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L’insoddisfacente definirsi dell’ambito di applicazione dell’Amministrazione di Sostegno

Nota a Corte di Cassazione, Sentenza 12 giugno 2006, n. 13584
Con la sentenza n. 13584 del 12 giugno 2006, la Corte di Cassazione ha, per la prima volta, posto i primi paletti interpretativi alla legge 9 gennaio 2004, n. 6, istitutiva nel nostro paese della figura dell’amministratore di sostegno.

Sin dalle prime letture, il problema di natura sostanziale di maggior rilievo posto dalla novella del 2004 è stato quello relativo alla definizione di un discrimen tra il nuovo istituto e l’ormai vetusta interdizione.

L’incertezza nasce dal fatto che, da una parte, senza ombra di dubbio, stando alla lettera della l. 6/04, l’amministrazione di sostegno può trovare applicazione anche nei casi che potrebbero dare luogo ad interdizione; dall’altra parte, però, posto il problema, il legislatore se ne è sostanzialmente disinteressato, quasi a voler lasciare la questione alla discrezione del giudicante.

Una lettura di tal specie, tuttavia, non pare accettabile, poiché l’interdizione è istituto per sua natura privativo di diritti dell’individuo, assistiti peraltro da garanzia costituzionale quali beni indisponibili del cittadino (artt. 2 e 3), non potendo, quindi, essere affidata al giudice una tale discrezionalità senza precise indicazioni dei presupposti di legge. La Cassazione non pare però orientata in questo senso.

Nella necessità di trovare nella legge detto discrimen, un punto di partenza pare potersi dire essere la primarietà dell’amministrazione di sostegno rispetto alla figura dell’interdizione, pur nell’identità di presupposti: l’interdizione diviene cioè, con la l. 6/04, rimedio residuale rispetto all’amministrazione di sostegno [Su tutti citiamo R. PESCARA in G. CIAN – A. TRABUCCHI (a cura di), Commentario Breve al Codice Civile, VII ed., 2004, Cedam, p. 474].

Tale considerazione si fonda innanzitutto guardando alla collocazione codicistica dell’istituto, che va ad aprire il titolo XII. A ciò andrà aggiunto il fatto che l’art. 1 della l. 6/2004 pone il principio della tutela del soggetto in difficoltà mediante la minore limitazione possibile delle sue capacità: è indubbio che le maggiori garanzie rispetto al fine le presti proprio l’A.d.S.

La residualità dell’interdizione va poi desunta anche dall’art. 413 c.p.c., comma 4°, secondo il quale il giudice "provvede alla dichiarazione di cessazione dell’amministrazione di sostegno quando questa si sia rilevata inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario. In tali ipotesi, se ritiene che si debba promuovere giudizio di interdizione o di inabilitazione, ne informa il Pubblico Ministero affinché vi provveda" [In questo senso il decr. 4 novembre 2004, Tribunale di Pinerolo, ufficio del Giudice Tutelare].

Il citato articolo, va poi letto in relazione al successivo art. 414 c.c., il quale, a conferma di quanto scritto, abbandona il principio di doverosità della pronuncia di interdizione; cosicché, oggi, coloro che si trovano in condizione di abituale infermità di mente, non più "devono essere interdetti", bensì "possono" esserlo solo "quando ciò è necessario per assicurare loro adeguata protezione".

Pare abbastanza chiara, in conclusione, la volontà del legislatore di relegare l’interdizione ad estrema ratio [Vedasi anche I. TRICOMI, Così uno strumento giuridico flessibile introduce una graduazione nelle misure, in Guida al Diritto, 2004, n. 5, p. 26.], anche nei casi che, più o meno pacificamente, prima rientravano nel suo ambito applicativo. Misura estrema la cui applicazione dovrà fondarsi, oltre che sul riscontro dell’infermità di mente grave ed abituale, pure su una duplice valutazione prognostica: una in negativo, sulla concreta inidoneità dell’amministrazione di sostegno; una in positivo, sull’indispensabilità, la necessarietà dell’interdizione ai fini di una "adeguata protezione".

La considerazione dell’interdizione come estrema ratio, d’altro canto, con la pronuncia della Corte di Cassazione, che segue quella della Corte Costituzionale [Corte Costituzionale - sentenza 30 novembre - 9 dicembre 2005, n. 440], non dovrebbe più destare alcuna perplessità, ché si va esplicitamente a dire che la nomina dell’AdS è il primo strumento da utilizzare per i soggetti che versano in stato di incapacità a provvedere ai propri interessi.

