L’impresa comune, il divieto di intese anticoncorrenziali e la disciplina delle concentrazioni

Non ricevendosi altra definizione a livello dell’ordinamento dell’Unione si deve intendere per impresa, ai fini delle regole sulla concorrenza, facendo riferimento alla nozione dettata dalla Corte di Giustizia, qualsiasi entità che eserciti un’attività economica consistente nell’offerta di beni e servizi sul mercato, non rilevando invece né lo status giuridico né le modalità di funzionamento dell’Ente.

Inoltre la Commissione si è espressa affermando che “costituisce un’attività di natura economica qualsiasi attività che partecipi agli scambi economici, anche a prescindere dalla ricerca di profitto”

Su tale tema si è espressa la Corte di Giustizia affermando, in causa Aéroports de Paris, “ la circostanza che un ente disponga di prerogative dei pubblici poteri non impedisce di per sé solo di qualificarla come impresa “Obiettivo principe della normativa dell’Unione Europea, quindi, in tema di concorrenza è quello di creare “un regime inteso a garantire che la concorrenza non

sia falsata nel mercato interno.

La normativa europea in materia di concorrenza trova le sue fonti normative, anche, nei Trattati CECA (1 gennaio 1952) e CEE (1 gennaio 1958), grazie ai quali il nostro ordinamento ha conosciuto una prima vera disciplina antitrust (artt. 65 e 66 Tratt. CECA e artt. 85 e 86 Tratt. CEE).

La legislazione antitrust americana nasce nel 1890 con lo Sherman Act invece la legislazione antitrust europea ha tardato molto a nascere ed ha, senz’altro, tratto grande vantaggio dall’esperienza americana.

L’art. 3 del vecchio TCE annoverava accanto al divieto di imposizione di dazi e all’istituzione del mercato interno, l’instaurazione di un regime volto a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno, all’art. 4 odierno del TFUE si afferma che l’Unione ha competenza esclusiva circa la ”definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno”.

La disciplina della concorrenza ha avuto di recente una evoluzione per quanto riguarda i concetti di imprese, di mercato rilevante in relazione al prodotto.

Per mercato rilevante, ai fini della disciplina sulla concorrenza, si deve intendere: il settore economico e l’ambito geografico all’interno del quale inserire il comportamento e/o l’accordo e valutarne gli effetti sulla concorrenza e sul mercato di riferimento del prodotto.

Per prodotto non basta solo fare riferimento ad un prodotto in quanto tale ma anche in astratto ad un prodotto interscambiabile, infatti se non si hanno dei prodotti interscambiabili non fanno parte del mercato di riferimento.

Necessario sembra chiarire che : un prodotto astrattamente interscambiabile può non esserlo in concreto per abitudini dei consumatori, quindi bisogna far riferimento nell’analisi a quel filone di prodotti interscambiabili dai consumatori.

Il mercato geografico può invece essere definito “ il territorio nel quale tutti gli operatori economici si trovano in condizioni di concorrenza analoghe con riferimento per l’appunto ai prodotti rilevanti”.

In tal senso innovativo abbiamo il Regolamento n.1/2003, la precedente Regolamentazione era il Regolamento n. 17/1962 che ha innovato tale disciplina dopo 41 anni.

La legislazione dell’Unione in tema di concorrenza prevede sotto il titolo VII del TFUE rubricato “ Norme comuni sulla concorrenza, sulla fiscalità sul ravvicinamento delle legislazioni”, la prima parte comprende:

1. le regole di concorrenza applicabili alle imprese consistenti nel divieto di intese che recano pregiudizi alla concorrenza ( art.101 intese restrittive);

2. nel divieto di abuso di posizione dominante (art.102 abuso di posizione dominante);

3. nelle disciplina degli aiuti di Stato ( 107 aiuti di Stato).

Le regole di concorrenza applicabili agli Stati, in particolare disciplinano il controllo sugli aiuti di Stato e ciò al fine di evitare che la liberalizzazione dei mercati, perseguita tramite il divieto di imposizione di dazi venga vanificata da comportamenti dell’impresa e degli Stati tendenti ad isolare i mercati nazionali.

Tutte le relazioni tra imprese sono definite intese, un’intesa presuppone l’ instaurarsi di un rapporto tra una pluralità di imprese.

