Le voci e i silenzi degli autografi: i musicisti richiestissimi
Da sempre appassionato di biografie, oltre che di opere d’arte, Piero Buscaroli seguì, per decenni, gli andamenti delle aste d’arte e di autografi. Da un articolo del 1981, risorgono voci e storie, frammenti di vite, curiosità, minuti frammenti che compongono le tracce di un passato che risorge.
Beatrice Buscaroli
Partecipai, molti anni fa, ad una grande asta di stampe e autografi, in una delle due case londinesi.
Vendite di quadri e sculture, mobili e gioielli, libri rari ed ora anche conchiglie, ventagli e farfalle, vi si susseguono per tutto l’anno.
Quelle di autografi sono più rare.
La prima, fu per me come vestire la toga virile del collezionista. Ricordo l’ansia con cui aspettai l’arrivo del “lotto” desiderato, con addosso la dannata paura di farmi soffiare l’oggetto per poche sterline di distacco, o che l’auctioner non s’accorgesse di me; senza dire la paura opposta, di risvegliarmi dall’ebbrezza di una corsa, di fronte alla sgradita realtà di un acquisito fatto per imprudenza, di un oggetto salito a cifre vertiginose, che non avrei mai potuto pagare.
Un’asta come quelle non ha il ritmo tranquillo, il tono bonaccione, che usano da noi. Né l’auctioner esaltava gli oggetti, né esortava il signore in fondo a farsi coraggio, né la voce si emozionava per l’abbrivio delle alte cifre.
A velocità stupefacente, centocinquanta pezzi del catalogo sparirono in un’ora e mezza. Libri famosi, stampe celebri, autografi di grandi nomi, mescolati a cose più modeste, erano nominati soltanto col numero. La raccoltina di costumi venduta a cinque sterline, ebbe la stessa considerazione e lo stesso tono del mazzo di tarocchi antichi comperato per più di tre milioni da uno sconosciuto che, si seppe, era il direttore del Museo delle carte da giuoco (c’è anche quello) di Bielefeld, Germania.
Passarono le maestose raccolte di Piranesi (altri tempi; oggi si preferisce vendere i fogli uno per uno), gli acquarelli neoclassici di un viaggio in Grecia, antiquari svizzeri e tedeschi si contesero a piccoli cenni del capo ed altissimi prezzi stampe e gouaches a colori, di paesaggi renani, cascate, foreste, paesaggi nevosi.
S’attaccò con gli autografi, al numero 150 un gruppo di lettere di Leopold von Ranke, vendute a pochi soldi, mentre sette milioni “fece” una copia delle Ballate di William Wordsworth con correzioni autografe.
M’ero preparato uno specchietto, per scatti di cento sterline, fino al tetto per me insuperabile. Non volevo correre rischi. Non riuscii ad avere il “lotto” desiderato perché i venditori lo ritirarono dall’asta. Me ne arrivarono tra le mani alcuni fogli, molti anni dopo, per vie diverse.
Ricordo quella sera, quando ce ne andammo, la bocca un poco amara. Contro una pioggia soffice di un dolce dicembre, l’andito di Christie’s brillava di luce gialla, visto dalla strada.
L’auctioner s’infilò il cappotto scuro col risvolto di velluto, e afferrò l’ombrello. I commessi continuavano ad andare e venire, coi lotti venduti, e gl’invenduti mazzi di vecchie carte senza pace, adunate per un attimo, che domani avrebbero ricominciato a disperdersi ai quattro venti; firme cancelleresche su diplomi feudali, comandi di Napoleone e di Blucher, riflessioni di storici, dottrine di scienziati, bizze di poeti, amori di musicisti, miserie e confessioni di affamati con appuntamenti a breve scadenza con la storia. Tutte mulinanti come foglie che Enea vide nell’antro della Sibilla, con sopra scritti gli ermetici futuri degli uomini.