Ma se la necessità che venga assicurata "adeguata protezione" rappresenta il criterio che deve orientare il giudice nella scelta tra amministratore di sostegno e tutore, è evidente che la locuzione "adeguata protezione" si atteggia quale clausola generale e lascia comunque il problema di quale sia il significato da attribuirle.

Secondo la Suprema Corte, l’ambito di applicazione dell’AdS va individuato "non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla flessibilità e alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa"; per poi concludere affermando che "appartiene all’apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità dell’AdS alle esigenze del beneficiario".

La pronuncia della Cassazione, invero, pare per un verso potersi apprezzare, poiché cementifica l’idea secondo la quale l’AdS può essere nominato anche in situazioni caratterizzate da una totale incapacità.

Maggiormente criticabile risulta essere, invece, laddove pone il principio secondo il quale il discrimen tra AdS e interdizione, in caso di sovrapposizione tra i relativi presupposti applicativi, andrebbe trovato secondo un criterio funzionale.

Una tesi di tal specie era apparsa in dottrina all’indomani della pubblicazione della l. 6/04 [S. DELLE MONACHE, Prime note sulla figura dell’amministrazione di sostegno: profili di diritto sostanziale, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2004, n. 1, p. 36 ss.] e già veniva definita come "insoddisfacente, epperò […] l’unica atta a mantenere un senso alla scelta legislativa" [G. BONILINI – A. CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, Cedam, 2004, p. 51].

Nello specifico, la posizione cui la Cassazione pare appoggiarsi, sostiene che l’interdizione appare quale strumento da preferirsi all’amministrazione di sostegno laddove, ad esempio, ci si trova dinnanzi a situazioni patrimoniali particolarmente complesse e consistenti: in questi casi, secondo il criterio funzionale, l’interdizione offrirebbe maggiori garanzie di tutela.

Vale la pena porre in rilievo come, seguendo detto criterio, altri parametri non paiono mettersi in evidenza se non quelli esclusivamente economici: l’amministrazione di sostegno, cioè, "soccomberebbe" rispetto all’interdizione quando ragioni di carattere economico fanno preferire la seconda.

A detta di chi scrive, però, l’opinione di certa dottrina e della Suprema Corte stride in maniera evidente con quello che dovrebbe essere uno dei compiti principali della Repubblica, e cioè il "rimuovere gli ostacoli di ordine economico […], che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana" (art. 3, comma 2°, Cost.). In questo quadro, pare difficile giustificare, ad esempio, il divieto per l’infermo di mente di contrarre matrimonio (è impugnabile il matrimonio dell’interdetto ex art. 119 c.c.), quando invece ad altra persona, nelle medesime condizioni di salute ma titolare di un patrimonio meno "consistente e complesso", tale diritto è fatto salvo mediante la nomina, non di un tutore, ma di un amministratore di sostegno.

Oltre a ciò, c’è da dire che, per dare contenuto ad una clausola vaga (l’"adeguata protezione"), si vanno ad utilizzare criteri altrettanto vaghi.

La lettura dell’istituto che pare maggiormente apprezzabile è quella per la quale si dovrebbe promuovere l’interdizione solo quando, per la protezione della persona abitualmente inferma di mente e priva di qualsivoglia autonomia, è necessaria una sua sostituzione tendenzialmente generale e permanente con un tutore, facendosi riferimento in primis all’ipotesi in cui il beneficiario non possa "in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana" (art. 409, comma 2°, c.c.), perché nell’amministrazione di sostegno tale spazio di libertà deve comune essere salvaguardato all’amministrato. L’espletamento degli atti diretti a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana sarebbe cioè il presupposto limite per rendere applicabile il nuovo istituto; laddove tale autonomia sia compromessa in ogni suo minimo e prospettabile manifestarsi, non si potrebbe far altro che affacciarsi all’interdizione [In questo senso anche G. REALE, Finalità della legge 6/04 e valutazioni sulla sua applicazione a un anno dal varo, in A.I.A.F., 2004, n. 3 settembre – dicembre, p. 7].

Nondimeno la posizione espressa non va esente da critiche: con essa si cerca di porre un limite massimo all’AdS ma non si risponde al perché, nel caso prospettato, l’interdizione offrirebbe una maggiormente "adeguata protezione"; epperò, la tesi prospettata, meno delle altre, pare stridere con le norme costituzionali e, più delle altre, si informa della medesima ratio della l. 6/04.

