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Le libertà economiche vanno protette per via democratica o può farsi ricorso all’attivismo giudiziale? Un discorso di Scalia

L'angolo innamorato, Treviso, 14 febbraio 2021
Ph. Francesca Russo / L'angolo innamorato, Treviso, 14 febbraio 2021

Il 13 febbraio di cinque anni fa, moriva Justice Antonin Scalia. Idolo dei conservatori, arci-nemico dei liberal, egli è stato un punto di riferimento, per adesione o per contrasto, di tanti giuristi americani e non. Nominato alla Corte suprema da Ronald Reagan nel 1986, Scalia è diventato negli anni il punto di riferimento del movimento “testualista” o “originalista”, per il quale le leggi e la Costituzione vanno interpretate secondo il senso ragionevolmente emergente dal loro testo, avuto riguardo al cosiddetto “original public meaning”, ovverosia al modo in cui un cittadino medio, al tempo dell’adozione della norma, avrebbe inteso il significato delle parole della legge.

Il metodo interpretativo propugnato da Scalia ha avuto il pregio di fare chiarezza, ancorché in modo alle volte troppo netto, tra le responsabilità dei giudici e quelle degli eletti e degli elettori: ai primi spetta il compito di applicare la legge “per come è scritta”, anche quando ciò risulta in contrasto con i movimenti evolutivi che si registrano nella coscienza sociale; ai secondi è riservato il potere – e il connesso dovere – di modificare le leggi (compresa la più alta tra di esse, la Costituzione) in modo da adeguarle al mutato sentire sociale.

Il testualismo viene spesso caricaturizzato come filosofia al servizio di obiettivi politici conservatori, ma come mostrato da un discorso che lo stesso Scalia ha tenuto nel 1985, ora tradotto dall’Istituto Bruno Leoni, questo non corrisponde al vero. L’autore non ha problemi nel riconoscere che «il libero mercato, che presuppone una libertà economica relativamente ampia, è stato storicamente la culla di un’ampia libertà politica, e nei tempi moderni la fine della libertà economica è stata anche la tomba della libertà politica». Detto altrimenti, non esistono dubbi sul fatto che tra le fondamenta su cui si regge il modello di società libera ci siano il godimento di un alto grado di libertà economiche e la protezione dei diritti di iniziativa privata. Ma che ruolo possono avere i giudici, in un modello del genere? Guardando precipuamente all’esperienza statunitense, Scalia osserva che i giudici devono assicurare che «l’esecutivo non imponga alcun vincolo all’attività economica che il Congresso non abbia autorizzato; e che là dove i vincoli siano autorizzati, l’esecutivo segua le procedure prescritte dalla legge e dalla Costituzione»; tuttavia, aggiunge, essi non possono spingersi a statuire «che la sostanza del vincolo autorizzato dal Congresso sia illegittima»: il che vuol dire che i tribunali possono soltanto «fornire una protezione di rango costituzionale solo quanto alle questioni procedurali, diverse pertanto dagli aspetti sostanziali delle libertà economiche». La definizione di questi ultimi, nel senso di una loro più intensa protezione, è rimessa alla responsabilità del processo democratico.

La conclusione che Scalia trae nei confronti del giudice americano non è per forza di cose la stessa che potrebbe darsi per un giudice italiano. Se, infatti, nella Costituzione statunitense sembrano mancare garanzie “sostanziali” espresse, nella nostra Carta fondamentale gli articoli 41 e 42 (ma si pensi anche alle fonti sovranazionali) fissano delle garanzie contenutistiche minime che come tali i giudici, di merito ma soprattutto costituzionali, dovrebbero sicuramente essere pronti a far rispettare. Invero, l’aspetto più interessante – e questo sì, valido su entrambe le sponde dell’oceano – è l’accento che Scalia pone sulla necessità di respingere la tentazione di costituzionalizzare protezioni per i diritti economici (ma vale per qualsiasi diritto) prive di adeguato sostegno popolare. «Se fossi un legislatore – chiosa l’autore – potrei ben votare per approvarle», ma il compito del giudice non è quello di sostituirsi alla volontà popolare: «il ripudio della tradizione di mezzo secolo di judicial restraint in campo economico è una soluzione da rifiutare», poiché «nel lungo periodo, e forse anche nel breve, il rafforzamento dell’erronea e incostituzionale percezione del ruolo dei tribunali nel nostro sistema sarebbe ben più grave di qualsiasi altro male che possa essere venuto da una indebita judicial abstension nel campo economico».

