenti, non solo verso se stessi, ma soprattutto verso il loro figlio.

Ecco, allora, che diventa fondamentale la nascita di un’equipe psico-sociale che operi nell’interesse e in direzione di tutta la famiglia e con un elevato grado di specializzazione, per il rispetto di una funzione e di una responsabilità che da professionale diviene anche sociale.

 

 

Numerosi sono i procedimenti, soprattutto in ambito civile, davanti al Tribunale per i minorenni ed anche davanti al Tribunale ordinario, nei quali il bambino è il protagonista principale dell’intera vicenda umana in discussione ed anche il destinatario principale delle decisioni che ne emergeranno.

Ad esempio, il bambino potrebbe trovarsi coinvolto in un procedimento (di separazione o divorzio) che principalmente riguarda i suoi genitori, ma il cui esito finale ricade in maniera determinante sulla sua vita futura; o, ancora, potrebbe essere chiamato a descrivere fatti o avvenimenti dei quali è venuto a conoscenza e che sono fondamentali per la risoluzione di una vicenda che abbia rilevanza civile o penale; infine, potrebbe essere vittima di reato commesso da adulti o da minorenni, ovvero, essere egli stesso oggetto di indagini ed accertamenti in quanto autore di un fatto che costituisce reato.

In questo particolare ed insolito contesto è fondamentale poter garantire al minore la possibilità di far conoscere le proprie opinioni, le proprie aspettative, i propri sentimenti; soprattutto quando si dovrà decidere sulla sua vita futura.

Il termine ascolto non compare nella legge italiana, che in varie disposizioni prevede un diritto del minore di essere sentito. Ne deriva che ogni disposizione che prevede che il minore sia sentito deve essere letta attribuendo al sentire il significato che l’ascolto è venuto assumendo nelle convenzioni internazionali.

L’art. 12 della Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo del 1989 riconosce al bambino "il diritto di esprimere la propria opinione liberamente e in qualsiasi materia, dovendosi dare alle sue opinioni il giusto peso relativamente alla sua età e maturità. A tale scopo, in tutti i procedimenti giuridici o amministrativi che coinvolgono un bambino deve essere offerta l’occasione affinchè lo stesso venga udito direttamente o indirettamente per mezzo di un rappresentante o di una apposita istituzione, in accordo con le procedure della legislazione nazionale".

Quanto all’Italia, si è ritenuto in generale che la norma in esame abbia introdotto una previsione generalizzata di audizione del minore in tutte le procedure che lo riguardano, tanto che si è proposto di considerare l’ascolto del minore che abbia compiuto i dodici anni come obbligatorio in ogni procedimento giudiziario che lo coinvolga, a meno che il giudice non lo ritenga pregiudizievole o ininfluente con provvedimento motivato.

Anche la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli del 1996, disciplina chiaramente l’ascolto del minore in tutti i procedimenti che lo coinvolgono.

La Convenzione è stata definita un trattato per l’attuazione, in particolare, dell’art. 12 dell’accordo delle Nazioni Unite; infatti, dopo che nel Preambolo gli Stati manifestano la convinzione che i diritti e gli interessi preminenti dei minori debbano essere favoriti e che a tal fine i minori debbano avere la possibilità di esercitare tali diritti (in particolare nei procedimenti riguardanti i rapporti di famiglia che li riguardino), all’art. 3, viene sancito il diritto del fanciullo a:

·        ricevere tutte le informazioni pertinenti (lett. a);

·        essere consultato ed esprimere la propria opinione (lett. b);

·        essere informato sulle possibili conseguenze delle aspirazioni da lui manifestate e delle possibili conseguenze di ogni decisione (lett. c).