L’ art. 101 TFUE stabilisce che sono “incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto e per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’ interno del mercato interno”.

I tre elementi ravvisabili, quindi, perché si configuri tale divieto di cui all’art. 101 TFUE sono:

1. comportamenti atti a pregiudicare il commercio tra gli Stati membri;

2. comportamenti atti a restringere la concorrenza;

3. comportamenti atti a formare un’intesa.

Da tale nozione di intesa così come chiarito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, vanno esclusi gli accordi conclusi all’interno di un gruppo in cui le società affiliate sono totalmente controllate dal capogruppo in quanto questi accordi hanno semplicemente lo scopo di ripartire i compiti all’interno del gruppo.

L’art. 101 del TFUE suddetto distingue tre tipologia di intesa:

1. gli accordi tra imprese;

2. le pratiche concordate;

3. le decisioni di associazioni tra imprese.

La prima tipologia di intesa prevede un accordo tra le parti di comportarsi sul mercato in un determinato modo e che esso rappresenti la fedele espressione della comune volontà dei membri dell’impresa circa il loro comportamento nel mercato comune.

La seconda tipologia di intesa consiste in una forma di coordinamento che pur senza rappresentare un vero e proprio accordo costituisce una pratica di consapevole collaborazione tra le imprese stesse a danno della concorrenza.

La terza tipologia si estrinseca in un’associazione di imprese che riunisce le imprese operanti in un certo mercato, prevista dalla legge o nata dall’iniziativa delle imprese interessate.

Per essere rilevanti ai fini del divieto dell’ art. 101 TFUE le intese di cui sopra devono rispondere ad una duplice condizione: devono essere in grado di provocare un pregiudizio al commercio tra gli Stati membri ed avere al contempo per oggetto o per effetto di impedire, restringere o comunque falsare il gioco della concorrenza all’interno degli stessi.

Perché si abbia pregiudizio al commercio e alla concorrenza non è necessario che esso sia attuale ma è sufficiente che si possa potenzialmente riscontrare un intesa in grado di produrlo.

Inoltre il pregiudizio che l’intesa produce ai sensi dell’art. 101 deve essere pregiudizio c.d. sensibile cioè di una certa rilevanza.

Il divieto di cui al 101 TFUE trova nello stesso una deroga ossia si dichiara inapplicabile a quegli accordi tra imprese che “contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico, pur servando agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva, ed evitando di imporre alle imprese interessate restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi, dare a tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui trattasi”.

Sono quindi previste esenzioni che sono disciplinate con appositi regolamenti, si tratta di regolamenti di esenzione emanati dalla Commissione dietro delega del Consiglio.

Per quanto riguarda il sistema delle esenzioni può ricordarsi il Regolamento n. 2790/1999 della Commissione in inerenza agli accordi verticali e le pratiche concordate. L’importanza di tale regolamento e ravvisabile in vari parti dello stesso, stabilendo una disciplina uniforme per tutti gli accordi verticali, inoltre l’importanza si riscontra in quanto sono specificate solo le restrizioni non ammesse statuendo un passo fondamentale verso la semplificazione e la modernizzazione che si realizzerà con il Regolamento n. 1/2003.

In tal senso dopo un lungo e tortuoso processo di riflessioni sull’esperienza maturata arriva il Regolamento UE 330/2010, sottolineando l’importanza di decentrare, semplificare indi modernizzare il sistema delle esenzioni.

A tal proposito va detto inoltre che l’art. 102 del Trattato afferma “che è incompatibile con il mercato interno e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo”.

A ben vedere quindi il Trattato non sembrerebbe, allo scrivente, vietare l’acquisizione di una posizione dominante sul mercato comune o su una sua parte ma lo sfruttamento abusivo di tale posizione.

Riguardo la nozione di sfruttamento di posizione dominante la Giurisprudenza Comunitaria ritiene che esso si riscontri ove il comportamento dell’impresa in posizione dominante sia atto ad influire sulla struttura di un mercato in cui proprio per il fatto che vi opera detta impresa il grado di concorrenza è già sminuito con l’effetto che tale comportamento ostacola con mezzi diversi da quelli cui si impernia la concorrenza normale tra prodotti e servizi, la conservazione del grado di concorrenza ancora esistente sul mercato o lo sviluppo della concorrenza.