Da allora ogni catalogo che ricevo, rivedo la stessa scena, e riodo le voci che esalano da quei fogli mulinanti: un momento per farsi riudire di nuovo, fino al nuovo silenzio, nelle pagine di un album, di una collezione, di una cassaforte, dove finiranno, chissà per quanto.
Il catalogo della casa Stargardt di Marburg è il più desiderabile che si possa immaginare. Sfoglio le sue trecento e ottanta pagine, i suoi 1322 numeri, inutilmente, perché, grazie alle nostre poste, è giunto in ritardo, e se anche volessi gareggiare da lontano ormai sarebbe tardi. L’asta è già finita. Non so quindi quali saranno stati i prezzi definitivi, mi oriento dal prezzo base.
I musicisti battono tutti, politici e scienziati.
Goethe, Napoleone e Federico il Grande se la cavano abbastanza bene (rispettivamente sedicimila e dodicimila marchi, ottomila e seimila per lettere importanti, ossia ottomila, sei, quattro e tre milioni, dei nostri), Churchill, De Gaulle e Roosevelt sono in ribasso (250, 300 e 500 marchi) e il maresciallo Tito, con tutta la sua pompa, è in rovina (150 marchi). Fra gli scienziati, una lettera di Darwin “fa” duemila marchi (circa un milione) e una di Linneo, in latino, tre milioni di lire. Guglielmo Marconi se la passa male (200 marchi) in confronto al signor de Mongolfier che, con un bigliettino da firma, balza a 2500 marchi.
Ma se volete una lettera di Schubert dovete partire da 50 mila marchi (25 milioni) mentre Liszt, che ha inondato di autografi mezza Europa, vivacchia tra i tre e i quattrocento marchi.
Per un breve biglietto di Beethoven si parte da venti milioni, e chi voleva una notissima lettera di Mozart, dovette partire da 80.000 marchi, quaranta milioni.
È quella del 5 giugno 1770, scritta da Napoli alla sorella (Bauer-Deutsch, n 189), che comincia “Heunt raucht der Vesuvius starck”, ossia “Oggi il Vesuvio fuma forte”, e poi continua, tra continui lazzi di dialetto e storpiature sue, in italiano: “Andiamo fuor di casa, e poi pransiamo da un tratore, e Dopo pranzo et di poi sortiamo e indi ceniamo, ma che cosa? Al giorno di grasso, un pezzo pullo, overo un piccolo boccone d’un arosto, al giorno di magro, un piccolo pesce, e di poi andiamo a Dormire, est-ce que vous avez compris?”. Aveva quattordici anni, e che quattordici anni, e non si può davvero dire che lui e suo padre corressero il rischio d’ingrassare.
Verdi compare in una lettera attraentissima dove parla dei suoi prediletti quattrini, e del risparmio (mi sarebbe piaciuta, prezzo di partenza 3000 marchi) indirizzata al fattore, da Parigi: “Pare impossibile che tu non pensi mai alla perdita del tempo, e ai denari spesi inutilmente. Bada che dico inutilmente, perché quando sono spesi bene o almeno ci ha una speranza di utilità, allora non mi spiace spendere la più grosse somme. Ma L’inutile è sempre l’inutile, e per l’inutile non si deve spendere neppure un centesimo … Domani sera sarà la terza ed ultima della Messa. Esecuzione splendida e pochi denari…”.
Rossini parla dei prediletti quadri: “Non dimentichi che i francesi non amano quadri che rappresentino Santi o Vergini”. Compare infine (partenza, 3000 marchi) l’ultimo foglio della Ouverture di Cenerentola, che scomparve la sera della “Grande Partition”. Il catalogo dice che vi sono due battute in più che nelle successive edizioni. Chissà da quale deposito riemerse, in cui lo ficcò il ladro, o il suo erede, o colui cui il ladro lo vendette. Il foglio tornerà ad immergersi nella nuova collezione. Ma almeno, c’è una riproduzione a piena pagina. Questa voce, con le due battute mancanti, può cantare ancora.
Da “Il Giornale”, 27 febbraio 1981