 L’art. 5, intitolato “Altri possibili diritti processuali”, stabilisce, inoltre, che “le Parti esaminano l’opportunità di riconoscere ai minori ulteriori diritti processuali nelle procedura giudiziarie che li riguardano, ed in particolare:

 a) il diritto di chiedere l’assistenza di una persona idonea di loro scelta, che li aiuti ad esprimere la loro opinione;

b) il diritto di chiedere, personalmente o tramite altre persone od organismi, la nomina di un diverso rappresentate, se del caso un avvocato;

c) il diritto di nominare un proprio rappresentante;

d) il diritto di esercitare, in tutto o in parte, le prerogative delle parti in simili procedure”.

La formulazione della norma, frutto di lunghi dibattiti e di faticosi compromessi in sede di Comitato di esperti, è assai restrittiva e riduce di molto l’obiettivo iniziale.

Essa infatti non pone obblighi agli Stati membri, ma solo li invita a valutare l’opportunità di introdurre nel diritto interno uno o più dei quattro diritti processuali elencati in ordine di crescente importanza.

Si va da una mera “assistenza” di persona di fiducia del minore (lettera d), istituto che in qualche modo ritroviamo anche nel nostro processo penale minorile (cfr. art. 12 d.p.r. 22.9.1988 n. 448), all’ipotesi massima di vera e propria capacità processale anticipata (lettera g), con ipotesi intermedie concernenti la nomina di un “diverso rappresentante”, vale a dire un rappresentante legale diverso dai genitori, e ciò anche al di fuori dalle ipotesi di conflitto di interessi previste nell’art. 4 più sopra commentato. La richiesta può essere effettuata dal minore stesso o da altre persone o organismi.

Il Rapporto esplicativo della Convenzione fornisce, in via esemplificativa, un elenco di possibili categorie di controversie familiari, tra cui l’affidamento, il diritto di visita, le azioni di stato, l’amministrazione dei beni del fanciullo, l’adozione, la decadenza e la limitazione della potestà genitoriale. Si sottolinea nel Rapporto che l’elenco non è tassativo, e si auspica che gli Stati ratificanti indichino un numero maggiore di controversie rispetto a quello minimo richiesto.

Il nostro Paese (che ha ratificato la Convenzione con legge n. 77/2003) ha esercitato tale facoltà di scelta in modo non del tutto condivisibile.

 Anziché indicare categorie di controversie, il legislatore nazionale ha indicato, infatti, sette articoli del codice civile, di cui tre limitatamente ad un solo comma. Per di più, si tratta di norme che non è possibile raggruppare in ordine logico o per categorie omogenee.

Gli articoli del codice civile segnalati sono i seguenti:

- art. 145 (intervento del giudice in caso di disaccordo fra i coniugi circa l’indirizzo della vita familiare);

- art. 244 ultimo comma (azione di disconoscimento promossa dal curatore speciale dell’ultrasedicenne);

- art. 247 ultimo comma (legittimazione passiva nell’azione di disconoscimento, nel caso di morte del presunto padre o madre o figlio);

- art. 264 comma 2 (autorizzazione del figlio ultrasedicenne ad impugnare il riconoscimento);

- art. 274 (ammissibilità dell’azione giudiziale di paternità);

- art. 322 (annullabilità degli atti compiuti dai genitori in nome e per conto del figlio minore senza le autorizzazioni necessarie);

- art. 323 (atti vietati ai genitori).

E’ stato giustamente osservato che la Convenzione contiene norme di diversa natura, talune da ritenersi non autoapplictive o self-executing, altre invece suscettibili di immediata applicazione.

Tra le prime, sono da collocare tutte quelle che non contengono obblighi per gli Stati membri, ma si limitano ad attribuire delle facoltà, come per gli articoli 4 comma 2°, 5, 9 comma 2°, 13, ecc. Per la loro applicabilità nell’ordinamento interno è certamente necessaria una modifica normativa, che il governo ben avrebbe potuto effettuare con la delega prevista nel precedente d.d.l. ma che ora non ha il potere di introdurre.

Tra le seconde, da ritenersi autoapplicative e quindi immediatamente applicabili anche alla luce della fondamentale sentenza nr. 1/2002 della Corte Costituzionale e della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo, spicca l’art. 3, che come sopra si è detto riconosce al minore un triplice ordine di diritti: diritto all’informazione, diritto all’ascolto, diritto alla spiegazione degli effetti delle decisioni.