In altri termini il diritto di un’ impresa che si trovi in posizione dominante di tutelare i propri interessi commerciali trova il proprio limite e straripa in una forma di posizione dominante incompatibile con il mercato comune quando abbia lo scopo di rafforzare la posizione dominante e di farne abuso.

Dal 1980 in Italia si assistette invece ad una rielaborazione del ruolo del settore pubblico, determinato dalla presenza di inefficienze nella produzione pubblica, deficit di bilancio e anche all’avvento, sia negli Stati Uniti che in altri Paesi europei di politiche di deregolamentazione e privatizzazione di attività tradizionalmente svolte dal settore pubblico.

Il primo quadro normativo a cui l’Italia si assoggettò è rappresentato dalle norme contenute nel Trattato di Roma del 1957, che stabiliva in alcuni articoli regole specifiche a cui dovevano adeguarsi i paesi aderenti al Mercato comune.

L’Italia è stata l’ultimo degli Stati membri a dotarsi di una legge antitrust ad hoc, con l’entrata in vigore, il 10 ottobre 1990, della Legge n. 287, che si ispira direttamente al modello comunitario.

Per quanto riguarda la concentrazione di imprese va detto che:

Il Trattato CE in tema di concentrazione non aveva alcuna previsione specifica, mentre il Trattato CECA richiedeva un’autorizzazione per tutte le operazioni aventi come effetto diretto o indiretto una concentrazione di imprese.

Il fenomeno ha assunto un’importanza sempre maggiore a seguito della realizzazione del mercato comune.

Il Regolamento n. 139/2004 in tema di concentrazione statuisce che le concentrazione di imprese si realizzano in tre casi:

- quando due o più imprese procedono a fusione

- quando una o più imprese acquisiscono, direttamente o indirettamente, partecipazioni di capitale o di patrimonio in un’altra impresa

- quando due o più imprese, mediante costituzione di una nuova società, danno vita ad un’impresa comune.

Il venir meno di tutti i limiti alla libera circolazione dei beni, delle persone, dei servizi e dei capitali, ha causato un’ intensificazione della concorrenza in quanto ha esposto le imprese di ciascun Stato membro alla concorrenza di quelle degli altri.

L’accrescersi della concorrenza a livello comunitario ha costretto le imprese ad modificare le proprie dimensioni, ad aumentare la produzione, e a ridurre i costi per meglio fronteggiare le imprese rivali.

Si distinguono due diverse forme di crescita dell’impresa: una interna ed una esterna.

La crescita interna si ha quando l’incremento delle dimensioni e della struttura dell’impresa deriva dell’investimento di capitali interni alla Società, la crescita esterna consiste nella possibilità per l’impresa di attingere agli investimenti esterni.

Tuttavia, le concentrazioni tra imprese, possono mettere a rischio l’assetto concorrenziale del mercato.

Infatti se in primo luogo una moltiplicazione di operazioni di tipo concentrativo può condurre a strutture di mercato oligopolistiche con conseguente riduzione della concorrenza effettiva, in secondo luogo può addirittura determinare la creazione o il consolidamento di una posizione dominante e la possibile nascita di una posizioni di monopolistiche.

Nel tempo la politica comunitaria della concorrenza ha perseguito due obiettivi principali:

1. provocare lo smantellamento di intese e pratiche protezionistiche volte alla chiusura del mercato comune lungo le frontiere nazionali;

2. facilitare l’adattamento delle imprese alle nuove dimensioni transnazionali del mercato favorendo la cooperazione e la concentrazione fra imprese di Stati membri diversi.

Successivamente, quando nell’ottica dell’instaurazione del mercato comune, le operazioni di concentrazione sono cominciate ad aumentare è sorta la convinzione della necessità di un controllo preventivo di tali operazioni in modo da scongiurare possibili effetti anticompetitivi.

Una volta realizzato l’obiettivo del mercato unico il target della politica comunitaria della concorrenza si è spostato sulla tutela degli interessi dei consumatori, quindi dall’esame fin qui svolto sembra che la legge del 1990 segni da una parte un punto di arrivo e dall’altra un punto di partenza.

