Le morti sul lavoro: un triste primato italiano
Le morti sul lavoro: dati 2021 e prime considerazioni di merito
È purtroppo un tristissimo bollettino quello che, nostro malgrado, dobbiamo leggere sul sito istituzionale INAIL con riguardo alle morti sul lavoro, meglio note anche come “morti bianche” dove l’aggettivo “bianco” vorrebbe far intendere l’assenza di una “mano responsabile” in modo diretto dell’evento decesso.
La terminologia di volta in volta utilizzata, in verità, fa trasparire anche il giusto sentimento di riprovazione e di vergogna che ci assale nel momento in cui si venga a trattare questo doloroso argomento.
Così, ad esempio, non manca nemmeno chi, probabilmente mosso più di altri da intenti sensazionalistici data anche l’enorme eco mediatica che la problematica in esame inevitabilmente assume, ne parla addirittura come “omicidio del lavoro”, dandone un significato volutamente colpevolista nei confronti del datore di lavoro, sebbene nella quasi esclusività dei casi ciò che può essere ascritto a quest’ultimo è dimostrato essere un comportamento colposo o, a tutto concedere, di dolo eventuale (qualora alla volontà della condotta si accompagna la conoscenza del verificarsi dell’evento quale conseguenza di questa, e la consapevole accettazione del rischio che esso effettivamente avvenga senza l’intenzionale e diretta volizione di esso, che invece caratterizza il dolo intenzionale o diretto).
In ogni caso, qualunque sia la denominazione che si voglia adottare, secondo le più recenti rilevazioni dell’INAIL le morti sul lavoro, a tutto lo scorso mese di luglio, erano complessivamente 677 con una diminuzione percentuale rispetto all’annualità precedente dichiarata del 5,4%.
Con condivisibile prudenza, tuttavia, lo stesso Ente sottolinea come questo dato debba essere letto ed analizzato con estrema cautela e con la doverosa considerazione dell’impatto che la pandemia COVID ha inevitabilmente generato, a partire dal mese di marzo del 2020, anche con riguardo a questo particolare evento lesivo.
Più specificatamente, l’INAIL motiva questa sua circospetta disamina unicamente sul fatto che la situazione pandemica avrebbe generato un inevitabile ritardo nelle denunce da morti sul lavoro, senza tuttavia considerare, a nostro parere, come il certificato miglioramento sia stato piuttosto determinato dall’interruzione forzata delle attività lavorative che ancora oggi contraddistingue il sistema-lavoro del nostro Paese e, quindi, dalla minore presenza fisica di lavoratori sui rispettivi posti di lavoro, conseguenza oltre che di sopraggiunte ragioni di salute anche dell’adozione di nuove e differenti modalità di prestazione lavorativa, in primis lo smart working.
Occorre, infatti, rilevare come nell’immaginario collettivo sia troppo spesso radicata l’idea che le morti sul lavoro siano appannaggio soltanto, o in maniera quasi esclusiva, di alcune categorie di lavoratori, e precisamente quelli dediti ai lavori più pesanti o pericolosi, tralasciando invece di considerare come nella causazione dell’evento mortale intervengano fattori, di luogo e di tempo, che interessano l’intera durata della prestazione lavorativa, qualunque essa sia.
Non ci meraviglia dunque il fatto che in una recente interrogazione avanzata dagli europarlamentari italiani Zambelli e Lizzi in data 12 maggio 2021 con oggetto “incidenti e morti sul lavoro dell’Unione Europea” si sia fatto riferimento al fatto che l’Olanda, la Germania e la Svezia, sia pure secondo una rilevazione risalente al 2018, siano i paesi europei con il minor numero di fatalità mortali rispetto al totale della forza lavoro.
Non stupisce, oltretutto, nemmeno l’ulteriore dato di fatto, ricavabile sempre dall’approfondimento INAIL, secondo il quale, a tutto il mese di luglio di quest’anno, vi siano stati 11 incidenti plurimi con un totale di 27 decessi, 17 dei quali stradali, a dimostrazione dell’incidenza che la variabile spostamento da e per il proprio luogo di lavoro assume in tal senso, nemmeno troppo mitigata dal ricorso sempre più spedito e generalizzato al lavoro da remoto sopra ricordato.
Si rientra, del resto, anche con questa dolorosa statistica in quel concetto di “infortunio in itinere” che è intimamente connesso ai rischi conseguenti al tragitto che il lavoratore si trova necessariamente a percorrere per assolvere al proprio obbligo lavorativo e che, ai sensi del D. Lgs. n. 38 del 2000, il legislatore ha giustamente ricompreso nella copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965.
D’altra parte, si pensi che solo il crollo del Ponte Morandi a Genova, che nel 2018 ha sollevato così tanta riprovazione in tutta la collettività per le negligenze e le omissioni che lo hanno di fatto determinato, ha causato, in un unico interminabile frangente, la morte di ben 15 lavoratori.
