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Libero in un mondo di servi

Lecce
Ph. Antonio Capodieci / Lecce

Cosa mi farà libero?

Volendo un po’ giocare con la storia, potremmo associare una parola ad ogni secolo. Si tratterebbe certamente di un’operazione arbitraria, ma innegabilmente utile a dare il via ad una riflessione. Al secolo XVIII per esempio potremmo affibbiare il termine “rivoluzione” poiché, nel bene o nel male, fu questo il giovanile concetto che maggiormente lasciò ai posteri; il XIX invece, lasciate da parte le bizzarrie dell’adolescenza, si radicò in un serio ed entusiasta lavoro, facendo di “progresso” il suo motto. Ma si sa, l’impeto della maturità raramente sopravvive al rimpianto, per cui il secolo XX, come un uomo vicino alla vecchiaia tristemente amareggiato per la giovinezza perduta, carezzò in tutti i modi il dolce nome della “libertà”. Dapprima cercò virilmente di farne a meno ma poi, sofferente, ne divenne così dipendente da vivere solo la scimmiottatura degli ardori del passato. Il XXI d’altro canto è ancora troppo giovane, quasi infante, incapace di proferir la sua prima e sola parola; per questo, nel considerarlo, farò ancora riferimento al suo anziano genitore, il cui inno vibra su quelle labbra ancora imbelli.

Noi che vediamo sorgere questo sole viviamo la nostra vita nell’ossessione della libertà; questo concetto presenta, al giorno d’oggi, due problematiche ben distinte: la definizione e l’amministrazione. Le questioni sono certo distinte, ma non divise, poiché come si può amministrare efficacemente qualcosa di cui non si conosce l’esatta natura? Detto in altri termini, se io non so cosa sia la libertà, come potrò vivere libero?

Il nostro piccolo gioco ci viene qui in aiuto: la libertà che cerchiamo di definire e di vivere oggi, altro non è che l’idealizzazione, stanca ed immemore, di quella rivoluzionaria; e qual è la caratteristica prima di una rivoluzione se non la rottura netta con il passato? Ecco che quindi dietro al dolce suono che il secolo XX ha gridato, e che ancora bagna le labbra infantili del XXI, vi è una libertà costruita sulla privazione, sull’eliminazione, spesso violenta, di elementi esterni al nostro io. Si respira ancora una giovanile arroganza in questo: nel momento in cui non si sa definire qualcosa, ci si limita a dire cosa non è, finché ci si trova in mano solo uno spettro dispettoso che, pur presente, si fa beffa della goffaggine delle nostre dita.

Facendomi anch’io arrogante, provo a dare un’interpretazione della questione: se l’uomo contemporaneo pensa che a limitare la sua libertà sia sempre qualcosa di esterno da sé, allora, idealmente, perfettamente libero è colui che non ha nulla di altro da sé. Ma questo ipotetico individuo potrebbe raggiungere una tale condizione solo in due modi: o nella totale solitudine, estraneo anche alle invisibili forze del cosmo, o nell’universalità, tanto da poter chiamare fratello o figlio anche il più piccolo granello di sabbia.

 

Schiavitù volontaria

L’uomo di fede, che unito al Nuovo Adamo si trova spesso ad essere colui che dà un nome alle cose[1], potrebbe, forse un po’ romanticamente, affermare che quest’ultima libertà è quella propria di Dio, che è familiare ed intimo ad ogni creatura; l’altra invece è quella sognata dal Drago, dal Serpente Antico che, cercando di bastare a se stesso, non ha fatto altro che scoprire con orrore quel vuoto proprio di ogni vita che mai da solo riuscirà a riempire.

Sono certo che chi crede non troverà difficoltà a rintracciare in questa visione della libertà quella realtà spirituale che ogni giorno, nella Chiesa ed in Dio, si trova a sperimentare. Tuttavia chiedo anche a chi non riesce ancora a ritrovarsi in queste parole di seguirmi, solo per qualche riga, e valutare in seguito.

Tempo fa, preparandomi per la solennità di Pentecoste, mi sono imbattuto in un noto autore medievale, Ugo di San Vittore, vissuto a cavallo fra l’XI ed il XII secolo ed esponente di spicco della scuola monastica parigina di San Vittore.

Sfogliando un suo volumetto dal titolo Sei opuscoli spirituali, sono incappato in un’operetta chiamata I sette doni dello Spirito Santo[2]; qui, in apertura, ho potuto leggere un brano che, per la sua pregnanza, vorrei riportarvi integralmente: «[…] il Padre celeste darà lo Spirito ai figli che glielo domandano. Se sono veramente figli, non cercano altro; se cercano altro, sono dei servi mercenari, non dei figli. Chi cerca l’argento, o cerca l’oro, o cerca i beni effimeri, o cerca i beni terreni, cerca un servizio da schiavi, non lo spirito di libertà. Quello che si cerca si ottiene. Se cerchi i beni corporali, ti viene dato quello che cerchi, e niente di più. Se cerchi i valori spirituali, ti viene dato quello che cerchi, e ti viene aggiunto quello che non cerchi»[3].