Concludendo questo paper sulle peculiarità che hanno caratterizzato la nascita dell’antitrust in Italia, possiamo notare che, sebbene la legislazione sulla tutela della concorrenza ricalchi quella comunitaria, l’avvento di tale legislazione ha coinciso nel nostro Paese con un più generale ripensamento sul ruolo dello Stato sul principio meno Stato e più Mercato. Infatti, l’introduzione di tale normativa a ridimensionato il ruolo dello Stato anche nei settori dei trasporti, energia, comunicazioni, ove tradizionalmente il ruolo pubblico era stato dominante.



Bibliografia

A. Adinolfi, “L’applicazione del diritto comunitario della concorrenza”

Acocella N. (a cura di) (1999), Istituzioni tra mercato e Stato,

Amendola V., Parcu P. L. (2003), L’antitrust italiano, UTET, Torino.

Baumol W., Panzar J., Willig R. (1982), Contestable Markets and the Theory of Industry Structure.

Harcourt, Brace, Jovanovich, New York.

Bentivogli C., Trento S. (2000), Economia e politica della concorrenza, Carocci, Roma.

Bianchi P., Gualtieri G.(1993),Concorrenza e controllo delle concentrazioni in Europa, Il Mulino, Bologna

Caffè F. (1990), Lezioni di politica economica.

Cossutta D., Grillo M. (a cura di) (1987), Concorrenza, monopolio, regolamentazione, Il Mulino, Bologna.

De Vita,M. “Il diritto della concorrenza nella giurisprudenza”

P. Fattori, “La disciplina della concorrenza in Italia”

Gobbo F. (1997), Il mercato e la tutela della concorrenza, Il Mulino, Bologna.

Grillo M. (1987), “Introduzione: Concorrenza, monopolio, regolamentazione”, Cossutta D., Grillo M. (a cura di) (1987).

Grillo M. (1996), “L’autorità garante della concorrenza e del mercato tra tutela della concorrenza e politica industriale”, Economia e politica industriale, n. 91.

Grillo M., Polo M. (1994), “Tutela della concorrenza e antitrust: quali contributi dalla nuova teoriadell’organizzazione industriale”, Economia e politica industriale, n.83.

La Spina A., Majone G. (2000), Lo Stato regolatore, Il Mulino, Bologna.

Lipari N., Musu I. (2000), La concorrenza tra economia e diritto, Laterza, Bari.

Lupi G. (1988), “La tutela della concorrenza in Italia: le iniziative parlamentari nella decima legislatura”, Rivista di Politica Economica, n.12.

Marchionatti R., Pennacchi L. (a cura di) (1991), Discrezionalità e regole, Franco Angeli, Milano

Mori P. A. (1996), “Quale concorrenza? Alcune riflessioni sui fondamenti della concorrenza e della regolamentazione”, Economia e politica industriale, n. 92.

Musu I. (1996), “Il valore della concorrenza nella teoria economica oggi” in Quaderni di ricerca giuridica, Banca d’Italia, Roma.

A. Pappalardo, “Il diritto comunitario della concorrenza”

Pera A. (1997), “Autorità di garanzia, autorità di regolazione e tutela della concorrenza”, Economia pubblica, n.4.

Pera A. (2001), Concorrenza e antitrust, Il Mulino, Bologna.

Pezzoli A., Schiattarella R. (1999), “Le autorità indipendenti” in Acocella N. (a cura di) (1999).

Pontarollo E. (1988), “Teoria economica ed antitrust: idee e proposte per il caso italiano”, Rivista internazionale di scienze sociali, n. 2.

Romani F. (1988a), “Relazione conclusiva della Commissione ministeriale per lo studio della concorrenza”, Rivista internazionale di scienze sociali, n. 2.

Non ricevendosi altra definizione a livello dell’ordinamento dell’Unione si deve intendere per impresa, ai fini delle regole sulla concorrenza, facendo riferimento alla nozione dettata dalla Corte di Giustizia, qualsiasi entità che eserciti un’attività economica consistente nell’offerta di beni e servizi sul mercato, non rilevando invece né lo status giuridico né le modalità di funzionamento dell’Ente.