Ad avvalorare, altresì, la prudente lettura dei dati sopra ricordati interviene anche un’ulteriore considerazione, e cioè quella relativa alla certa incidenza degli eventi mortali in caso di lavoro nero, sebbene l’esperienza e la logica dovrebbero dimostrarci come in questi casi di attività lavorative sommerse il celare o dissimulare fatti di tale gravità risulti certamente più complesso e difficoltoso rispetto alla molteplicità di lesioni subite da lavoratori irregolari.
Le morti sul lavoro: qualificazione giuridica e normativa di riferimento
Dal punto di vista giuridico e normativo la morte sul lavoro costituisce una species del più ampio genus dell’infortunio sul lavoro.
Effettivamente, scorrendo le disposizioni normative del nostro Codice Civile e di quello processual-civilistico non riscontriamo in alcun modo, da parte del nostro Legislatore, l’uso di tale terminologia, dovendo piuttosto far riferimento alla nozione, appunto più generale, sopra ricordata della quale la morte sul lavoro rappresenta la conseguenza pregiudizievole più grave ed ovviamente più rilevante sotto un profilo della responsabilità del fatto e delle implicazioni risarcitorie e penali che ne derivano.
In particolare, pertanto, ricordiamo come la norma regolatrice della fattispecie di danno conseguente alla morte sul lavoro sia sempre quella, da tutti riconosciuta come di chiusura nel contesto normativo in tema di sicurezza sul lavoro, di cui all’art. 2087 del Codice Civile dalla quale proviene l’obbligo per il datore di lavoro di “adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” in modo da evitare, a maggior ragione, un tale grave ed irreparabile evento lesivo.
Solo nel Testo Unico in materia di assicurazione obbligatoria di cui al D.P.R. n. 1124 del 30 giugno 1965, poi modificato dal D. lgs n. 38 del 23 febbraio 2000, e segnatamente nell’art. 2, può rinvenirsi il riferimento esplicito alla locuzione morte sul lavoro come effetto di quegli eventi lesivi “ avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un'inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un'inabilità temporanea assoluta che importi l'astensione dal lavoro”.
A questo “silenzio” oltretutto non sfugge nemmeno la giurisprudenza, i cui esponenti, soprattutto di legittimità, preferiscono utilizzare la locuzione, molto più precisa e puntuale, di “infortunio mortale sul lavoro” (si veda, ad esempio, Cass. Civile – Sezione Lavoro - sent. n. 20533 del 13 ottobre 2015), piuttosto che di morte sul lavoro.
Anche l’espressione morti sul lavoro così diffusa nella nostra terminologia in realtà molto spesso assume una accezione soggettivistica, quasi ad individuare le vittime e, quindi, i soggetti passivi dell’evento-infortunio mortale.
Le morti sul lavoro: aspetti identificativi della fattispecie di infortunio
Proprio la pronuncia appena riportata sottopone alla nostra attenzione un fondamentale criterio di identificazione della morte sul lavoro quale sottospecie dell’infortunio sul lavoro, e cioè quello della responsabilità del datore di lavoro per detto evento lesivo anche in caso di comportamento assertivamente abnorme tenuto dal lavoratore.
La Corte Suprema, infatti, nella doverosa attenta valutazione dei fatti di causa e degli elementi di prova acquisiti, ha ritenuto ispirarsi alla corretta interpretazione del citato art. 2087 c.c. nell’affermare come "..essa sia riconducibile alla particolare natura del contratto di lavoro, il quale non si configura quale contratto di semplice scambio fra prestazione e retribuzione, implicando anche l'insorgenza di obblighi di natura non patrimoniale, quale quello di tutela dell'integrità fisica e morale del lavoratore.." per rafforzare il principio secondo il quale il datore di lavoro deve mettere in atto tutte quelle misure atte a tutelare l'integrità psico fisica del lavoratore prevedendone qualsiasi comportamento presumibilmente messo in atto dal dipendente in occasione dello svolgimento della sua attività lavorativa, ivi compreso quello che porti eventualmente al decesso dello stesso dipendente.
Anche in ipotesi di morte sul lavoro, dunque, l’orientamento della Corte Suprema circa gli obblighi di tutela della salute posti a carico del datore di lavoro e l'esclusione del rapporto di causalità tra inadempimento del datore di lavoro ed evento rimane fermo nell’affermare che tale esclusione avviene solo quando il fatto mortale sia “autosufficiente” nel suo verificarsi e cioè quando abbia il carattere dell'abnormità per essere assolutamente anomalo ed imprevedibile (si vedano, per tutte, in tema di comportamento abnorme, Cass. Civ. 28 luglio 2004 n. 14270, cui Cass. Civ. 13 agosto 2008 n. 21590, Cass. Civ. 17 febbraio 2009 n. 3788, Cass. Civ. 26 giugno 2009 n. 15078 e Cass. Civ. n. 12562/2014).