Ma vi è di più. La protezione dei diritti economici per via giudiziaria e non democratica potrebbe infatti rivelarsi un’arma a doppio taglio. Spiega Scalia che non vi è ragione per «credere che i tribunali limiterebbero la costituzionalizzazione dei diritti economici soltanto a quelli che, tra questi ultimi, appaiono ragionevoli. Se il punto di riferimento è una ricercata comprensione dei problemi, è sufficiente ricordare che sono stati i giudici a sviluppare quasi un secolo di controproducente giurisprudenza in materia di antitrust. Ma forse ciò che conta non è questa ricercata comprensione dei problemi, ma una propensione favorevole – non condivisa dagli organi politici – verso la proprietà e la sua protezione. Non ho dubbi che questo sentimento fosse presente nei giudici di un tempo: quando Madison li descrisse come una “aristocrazia naturale”, sono certo che stesse pensando a una élite tanto di proprietari, quanto di gentiluomini; ma con la proliferazione e la conseguente burocratizzazione dei giudici, con annessa modestia del loro stipendio e, soprattutto, con l’educazione dei giuristi in un sistema universitario in cui si promuove più una filosofia collettivista che una capitalista, solo uno sciocco potrebbe pensare di trovare un Daddy Warbucks [un personaggio della serie a fumetti Little Orphan Annie, un miliardario self-made man che incarna le migliori virtù capitaliste, ndr] in toga».

Insomma, è l’avvertimento di Scalia, meglio stare attenti a ciò che si desidera, perché il rischio è ritrovarsi «vessati da libertà economiche giudizialmente inventate ben peggiori dei preesistenti limiti all’iniziativa privata». In ogni caso, al netto di spiacevoli controindicazioni, il tema fondamentale è comprendere l’effettiva natura del «processo di costituzionalizzazione», il quale – per certi aspetti – assomiglia a un «prestito per un’attività commerciale: lo puoi ottenere solo se, al momento della richiesta, non ne hai davvero bisogno... Le più importanti, durature e stabili parti della Costituzione riflettono un così profondo consenso sociale da far sospettare che se esse venissero del tutto eliminate, cambierebbe ben poco nella società: e lo stesso vale all’inverso. Una garanzia potrebbe apparire nel testo della Costituzione, ma quando la società smette di credere fermamente nella sua verità, perde tutti i suoi».

Questo non vuol dire che «la costituzionalizzazione non ha alcun effetto nell’aiutare la società a preservare la lealtà ai propri principi fondamentali, giacché questo è il fine primario di una Costituzione: ma prima viene l’adesione a un principio, e solo dopo la sua preservazione».

L’invito, dunque, al cittadino americano e – sia pure in diversa forma – anche al cittadino italiano è uno solo: «se si hanno a cuore le libertà economiche il primo passo è quello di ricordare alla società la loro importanza», giacché «la carenza di questo sentimento può essere disdicevole, ma cercare di rimediarvi consacrando in Costituzione principi privi di sostegno popolare significa mettere il carro davanti ai buoi». Vero è che quello giudiziario è un potere per definizione contro-maggioritario, che pertanto è tenuto a garantire l’applicazione dei diritti fondamentali anche quando questo scontenti le maggioranze politiche; ma è altrettanto vero che il suo mandato si fonda su un atto originariamente maggioritario. È il popolo che, in un dato momento storico, decide che non solo per l’immediato presente, ma anche e soprattutto per il futuro certi diritti e libertà vanno posti al di là della portata delle maggioranze elettorali e, quindi, sottratti all’agone democratico, in cui, per dirla con Dante, si procede invece «provando e riprovando», cioè approvando o rifiutando, in modo abbastanza fluido determinate soluzioni. È il popolo, in definitiva, che deve essere convinto della bontà della protezione costituzionale delle libertà economiche, non il giudice attivista. La rifondazione di quella che Scalia definisce «un’etica costituzionale della libertà economica» è sicuramente un compito difficile, eppure «è la prima cosa da fare».