Inoltre la Commissione si è espressa affermando che “costituisce un’attività di natura economica qualsiasi attività che partecipi agli scambi economici, anche a prescindere dalla ricerca di profitto”

Su tale tema si è espressa la Corte di Giustizia affermando, in causa Aéroports de Paris, “ la circostanza che un ente disponga di prerogative dei pubblici poteri non impedisce di per sé solo di qualificarla come impresa “Obiettivo principe della normativa dell’Unione Europea, quindi, in tema di concorrenza è quello di creare “un regime inteso a garantire che la concorrenza non

sia falsata nel mercato interno.

La normativa europea in materia di concorrenza trova le sue fonti normative, anche, nei Trattati CECA (1 gennaio 1952) e CEE (1 gennaio 1958), grazie ai quali il nostro ordinamento ha conosciuto una prima vera disciplina antitrust (artt. 65 e 66 Tratt. CECA e artt. 85 e 86 Tratt. CEE).

La legislazione antitrust americana nasce nel 1890 con lo Sherman Act invece la legislazione antitrust europea ha tardato molto a nascere ed ha, senz’altro, tratto grande vantaggio dall’esperienza americana.

L’art. 3 del vecchio TCE annoverava accanto al divieto di imposizione di dazi e all’istituzione del mercato interno, l’instaurazione di un regime volto a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno, all’art. 4 odierno del TFUE si afferma che l’Unione ha competenza esclusiva circa la ”definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno”.

La disciplina della concorrenza ha avuto di recente una evoluzione per quanto riguarda i concetti di imprese, di mercato rilevante in relazione al prodotto.

Per mercato rilevante, ai fini della disciplina sulla concorrenza, si deve intendere: il settore economico e l’ambito geografico all’interno del quale inserire il comportamento e/o l’accordo e valutarne gli effetti sulla concorrenza e sul mercato di riferimento del prodotto.

Per prodotto non basta solo fare riferimento ad un prodotto in quanto tale ma anche in astratto ad un prodotto interscambiabile, infatti se non si hanno dei prodotti interscambiabili non fanno parte del mercato di riferimento.

Necessario sembra chiarire che : un prodotto astrattamente interscambiabile può non esserlo in concreto per abitudini dei consumatori, quindi bisogna far riferimento nell’analisi a quel filone di prodotti interscambiabili dai consumatori.

Il mercato geografico può invece essere definito “ il territorio nel quale tutti gli operatori economici si trovano in condizioni di concorrenza analoghe con riferimento per l’appunto ai prodotti rilevanti”.

In tal senso innovativo abbiamo il Regolamento n.1/2003, la precedente Regolamentazione era il Regolamento n. 17/1962 che ha innovato tale disciplina dopo 41 anni.

La legislazione dell’Unione in tema di concorrenza prevede sotto il titolo VII del TFUE rubricato “ Norme comuni sulla concorrenza, sulla fiscalità sul ravvicinamento delle legislazioni”, la prima parte comprende:

1. le regole di concorrenza applicabili alle imprese consistenti nel divieto di intese che recano pregiudizi alla concorrenza ( art.101 intese restrittive);

2. nel divieto di abuso di posizione dominante (art.102 abuso di posizione dominante);

3. nelle disciplina degli aiuti di Stato ( 107 aiuti di Stato).

Le regole di concorrenza applicabili agli Stati, in particolare disciplinano il controllo sugli aiuti di Stato e ciò al fine di evitare che la liberalizzazione dei mercati, perseguita tramite il divieto di imposizione di dazi venga vanificata da comportamenti dell’impresa e degli Stati tendenti ad isolare i mercati nazionali.

Tutte le relazioni tra imprese sono definite intese, un’intesa presuppone l’ instaurarsi di un rapporto tra una pluralità di imprese.

L’ art. 101 TFUE stabilisce che sono “incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto e per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’ interno del mercato interno”.

I tre elementi ravvisabili, quindi, perché si configuri tale divieto di cui all’art. 101 TFUE sono:

1. comportamenti atti a pregiudicare il commercio tra gli Stati membri;

2. comportamenti atti a restringere la concorrenza;

3. comportamenti atti a formare un’intesa.

Da tale nozione di intesa così come chiarito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, vanno esclusi gli accordi conclusi all’interno di un gruppo in cui le società affiliate sono totalmente controllate dal capogruppo in quanto questi accordi hanno semplicemente lo scopo di ripartire i compiti all’interno del gruppo.

L’art. 101 del TFUE suddetto distingue tre tipologia di intesa:

1. gli accordi tra imprese;

2. le pratiche concordate;

3. le decisioni di associazioni tra imprese.