Sempre i Giudici di legittimità, in applicazione dei principi generali di diritto vigenti in materia di sicurezza sul lavoro, ha ritenuto colpevole di omicidio colposo anche il Coordinatore per l’esecuzione dei lavori in una al datore di lavoro (si veda Cass. Civ. sent. 19 aprile 2019 n. 17213) in relazione ai suoi obblighi in tema di adeguamento delle prescrizioni del piano di sicurezza del luogo di lavoro, ribadendo in proposito, a maggior ragione per le fattispecie di morti sul lavoro, quel concetto di “alta vigilanza” che è proprio di tale figura, ontologicamente operante non tanto sul posto di lavoro ma piuttosto mediante procedure programmatiche di approntamento di misure di sicurezza.
Si tratta, in ogni caso, di pronunce isolate che trattano l’evento morte sul lavoro sia pure ricollegandolo a specifiche problematiche giuridiche del più ampio contesto della sicurezza sul lavoro, ad ulteriore dimostrazione della già rilevata individuazione di tale tematica come espressione di un effetto di un fatto lesivo.
Le morti sul lavoro: l’incidenza della pandemia da Covid 19
L’avvento incontrollato ed improvviso del Coronavirus ha rappresentato certamente una novità di assoluto rilievo nel panorama più ampio dell’infortunio sul lavoro, nella cui qualificazione giuridica, peraltro, la normativa emergenziale di cui al comma 2 dell’art. 42 del D.L. n. 18 del 17 marzo 2020, convertito nella Legge n. 27 del 2020 (“nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del Decreto Interministeriale 27 febbraio 2019. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”) ha ricondotto espressamente le fattispecie di contrazione del virus in occasione di lavoro.
Con questa disposizione legislativa, infatti, si è data applicazione a quell’orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione, ribadito anche dall’INAIL nella sua primigenia Circolare n. 74 del 23 novembre 1995, secondo il quale la causa virulenta della morte sul lavoro o anche solo della lesione del lavoratore sia perfettamente equiparabile a quella violenta, dal momento che anche l’aggressione del virus è idonea a compromettere l’integrità psico-fisica del lavoratore con una azione intensa e concentrata nel tempo.
La posizione assunta dai Giudici di legittimità, del resto, non rappresenta una novità nel nostro sistema giuridico, sol che si pensi alle innumerevoli pronunce che nel tempo hanno legittimato il diritto dei lavoratori, ad esempio del personale sanitario, a vedersi riconosciute le prerogative in termini di risarcimento del danno e di prestazioni previdenziali ed assicurative di legge nel caso in cui siano stati vittime di fattori microbici o virali i cui effetti si manifestino anche dopo un certo tempo (ad es. i casi-scuola da epatite HCV contratta da sanitari con strumenti infetti o da radiazioni da plutonio o altri materiali radioattivi contratte da militari in servizio).
Ovviamente siamo consapevoli come in queste ipotesi la difficoltà maggiore risieda nel fatto che sia oggettivamente complicato, soprattutto dinanzi ad un’infezione così subdola, ricollegare con la dovuta certezza la riscontrata infezione da Covid-19 al contesto lavorativo, essendo oltretutto onere del lavoratore provare il momento del contagio e, dunque, detto collegamento dell’infezione con la sua attività lavorativa, pur con la possibilità di fare ricorso alla prova per presunzioni ed alle regole di esperienza.
Sicuramente preziosa, e dobbiamo riconoscerlo anche lungimirante vista poi la durata della pandemia, è risultata essere in proposito la Circolare n. 13 emanata dall’INAIL il 13 aprile 2020, e dunque nell’immediatezza dello stato pandemico di emergenza, con la quale è stata configurata una presunzione semplice di origine professionale per il caso di contagio contratto dagli operatori sanitari ed il relativo rischio alla salute è stato ritenuto ex se aggravato sino a diventare rischio specifico, attesa la conclamata elevatissima probabilità del contagio per questa categoria di lavoratori.
Di rilievo è altresì il fatto che tale circolare abbia poi esteso tale presunzione semplice anche ad altre attività lavorative che comportino un costante contatto con il pubblico o con l’utenza, indicando in proposito, sia pure in via esemplificativa, i lavoratori che operino in front-office, quelli addetti alla cassa, gli operatori alle vendite e/o i banconisti, il personale non sanitario operante all’interno degli ospedali anche solo con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, gli operatori del trasporto infermi, etc.