Con la sentenza n. 13584 del 12 giugno 2006, la Corte di Cassazione ha, per la prima volta, posto i primi paletti interpretativi alla legge 9 gennaio 2004, n. 6, istitutiva nel nostro paese della figura dell’amministratore di sostegno.

Sin dalle prime letture, il problema di natura sostanziale di maggior rilievo posto dalla novella del 2004 è stato quello relativo alla definizione di un discrimen tra il nuovo istituto e l’ormai vetusta interdizione.

L’incertezza nasce dal fatto che, da una parte, senza ombra di dubbio, stando alla lettera della l. 6/04, l’amministrazione di sostegno può trovare applicazione anche nei casi che potrebbero dare luogo ad interdizione; dall’altra parte, però, posto il problema, il legislatore se ne è sostanzialmente disinteressato, quasi a voler lasciare la questione alla discrezione del giudicante.

Una lettura di tal specie, tuttavia, non pare accettabile, poiché l’interdizione è istituto per sua natura privativo di diritti dell’individuo, assistiti peraltro da garanzia costituzionale quali beni indisponibili del cittadino (artt. 2 e 3), non potendo, quindi, essere affidata al giudice una tale discrezionalità senza precise indicazioni dei presupposti di legge. La Cassazione non pare però orientata in questo senso.

Nella necessità di trovare nella legge detto discrimen, un punto di partenza pare potersi dire essere la primarietà dell’amministrazione di sostegno rispetto alla figura dell’interdizione, pur nell’identità di presupposti: l’interdizione diviene cioè, con la l. 6/04, rimedio residuale rispetto all’amministrazione di sostegno [Su tutti citiamo R. PESCARA in G. CIAN – A. TRABUCCHI (a cura di), Commentario Breve al Codice Civile, VII ed., 2004, Cedam, p. 474].

Tale considerazione si fonda innanzitutto guardando alla collocazione codicistica dell’istituto, che va ad aprire il titolo XII. A ciò andrà aggiunto il fatto che l’art. 1 della l. 6/2004 pone il principio della tutela del soggetto in difficoltà mediante la minore limitazione possibile delle sue capacità: è indubbio che le maggiori garanzie rispetto al fine le presti proprio l’A.d.S.

La residualità dell’interdizione va poi desunta anche dall’art. 413 c.p.c., comma 4°, secondo il quale il giudice "provvede alla dichiarazione di cessazione dell’amministrazione di sostegno quando questa si sia rilevata inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario. In tali ipotesi, se ritiene che si debba promuovere giudizio di interdizione o di inabilitazione, ne informa il Pubblico Ministero affinché vi provveda" [In questo senso il decr. 4 novembre 2004, Tribunale di Pinerolo, ufficio del Giudice Tutelare].

Il citato articolo, va poi letto in relazione al successivo art. 414 c.c., il quale, a conferma di quanto scritto, abbandona il principio di doverosità della pronuncia di interdizione; cosicché, oggi, coloro che si trovano in condizione di abituale infermità di mente, non più "devono essere interdetti", bensì "possono" esserlo solo "quando ciò è necessario per assicurare loro adeguata protezione".

Pare abbastanza chiara, in conclusione, la volontà del legislatore di relegare l’interdizione ad estrema ratio [Vedasi anche I. TRICOMI, Così uno strumento giuridico flessibile introduce una graduazione nelle misure, in Guida al Diritto, 2004, n. 5, p. 26.], anche nei casi che, più o meno pacificamente, prima rientravano nel suo ambito applicativo. Misura estrema la cui applicazione dovrà fondarsi, oltre che sul riscontro dell’infermità di mente grave ed abituale, pure su una duplice valutazione prognostica: una in negativo, sulla concreta inidoneità dell’amministrazione di sostegno; una in positivo, sull’indispensabilità, la necessarietà dell’interdizione ai fini di una "adeguata protezione".

La considerazione dell’interdizione come estrema ratio, d’altro canto, con la pronuncia della Corte di Cassazione, che segue quella della Corte Costituzionale [Corte Costituzionale - sentenza 30 novembre - 9 dicembre 2005, n. 440], non dovrebbe più destare alcuna perplessità, ché si va esplicitamente a dire che la nomina dell’AdS è il primo strumento da utilizzare per i soggetti che versano in stato di incapacità a provvedere ai propri interessi.

