x

x

L’eremo distrutto

Mongolia
Mongolia

È ormai da due settimane che percorro in fuoristrada la Mongolia.

Spesso ho avuto occasione di dormire in una gher, la tenda mongola circolare, in turco chiamata yurt. È costruita in feltro e cuoio ed adatta a proteggere dal freddo e dal vento della steppa. Può essere facilmente smontata da queste genti nomadi e trasportata verso nuovi pascoli.

All’interno nulla è casuale e tutto segue riferimenti e regole legate alla religione animista e buddhista. La sua entrata viene sempre rivolta a Sud e in alto dispone di una apertura per l’uscita della canna fumaria della stufa, alimentata con lo sterco secco del bestiame. Sul lato destro (Est) ci sono i letti degli uomini e degli ospiti, mentre a sinistra (Ovest) il letto coniugale e quelli delle donne. A Nord, la zona più importante, è collocato un piccolo altare con immagini buddhiste.

Non si usa bussare, in quanto indicherebbe un’esitazione da parte del visitatore, come se temesse che i padroni non siano pronti ad accoglierlo. È buona educazione accettare il cibo offerto (yogurt seccato, minestra, vodka) prendendolo con entrambe le mani o con il braccio destro sorretto dalla mano sinistra all’altezza del gomito.

Nei giorni scorsi, di fronte ai monti Khognokhaan, ho assistito all’evocazione degli spiriti degli antenati da parte di quattro sciamani in costume con copricapi ornati di penne. La cerimonia è stata ritmata dal battito dei tamburi, inizialmente lento e poi sempre più ritmato.

Adesso mi trovo molto lontano da lì, in un luogo chiamato Baga Gazariin Chuluu, nel deserto di Gobi. È un territorio arido con fondo sabbioso misto a ghiaia su cui crescono radi cespugli.

Scorgo un’altura e con meraviglia scopro un passaggio verso il suo interno. Nasconde tra le rocce un ambiente verde di alberi e con un piccolo ruscello. Vi sono resti di piccole abitazioni. Mi chiedo cosa sia stato questo luogo, chi vi abbia abitato. La situazione mi diventa chiara quando mi appare una grotta. Sulle pareti esterne è tracciato in caratteri tibetani il mantra di Avalokitesvara (OM MANI PADME HUM), il più diffuso nel buddhismo vajrayana che accomuna Tibet e Mongolia.

Questo luogo era dunque un insediamento di monaci eremiti, uno dei tanti fatti distruggere dalla follia fanatica dell’epoca di Stalin. Ignote mani pietose hanno lasciato umili offerte ed eretto piccoli cumuli devozionali di pietre.

Mi sembra di avvertire ancora qualcosa di quelle persone.