Nella successiva circolare del 20 maggio 2020, lo stesso Ente ha tuttavia precisato che tale presunzione non si traduce in un automatico riconoscimento dell’occasione di lavoro, dal momento che la denuncia dell’infortunio rimane sempre soggetta al rigoroso accertamento della sussistenza dei fatti noti, precisi e concordanti sui quali si possa fondare una siffatta presunzione semplice di origine professionale e resta ferma ed impregiudicata la possibilità per l’Istituto di fornire una prova contraria all’assunto del lavoratore.
Si tratta, in ogni caso, di un contesto probatorio quanto mai indefinito ed aleatorio, reso ancora più complicato e gravoso dal fatto che rispetto all’epoca, iniziale, nella quale sono state emesse queste due circolari, la situazione generale del nostro Paese è radicalmente cambiata perché da una condizione di originaria costrizione quasi del tutto generalizzata dei lavoratori in casa, con spostamenti autorizzati e consentiti solo per recarsi al lavoro, da diverso tempo ormai le maglie delle restrizioni domiciliari si sono notevolmente allentate per cui la “concessione presuntiva” sopra ricordata allo stato certamente non ha più motivo di esistere e di essere chiamata in applicazione.
In verità, la linea di demarcazione che contraddistingue queste situazioni è quanto mai sottile e nelle ipotesi di morte sul lavoro diventa ancora più labile poiché riuscire a dimostrare il nesso causale dell’evento morte del lavoratore con il contagio ricevuto in un contesto lavorativo è oggettivamente difficoltoso, anche alla luce delle innumerevoli, fuorvianti e contraddittorie informazioni che continuiamo a ricevere quanto a modalità di gestione delle urgenze da parte del personale sanitario, a differenze oggettive di protocolli sanitari eventualmente seguiti, a complicanze soggettive derivanti dalle cure ricevute o dalla sottoposizione al ciclo vaccinale.
A ciò oltretutto si aggiunga che in caso di morte sul lavoro da contrazione virus giuridicamente qualificabile, la determinazione dei presupposti che legittimino la responsabilità penale, per omicidio colposo, del datore di lavoro e/o degli altri soggetti aziendali cui è demandata la salute e la sicurezza sul posto di lavoro è soggetta a criteri legali ben più pregnanti e rigorosi di quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative, non potendosi ovviamente prescindere dalla prova dell’imputabilità quanto meno a titolo di colpa della condotta tenuta dal datore di lavoro.
Ecco dunque perché in questo contesto troviamo decisivo il riferimento alla norma di cui all’art. 29-bis della Legge n. 40/2020, recante gli obblighi del datore di lavoro per la tutela contro il rischio da contagio da Covid-19, con la quale non a caso si è stabilito che esso datore risponde positivamente al precetto generale di sicurezza dell’art. 2087 del Codice Civile allorquando egli abbia applicato le prescrizioni previste nel protocollo sottoscritto tra Governo e Parti Sociali in data 24 aprile 2020 ed in quelli successivamente intervenuti.
Si potrebbe pensare, quindi, ad un atto di resa del Legislatore verso delle “norme” di mero indirizzo “dal valore pedagogico”, come enunciato da una parte della Dottrina (V. Mongillo, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro in tempi di pandemia, in Dir. Pen. Cont. - Riv. Trim., 2, 2020, pag. 25; E.M. Ambrosetti - L. Carraro, Emergenza coronavirus e profili penali: “fase 2” e sicurezza sul lavoro, in Resp. civ. e prev., pag. 713; C. Cupelli, Obblighi datoriali di tutela contro il rischio di contagio da Covid-19: un reale ridimensionamento della colpa penale? in Sist. pen., 15 giugno 2020) ma in realtà non è così.
Si tratta, infatti, pur sempre di norme che, al pari di quelle di grado superiore, indubbiamente risentono dell’incertezza scientifica del rischio-morte da governare al punto da essere state emanate, a nostro parere volutamente, con un ambito applicativo eccessivamente elastico, quasi a voler rimettere solo alla decisione discrezionale del datore di lavoro la valutazione sul detto rischio piuttosto che soffermarsi sulla reale ed oggettiva possibilità di incidenza della situazione emergenziale, soprattutto iniziale, sulle capacità di adempimento dell’obbligo di garanzia.
È fin troppo chiaro, del resto, come in una situazione di tal genere, con le già rilevate difficoltà di accertamento del nesso causale tra l’evento morte sul lavoro ed il contagio da virus per il concomitante intervento di tante altre occasioni di contagio estranee al contesto lavorativo, il compito rimesso al Giudice penale si presenterà ancora più delicato e complesso poiché la sua attenzione non potrà che interessare proprio tali condotte alternative del lavoratore per giungere a quel giudizio di “alta probabilità logica” che, in una alle circostanze del fatto specifico, faccia fondatamente ritenere sussistente il prescritto nesso causale.
In definitiva il dibattito nelle aule di giustizia è ancora lungo ad esaurirsi!