Lo stesso può dirsi circa l’art. 6, relativo al ruolo dell’autorità giudiziaria, che nella formazione della decisione ha il dovere preliminare di accertarsi della completezza delle informazioni in suo possesso ed in possesso del minore, nonché il dovere di “consultare il minore personalmente” e di tenere nel debito conto la sua opinione.

Si tratta di norme che, se applicate in maniera convinta e non meramente formale, sono capaci di incidere profondamente sulle modalità di condurre il processo in materia familiare, dando al minore un’attenzione e uno spazio che sino ad ora gli sono stati completamente negati sia dal legislatore sia dall’interprete.

Nella nozione riportata nelle Convenzioni internazionali, l’ascolto è il diritto del bambino di esprimere la sua opinione trovando orecchie e considerazione in chi lo ascolta.

Questa definizione dell’ascolto abbisogna di alcune sottolineature.

·        L’ascolto è una delle forme della comunicazione con il minore.

·        L’ascolto, definito dalla parte del minore, è il suo diritto, dopo essere stato informato, di esprimere la propria opinione, di avere un interlocutore che gli presti attenzione, sia capace di comprenderlo e da cui sia effettivamente compreso e, infine, di essere considerato in ciò che dice.

·        Definito dalla parte dell’interlocutore adulto, l’ascolto non attiene solo al campo dell’azione (sentire) ma al campo della comprensione.

·        L’ascolto concerne specialmente, quanto al suo oggetto, i problemi relativi al bambino nella procedura che lo concerne.

·        Sotto un profilo strettamente giuridico va sottolineato che le opinioni del fanciullo devono essere prese debitamente in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità, per cui deve essere attribuito un qualche rilievo giuridico ai contenuti della comunicazione del bambino sulle questioni che lo riguardano.

L’ascolto ha come soggetto attivo il minore. Esso costituisce manifestazione di desideri ed emozioni e, proprio per questo, può essere in qualche modo liberatorio.

Attraverso l’ascolto il minore, senza diventare parte, è presente nel procedimento e compartecipe consapevole del progetto che lo riguarda.

L’ascolto non può essere inteso come una semplice “presa d’atto” delle opinioni o delle decisioni del minore.

Ascoltare il minore significa, invece, permettergli di leggere dentro se stesso e cercare di capire, magari attraverso la collaborazione di personale specialistico, quelle che sono le sue aspirazioni, i suoi desideri, ma anche le sue paure e i suoi bisogni.

Nell’ascolto è necessario prestare molta attenzione al linguaggio utilizzato dal minore, ai suoi messaggi nascosti.

E’ fondamentale allentare le sue resistenze, cercare di far emergere le sue paure, i suoi vissuti, prestando molta attenzione all’ambiente familiare che lo riguarda.

La possibilità di “dare voce al minore” è condizionata necessariamente dalla sua famiglia, la quale percepisce l’intervento, del giudice o dello psicologo, come intrusivo.

Lavorare sulle relazioni parentali in un contesto mediativo che coinvolga in prima persona i genitori, permette di evidenziare maggiormente anche il ruolo del minore, il quale viene così a far parte di un processo di cambiamento non più dietro le quinte, ma in qualità di attore protagonista.

Ascoltare il minore significa dargli più spazio, più attenzione, accoglierlo e farsi accogliere nel suo mondo; ascoltare significa ascoltare anche i problemi dei suoi genitori, affinché questi si sentano maggiormente valorizzati nel loro ruolo genitoriale al punto da rendersi più disponibili a mutare i loro atteggiamenti, non solo verso se stessi, ma soprattutto verso il loro figlio.

Ecco, allora, che diventa fondamentale la nascita di un’equipe psico-sociale che operi nell’interesse e in direzione di tutta la famiglia e con un elevato grado di specializzazione, per il rispetto di una funzione e di una responsabilità che da professionale diviene anche sociale.