La prima tipologia di intesa prevede un accordo tra le parti di comportarsi sul mercato in un determinato modo e che esso rappresenti la fedele espressione della comune volontà dei membri dell’impresa circa il loro comportamento nel mercato comune.

La seconda tipologia di intesa consiste in una forma di coordinamento che pur senza rappresentare un vero e proprio accordo costituisce una pratica di consapevole collaborazione tra le imprese stesse a danno della concorrenza.

La terza tipologia si estrinseca in un’associazione di imprese che riunisce le imprese operanti in un certo mercato, prevista dalla legge o nata dall’iniziativa delle imprese interessate.

Per essere rilevanti ai fini del divieto dell’ art. 101 TFUE le intese di cui sopra devono rispondere ad una duplice condizione: devono essere in grado di provocare un pregiudizio al commercio tra gli Stati membri ed avere al contempo per oggetto o per effetto di impedire, restringere o comunque falsare il gioco della concorrenza all’interno degli stessi.

Perché si abbia pregiudizio al commercio e alla concorrenza non è necessario che esso sia attuale ma è sufficiente che si possa potenzialmente riscontrare un intesa in grado di produrlo.

Inoltre il pregiudizio che l’intesa produce ai sensi dell’art. 101 deve essere pregiudizio c.d. sensibile cioè di una certa rilevanza.

Il divieto di cui al 101 TFUE trova nello stesso una deroga ossia si dichiara inapplicabile a quegli accordi tra imprese che “contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico, pur servando agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva, ed evitando di imporre alle imprese interessate restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi, dare a tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui trattasi”.

Sono quindi previste esenzioni che sono disciplinate con appositi regolamenti, si tratta di regolamenti di esenzione emanati dalla Commissione dietro delega del Consiglio.

Per quanto riguarda il sistema delle esenzioni può ricordarsi il Regolamento n. 2790/1999 della Commissione in inerenza agli accordi verticali e le pratiche concordate. L’importanza di tale regolamento e ravvisabile in vari parti dello stesso, stabilendo una disciplina uniforme per tutti gli accordi verticali, inoltre l’importanza si riscontra in quanto sono specificate solo le restrizioni non ammesse statuendo un passo fondamentale verso la semplificazione e la modernizzazione che si realizzerà con il Regolamento n. 1/2003.

In tal senso dopo un lungo e tortuoso processo di riflessioni sull’esperienza maturata arriva il Regolamento UE 330/2010, sottolineando l’importanza di decentrare, semplificare indi modernizzare il sistema delle esenzioni.

A tal proposito va detto inoltre che l’art. 102 del Trattato afferma “che è incompatibile con il mercato interno e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo”.

A ben vedere quindi il Trattato non sembrerebbe, allo scrivente, vietare l’acquisizione di una posizione dominante sul mercato comune o su una sua parte ma lo sfruttamento abusivo di tale posizione.

Riguardo la nozione di sfruttamento di posizione dominante la Giurisprudenza Comunitaria ritiene che esso si riscontri ove il comportamento dell’impresa in posizione dominante sia atto ad influire sulla struttura di un mercato in cui proprio per il fatto che vi opera detta impresa il grado di concorrenza è già sminuito con l’effetto che tale comportamento ostacola con mezzi diversi da quelli cui si impernia la concorrenza normale tra prodotti e servizi, la conservazione del grado di concorrenza ancora esistente sul mercato o lo sviluppo della concorrenza.

In altri termini il diritto di un’ impresa che si trovi in posizione dominante di tutelare i propri interessi commerciali trova il proprio limite e straripa in una forma di posizione dominante incompatibile con il mercato comune quando abbia lo scopo di rafforzare la posizione dominante e di farne abuso.

Dal 1980 in Italia si assistette invece ad una rielaborazione del ruolo del settore pubblico, determinato dalla presenza di inefficienze nella produzione pubblica, deficit di bilancio e anche all’avvento, sia negli Stati Uniti che in altri Paesi europei di politiche di deregolamentazione e privatizzazione di attività tradizionalmente svolte dal settore pubblico.

Il primo quadro normativo a cui l’Italia si assoggettò è rappresentato dalle norme contenute nel Trattato di Roma del 1957, che stabiliva in alcuni articoli regole specifiche a cui dovevano adeguarsi i paesi aderenti al Mercato comune.