Ciò che mi ha molto colpito di questo testo è un’affermazione che, specie a noi lettori contemporanei, appare al limite dell’assurdo: solo chi cerca Dio vuole davvero essere libero; chi invece cerca i beni del mondo, preferisce essere schiavo. Non si tratta qui di una svalutazione delle ricchezze corporali, poiché, leggendo con attenzione, si scopre che anche colui che cerca lo spirito le riceverà, pur se non cercate; siccome è evidente che Dio non elargisce nulla che non sia buono, detti beni non possono essere in sé cattivi.

La chiave di lettura è, secondo me, l’espressione “servizio da schiavi”; il testo originale latino riporta il termine ministerium che, significando anche una funzione, un incarico, ci consente di meglio comprendere il senso della traduzione. Gli uomini quindi, per Ugo di San Vittore, si dividerebbero in due gruppi: quelli che vogliono un ufficio da schiavi, allo scopo di ottenere solo benefici corporali e terreni, e quelli che invece puntano a quello spirito filiale di libertà che ha come fine i beni spirituali.

Ciò che appare evidente a questo punto è che i membri di ambedue i gruppi hanno, necessariamente, un rapporto con Dio. La contrapposizione non è quindi fra chi ama il Signore e chi lo ignora, quanto fra chi ne cerca l’intima comunione e chi invece pretende da Lui solo quei beni corporali di cui crede di abbisognare. Vediamo qui riflesso in noi lo stesso smacco subito dal Drago il quale, pretendendo di essere dio a se stesso, si trova invece a scimmiottare la propria autonomia raccogliendo i frutti caduti dalla tavola del Padre.

Ora, Gesù nel Vangelo afferma che lo schiavo è colui che «[…] non sa quello che fa il suo padrone»[4]; quindi, chi sceglie di orientare il proprio rapporto con Dio sul modello del servo è semplicemente colui che non intende conoscere la Divina Volontà ma, costretto a seguirne gli sviluppi in ogni caso, cerca di trarne il maggior profitto possibile. Al contrario, il figlio, o l’amico, è colui che conosce la Volontà del Padre e ne segue il corso non solo consapevolmente ma cooperando.

 

La libertà del figlio

Giunti a questo punto penso sia il caso di tirare un po’ le somme. Chi, cercando una libertà che è la semplice chimera di un’autocrazia impossibile, esclude la Volontà di Dio dalla propria vita, finisce per scegliere un’esistenza da schiavo, mentre chi, al contrario, accoglie detta Volontà, diventa libero. Tutto ciò si comprende nel momento in cui ci rendiamo conto di cosa sia, per ogni creatura, la Divina Volontà. Necessariamente, senza eccezioni, essa è il massimo bene cui si può aspirare; potremmo anzi dire che è il Bene nel quale ogni altro bene trova senso. Questo perché tutti noi siamo creati da Dio e, non essendoci nulla di esterno a Lui, non è possibile trovare un senso al di fuori della Sua Gloria.

Ecco che quindi chi, come il Serpente, rifiuta la comunione con Dio, si trova inevitabilmente a caricare qualche altro bene di una centralità che non gli compete; proprio come lo schiavo, che non conosce la finalità verso cui è diretto, ignorando la volontà del padrone, l’empio lascia che un bene inferiore lo definisca, acquisti illecitamente quella centralità che spetta solo a Dio. Ecco che quindi, mentre s’illude di essere libero ed autonomo, in realtà è schiavo di un signore, quella corporeità simbolicamente evocata da Ugo di san Vittore, che non porta a pieno compimento la sua esistenza ma lo svilisce. Se poi, ad un certo punto, si liberasse anche da quel padrone crudele, l’empio, proprio come il Drago, si troverebbe solo, vuoto, accompagnato solamente da un bisogno cui esita a dare anche un nome. Si troverebbe cioè schiavo di un’autonomia senza scopo.

Il cristiano invece accoglie lo Spirito Santo e, nei Suoi Doni, impara a conoscere con il profondo del cuore quella Rivelazione che Cristo ha portato a compimento. Anche se è colui che più di ogni altro è riempito da una presenza che lo trascende, che lo supera infinitamente, il credente è il solo davvero libero, poiché invece di cercare la sua autonomia nella negazione dell’altro, la trova nella comunione filiale con un Signore che lo completa fino in fondo.

Quando perciò noi cristiani vediamo i pagani della nostra epoca vantarsi della loro libertà, ricordiamo con compassione che essi, inconsapevolmente, servono padroni muti e crudeli, spietati e silenziosi desideri aventi nel vuoto dell’io il loro compimento. Il discepolo di Cristo invece vive apparentemente i limiti di chi è chiamato a seguire, a condividere con un Altro più intimo a sé di se stesso la propria libertà; tuttavia trova in Lui non un padrone, ma un Padre, il cui Amore, a noi donato, gli rivela come quel servizio sia la sola, vera libertà.

 

[1] Cf Gen 2, 19.

[2] Cf Ugo di San Vittore, I sette doni dello Spirito Santo, in Sei opuscoli spirituali (a cura di Roger Baron e Mario Spinelli), ESD e ESC, Bologna 2016.

[3] Ivi, n. 1, p. 131.

[4] Gv 15, 15.

Testo consigliato

Ugo di San Vittore, Sei opuscoli spirituali (a cura di Roger Baron e Mario Spinelli), ESD e ESC, Bologna 2016.