Ma se la necessità che venga assicurata "adeguata protezione" rappresenta il criterio che deve orientare il giudice nella scelta tra amministratore di sostegno e tutore, è evidente che la locuzione "adeguata protezione" si atteggia quale clausola generale e lascia comunque il problema di quale sia il significato da attribuirle.

Secondo la Suprema Corte, l’ambito di applicazione dell’AdS va individuato "non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla flessibilità e alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa"; per poi concludere affermando che "appartiene all’apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità dell’AdS alle esigenze del beneficiario".

La pronuncia della Cassazione, invero, pare per un verso potersi apprezzare, poiché cementifica l’idea secondo la quale l’AdS può essere nominato anche in situazioni caratterizzate da una totale incapacità.

Maggiormente criticabile risulta essere, invece, laddove pone il principio secondo il quale il discrimen tra AdS e interdizione, in caso di sovrapposizione tra i relativi presupposti applicativi, andrebbe trovato secondo un criterio funzionale.

Una tesi di tal specie era apparsa in dottrina all’indomani della pubblicazione della l. 6/04 [S. DELLE MONACHE, Prime note sulla figura dell’amministrazione di sostegno: profili di diritto sostanziale, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2004, n. 1, p. 36 ss.] e già veniva definita come "insoddisfacente, epperò […] l’unica atta a mantenere un senso alla scelta legislativa" [G. BONILINI – A. CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, Cedam, 2004, p. 51].

Nello specifico, la posizione cui la Cassazione pare appoggiarsi, sostiene che l’interdizione appare quale strumento da preferirsi all’amministrazione di sostegno laddove, ad esempio, ci si trova dinnanzi a situazioni patrimoniali particolarmente complesse e consistenti: in questi casi, secondo il criterio funzionale, l’interdizione offrirebbe maggiori garanzie di tutela.

Vale la pena porre in rilievo come, seguendo detto criterio, altri parametri non paiono mettersi in evidenza se non quelli esclusivamente economici: l’amministrazione di sostegno, cioè, "soccomberebbe" rispetto all’interdizione quando ragioni di carattere economico fanno preferire la seconda.

A detta di chi scrive, però, l’opinione di certa dottrina e della Suprema Corte stride in maniera evidente con quello che dovrebbe essere uno dei compiti principali della Repubblica, e cioè il "rimuovere gli ostacoli di ordine economico […], che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana" (art. 3, comma 2°, Cost.). In questo quadro, pare difficile giustificare, ad esempio, il divieto per l’infermo di mente di contrarre matrimonio (è impugnabile il matrimonio dell’interdetto ex art. 119 c.c.), quando invece ad altra persona, nelle medesime condizioni di salute ma titolare di un patrimonio meno "consistente e complesso", tale diritto è fatto salvo mediante la nomina, non di un tutore, ma di un amministratore di sostegno.

Oltre a ciò, c’è da dire che, per dare contenuto ad una clausola vaga (l’"adeguata protezione"), si vanno ad utilizzare criteri altrettanto vaghi.

La lettura dell’istituto che pare maggiormente apprezzabile è quella per la quale si dovrebbe promuovere l’interdizione solo quando, per la protezione della persona abitualmente inferma di mente e priva di qualsivoglia autonomia, è necessaria una sua sostituzione tendenzialmente generale e permanente con un tutore, facendosi riferimento in primis all’ipotesi in cui il beneficiario non possa "in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana" (art. 409, comma 2°, c.c.), perché nell’amministrazione di sostegno tale spazio di libertà deve comune essere salvaguardato all’amministrato. L’espletamento degli atti diretti a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana sarebbe cioè il presupposto limite per rendere applicabile il nuovo istituto; laddove tale autonomia sia compromessa in ogni suo minimo e prospettabile manifestarsi, non si potrebbe far altro che affacciarsi all’interdizione [In questo senso anche G. REALE, Finalità della legge 6/04 e valutazioni sulla sua applicazione a un anno dal varo, in A.I.A.F., 2004, n. 3 settembre – dicembre, p. 7].

Nondimeno la posizione espressa non va esente da critiche: con essa si cerca di porre un limite massimo all’AdS ma non si risponde al perché, nel caso prospettato, l’interdizione offrirebbe una maggiormente "adeguata protezione"; epperò, la tesi prospettata, meno delle altre, pare stridere con le norme costituzionali e, più delle altre, si informa della medesima ratio della l. 6/04.