L’Italia è stata l’ultimo degli Stati membri a dotarsi di una legge antitrust ad hoc, con l’entrata in vigore, il 10 ottobre 1990, della Legge n. 287, che si ispira direttamente al modello comunitario.

Per quanto riguarda la concentrazione di imprese va detto che:

Il Trattato CE in tema di concentrazione non aveva alcuna previsione specifica, mentre il Trattato CECA richiedeva un’autorizzazione per tutte le operazioni aventi come effetto diretto o indiretto una concentrazione di imprese.

Il fenomeno ha assunto un’importanza sempre maggiore a seguito della realizzazione del mercato comune.

Il Regolamento n. 139/2004 in tema di concentrazione statuisce che le concentrazione di imprese si realizzano in tre casi:

- quando due o più imprese procedono a fusione

- quando una o più imprese acquisiscono, direttamente o indirettamente, partecipazioni di capitale o di patrimonio in un’altra impresa

- quando due o più imprese, mediante costituzione di una nuova società, danno vita ad un’impresa comune.

Il venir meno di tutti i limiti alla libera circolazione dei beni, delle persone, dei servizi e dei capitali, ha causato un’ intensificazione della concorrenza in quanto ha esposto le imprese di ciascun Stato membro alla concorrenza di quelle degli altri.

L’accrescersi della concorrenza a livello comunitario ha costretto le imprese ad modificare le proprie dimensioni, ad aumentare la produzione, e a ridurre i costi per meglio fronteggiare le imprese rivali.

Si distinguono due diverse forme di crescita dell’impresa: una interna ed una esterna.

La crescita interna si ha quando l’incremento delle dimensioni e della struttura dell’impresa deriva dell’investimento di capitali interni alla Società, la crescita esterna consiste nella possibilità per l’impresa di attingere agli investimenti esterni.

Tuttavia, le concentrazioni tra imprese, possono mettere a rischio l’assetto concorrenziale del mercato.

Infatti se in primo luogo una moltiplicazione di operazioni di tipo concentrativo può condurre a strutture di mercato oligopolistiche con conseguente riduzione della concorrenza effettiva, in secondo luogo può addirittura determinare la creazione o il consolidamento di una posizione dominante e la possibile nascita di una posizioni di monopolistiche.

Nel tempo la politica comunitaria della concorrenza ha perseguito due obiettivi principali:

1. provocare lo smantellamento di intese e pratiche protezionistiche volte alla chiusura del mercato comune lungo le frontiere nazionali;

2. facilitare l’adattamento delle imprese alle nuove dimensioni transnazionali del mercato favorendo la cooperazione e la concentrazione fra imprese di Stati membri diversi.

Successivamente, quando nell’ottica dell’instaurazione del mercato comune, le operazioni di concentrazione sono cominciate ad aumentare è sorta la convinzione della necessità di un controllo preventivo di tali operazioni in modo da scongiurare possibili effetti anticompetitivi.

Una volta realizzato l’obiettivo del mercato unico il target della politica comunitaria della concorrenza si è spostato sulla tutela degli interessi dei consumatori, quindi dall’esame fin qui svolto sembra che la legge del 1990 segni da una parte un punto di arrivo e dall’altra un punto di partenza.

Concludendo questo paper sulle peculiarità che hanno caratterizzato la nascita dell’antitrust in Italia, possiamo notare che, sebbene la legislazione sulla tutela della concorrenza ricalchi quella comunitaria, l’avvento di tale legislazione ha coinciso nel nostro Paese con un più generale ripensamento sul ruolo dello Stato sul principio meno Stato e più Mercato. Infatti, l’introduzione di tale normativa a ridimensionato il ruolo dello Stato anche nei settori dei trasporti, energia, comunicazioni, ove tradizionalmente il ruolo pubblico era stato dominante.



Bibliografia

A. Adinolfi, “L’applicazione del diritto comunitario della concorrenza”

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De Vita,M. “Il diritto della concorrenza nella giurisprudenza”

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Grillo M., Polo M. (1994), “Tutela della concorrenza e antitrust: quali contributi dalla nuova teoriadell’organizzazione industriale”, Economia e politica industriale, n.83.

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